Nella scena seguente assistiamo, in tribunale, a un processo riguardante la "strage di Carson City". Si era scoperto che alcuni piccoli "mostri" erano usciti dal loro recinto e avevano tentato di giocare con dei "normali" bambini: non c'era stato alcun danno, e anzi i bambini li avevano accolti con curiosità, ma l'evento aveva provocato nella comunità una violenta ripulsa. Una folla inferocita aveva improvvisato una spedizione punitiva massacrando una novantina di "mutanti". Il protagonista racconta:

Poi, la fine del processo. Ma non potevamo condannare noi stessi... Vostro Onore consideri lo stato d'animo dei "normali". L'esasperazione di un padre, di una madre; la situazione eccezionale eccetera. Condannare Smithson e gli altri imputati della strage? Sarebbe come condannare l'Umanità. E così furono assolti tutti. I giurati, in fondo, giudicarono rettamente, sulla base di leggi umane adatte a tutti i casi... fuorché a questo. Perché c'era una legge scritta per chi uccideva un cane, per chi percuoteva barbaramente un cavallo, per chi seviziava una gatta. Ma non c'era nessuna legge per chi uccideva i mostri. Erano fuori della nostra legge. Erano un pericolo pubblico. Dovevano andarsene.

In realtà, scopre il lettore, non soltanto i mostri non sono diversi nella sostanza, quanto risultano addirittura migliori e più intelligenti di noi. A parte la forma esteriore, la mutazione è stata positiva. I "mostri" hanno costruito un'astronave e vogliono lasciare la Terra:

Avrebbero potuto, con la loro scienza, distruggere il mondo... (...) La nave partirà. Sarà mossa forse dalla disperazione, ma si leverà sulla sua colonna di fuoco, verso stelle lontane. E io so già che subito dopo il grande strappo, lasciata la terra pesante che non è più la loro patria, i Mostri si sentiranno più liberi, se non più felici. La gravità del nostro mondo, pesante di buone intenzioni mai realizzate, di promesse mai mantenute, di menzogne più dense del mercurio e del piombo, sarà finalmente sparita. (...) Allora, rimasti soli quaggiù, dovremo sgozzarci fra di noi.

Credo che questo racconto, dalla lettura tuttora consigliabile, sia particolarmente rappresentativo di una certa nostra sf di quegli anni: per scrittura, tematiche, simboli, e anche per capacità di coinvolgere il lettore.

Ancora nel 1962 Carlo Della Corte pubblica l'antologia personale Pulsatilla sexuata (Sugar editore), contenente fra gli altri il racconto Apartheid. I personaggi della storia sono schiavi nella società Usa di un'epoca imprecisata, che ha molto della nostra. Schiavi peraltro molto integrati e che si sforzano, entro certi limiti, di vivere come i loro padroni. Hanno automobili, godono di un minimo d'autonomia economica. Jezebel è tutto sommato soddisfatta della situazione; Remy invece è ossessionato dal sogno di una libertà impossibile, per divenire identico al suo modello ideale. Una notte Remy si ubriaca; al risveglio decide di farsi la barba, "come il suo padrone" (lo straniamento del finale amplifica una verità semplice, ma spesso difficile da conseguire).

Si gonfiò la faccia di spuma di sapone, guardandosi nello specchio con aria soddisfatta. Gli sembrava che la sua faccia fosse un bianco, soffice pallone vagante nello spazio, e pensò che non era molto differente dal suo padrone, il signor Johnson quando si sbarbava. Cantò perfino una vecchissima canzoncina, Saint Louis Blues. Chiuse gli occhi, e cercò di radersi a memoria. Sentiva la pelle tendersi e lacerarsi, il sangue uscire, ma procedeva imperterrito volendo dimostrare a se stesso che aveva ragione. Il dolore lo costrinse a riaprire gli occhi: e quella schiuma satura di sangue azzurrastro, la faccia piena di piaghe su cui le setole continuavano a rizzarsi, dure come l'acciaio, lo spaventarono. No... mai gli schiavi saturniani come lui sarebbero riusciti ad essere simili ai terrestri. Fitte di dolore terribile gli penetrarono il mento, raggiunsero il cuore, gli sembrò che lo dovessero vincere.