Mezzemaniche e magistrati

Summum ius, summa iniuria, dicevano già i latini. E non c’è dubbio che per un ebreo, durante l’impero austro-ungarico (per non parlare del periodo successivo), non doveva essere facile accettare di vivere in una civiltà che lo disprezzava, lo opprimeva e lo sfruttava. È inevitabile che l’amministrazione dello stato e la giustizia dovessero apparire come dei nemici di cui non ci si poteva mai fidare. Teniamo presente che nel 1906, poco prima che Kafka iniziasse a scrivere, s’era concluso in Francia il processo per il caso Dreyfus. Un insieme di menzogne, antisemitismo e ragion di Stato avevano spinto a condannare per alto tradimento un innocente solo perché ebreo: l’ufficiale Alfred Dreyfus. Il perfetto paradigma di questa situazione è narrato nel romanzo Il processo (Der Process, 1925). Ritenuto una delle sue migliori opere, racconta la storia di Josef K., un uomo arrestato e perseguito dall'autorità senza che venga mai a sapere la natura del suo crimine. Nel suo incipit è già contenuta tutta l’angoscia della vicenda: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato.» Il protagonista viene abbandonato a se stesso da chi lo circonda: questa passiva accettazione, da parte degli altri personaggi, di una giustizia che funziona come un fenomeno ineluttabile è uno degli aspetti più sconvolgenti. A nulla servono la razionalità e il sostegno dei pochi amici rimastigli: Josef K. alla fine rinuncia alla difesa e questo prelude all'epilogo della vicenda. Subisce la condanna, inflittagli da un tribunale che non lo ha mai informato in merito alla natura delle accuse a suo carico e che non gli ha mai fornito alcun riferimento per attuare una vera difesa.
Viene così prelevato da due agenti del tribunale e condotto in una cava, dove viene giustiziato con una coltellata, sgozzato come un maiale. Pur non contenendo elementi fantastici o chiaramente distopici, il romanzo è stato la base per numerose opere successive, a cominciare da 1984 (Nineteen Eighty-Four, 1948) di George Orwell. Opera distopica, ma anche racconto morale, il romanzo analizza il ruolo della verità nella società moderna e gli astuti sistemi con i quali essa può essere manipolata. Il protagonista è Winston Smith, un cittadino comune apparentemente osservante delle regole. In realtà non riesce ad adeguare la propria mente al bispensiero, ossia il meccanismo mentale imposto dal regime, che prevede di cambiare le proprie convinzioni all'istante o credere simultaneamente a due affermazioni tra loro contrarie, a seconda del volere del Partito. Winston incontra l’amore e questo lo spinge alla ribellione, ma viene scoperto e denunciato proprio da quelli che credeva i capi della rivoluzione. Il suo amore viene perseguito come un sex crime, un crimine sessuale, ma il vero motivo della persecuzione nei suoi confronti è ben altro. Viene portato in luogo segreto chiamato “Ministero dell’Amore”, dove è sottoposto a un programma di tortura fisica e psicologica per cambiare il suo modo di pensare. Alla fine del ricondizionamento torna libero, oramai disposto a credere e amare il Grande Fratello e a morire felice per lui.
Orwell ammise di essersi ispirato a Il Mondo Nuovo (Brave New World, 1932) di Aldous Huxley e a Kafka per questo romanzo, che è ritenuto il suo capolavoro. Da allora le distopie modellate su 1984 non si contano più: fra gli epigoni più noti credo che si possa annoverare Farenheit 451 (1953) di Ray Bradbury. Ma il più vicino a Kafka mi sembra essere il romanzo di Philip K. Dick Episodio temporale (Flow my tears, the Policeman said, 1974), dove il protagonista scivola in un universo parallelo, nel quale gli USA sono diventati uno stato di polizia e dove tutti sospettano di tutti, tutti spiano tutti e chiunque può essere imprigionato senza appello per una delazione. Temi quali il ferreo controllo sociale, la burocrazia inappellabile, la paranoia, l'incertezza del limite tra realtà e finzione, la diffidenza verso l’universo femminile, sono tipici di Dick ma anche caratteristici dell’opera narrativa di Kafka.

