Parlare di diritti umani è purtroppo sempre di attualità, così come sono drammaticamente attuali la guerra, la violenza, la distruzione.

Di diverso, rispetto al passato, c'è che ora tutto questo ce lo vediamo in TV. Anche in diretta. Come uno spettacolo. Il che a volte dà purtroppo un principio di assuefazione, provoca una specie di distacco "anestetizzato", che è anche autodifesa contro la sofferenza. Quanta fantascienza in tutto questo, eh? Siamo più o meno emotivamente coinvolti, a seconda non della intrinseca violenza e drammaticità delle immagini, ma piuttosto per quanto la guerra è o non è vicina a noi, ai nostri interessi e speranze e paure, al nostro ambito personale, etnico e culturale.

Non c'è bisogno di parlare di quello che sta accadendo oggi. L'abbiamo anche troppo tristemente presente, tutti quanti. Eppure, ecco che mentre cerchiamo di abituarci alle case distrutte, ai bambini che piangono, ai morti e feriti, mentre passiamo in rassegna tutte le immagini consuete, arriva quella singola immagine, spesso non la più terribile, non la più immediata e cruenta, a far scattare in noi la molla del coinvolgimento. A ricordarci da sola cosa è la guerra.

Per me sono stati quei soldatini prigionieri, giovani, tremanti di paura e insieme sbigottiti, increduli. Lo credo che non li hanno mostrati alle TV americane: ha più forza pacifista una immagine come quella, di mille slogan e denunce.

Ecco, la scrittura di Enrica fa un po' la stessa cosa: va a cercarsi il punto debole nel muro di indifferenza, di pregiudizi, di autodifesa, di egoismo che ci siamo costruiti, ci coglie di sorpresa, fa crollare la barriera. Ci costringe a ricordarci di essere semplici umani. Non figure stilizzate da videogioco. Non eroi tutto d'un pezzo, o consumisti felici, figli della opulenta civiltà occidentale. Non stereotipi di ideologie, religioni, modi di vivere contrapposti. Ma solo esseri umani, fragili, complessi, pieni di contraddizioni e di difetti. Tutti uguali.

Enrica ci obbliga a riflettere, riluttanti, quasi nostro malgrado, ad ammettere quello che non vorremmo mai ammettere, per non far crollare le basi stesse del nostro vivere: che anche se noi pensiamo di aver ragione, l'altro, qualunque altro diverso e contrapposto esso sia, non ha ugualmente torto. Che una volta rimossi cumuli di concetti, idee, impalcature mentali, abitudini di vita, rimane solo la scarna, nuda umanità.

Nuda e spesso sofferente, come sono le immagini, le icone quasi sacre al centro dei racconti di Enrica. Sacre, perché il dolore le ha purificate. Spesso questi protagonisti sono l'altro, il nemico, odiato fino a quel momento dai personaggi contrapposti, e magari anche con ragione. Ma l'immagine della sofferenza rimette in crisi tutto, in discussione anche l'odio e il ricordo dei crimini subiti, e spesso costringe questi personaggi a chiedersi, loro malgrado: davvero occhio per occhio è la risposta, l'unica possibile? Per esprimere questo concetto, spesso, come accade nel primo racconto, Enrica prova anche a identificarsi nel diverso, nell'estraneo, lontanissimo dal suo io, come può esserlo un militare.

Il suo pregio maggiore è che la forza stessa dei suoi racconti e romanzi, lo scossone che ci trasmette, non nasce da pistolotti moralistici, da cronache e denunce reali, ma passa attraverso l'elemento fantastico, nella fattispecie, fantascientifico. Dimostrando così una volta di più, se mai ce ne fosse bisogno, che la fantasia non è necessariamente sogno, evasione, fuga dalla realtà.