Kafka nella fantascienza
Penso di aver spiegato quanto di kafkiano vi sia nella letteratura odierna, sia popolare che colta. Tanto per fare qualche esempio, non dovreste perdervi: Sottomissione di Michel Houellebecq, Qualcuno volò sul nido del cuculo di Ken Kesey; Il Deserto dei Tartari, I sette messaggeri e Sette piani di Dino Buzzati; Il tallone di ferro di Jack London; Limbo 90 di Bernard Wolfe. È un fatto che una delle principali correnti della letteratura ispirate da Kafka sia proprio la fantascienza. Oltre agli esempi che ho già citato, ce ne sono molti altri. Segnalo alcuni dei principali.
La visione kafkiana di una giustizia ingiusta e di un apparato statale oppressivo e incomprensibile è alla base di opere come Gladiatore in legge (Gladiator-atLaw, 1954) e Il cannone quacchero (The Quaker cannon, 1961) di Pohl & Kornbluth, ma anche de L’occhio cosmico (Speakeasy,1963 – aka The cosmic eye) di Mack Reynolds, nonché di Arancia meccanica (A clock work orange, 1962) di Anthony Burgess.
Oltre ai testi già ricordati, l’idea di una metamorfosi che trasforma l’essere umano in qualcosa di meno che umano è stata spesso usata da Frank Herbert: ne L’alveare di Hellstrom (Hellstrom’ hive, 1973) e Il cervello verde (The green brain, 1966) gli uomini sono trasformati in insetti sociali, mediante modifiche chirurgiche e genetiche. Per non parlare dell’ibrido uomo-verme in L’imperatore – dio di Dune (God emperor of Dune, 1981). Fruttero e Lucentini avevano già sottolineato questo aspetto kafkiano di molta fantascienza quando hanno pubblicato l’antologia di Thomas M. Disch La signora degli scarafaggi (The Roaches – in: Fun With Your New Head, 1971) e lo avevano fatto in modo molto efficace, ripubblicando in appendice ai racconti di Disch proprio l’originale La metamorfosi (Die Verwandiung, 1916).
La paura per una burocrazia fuori controllo è un tema costante di Kafka, ma è spesso presente nella SF, specialmente in quella sociologica degli anni ‘50/60. Vale la pena di rileggere sotto questo aspetto alcuni racconti di Robert Silverberg come Il cancelliere di ferro (The Iron Chancellor – aka The Weight Watcher, 1958) e Il burocrate, o la città programmata (Getting Across, 1973), come anche Squadra censimento (The Census Takers, 1956) di Frederik Pohl, tutti basati sull’idea di una gestione delle funzioni burocratiche affidata ad automi e computer, senza più la supervisione degli esseri umani. La conseguenza è che la morte di uno o più uomini, presi nell’ingranaggio della macchina statale, non ha più nessun valore. Non significa nulla.

Tra le opere squisitamente fantascientifiche, la mia preferenza va a I Computer non discutono (Computers Don't Argue, 1965). È un racconto dello scrittore americano Gordon R. Dickson sui pericoli di affidarsi eccessivamente ai computer. È stato candidato al premio Nebula nel 1966. Dickson prende in prestito la premessa di base e la struttura generale del racconto del 1949 di James Thurber per il New Yorker File and Forget (che racconta la battaglia persa dall'autore nel tentativo di restituire alcuni libri indesiderati, inviatigli dal suo editore), ma invece del bonario umorismo, ricorre a una interpretazione oscura e fortemente ammonitrice, narrata sotto forma di corrispondenza. Il protagonista ha un disaccordo con il suo club del libro. Le sue lettere di protesta vengono ignorate, fino a che il suo debito viene girato a un'agenzia di recupero crediti. Tutto avviene in automatico tramite computer: vi ricorda qualcosa? Ma questo è solo l’inizio: la questione viene portata al tribunale delle piccole controversie, poi si sposta in un tribunale penale. Gradualmente, mentre le accuse contro di lui si fanno sempre più assurde, si scopre che ci sono degli errori nelle schede perforate (allora i computer funzionavano così) che si auto moltiplicano, senza bisogno di alcun intervento umano. L’uomo viene arrestato negli uffici del club del libro e viene accusato di aver ucciso un certo Robert Louis Stevenson (cioè l’autore del libro da cui è nata la vicenda). Poiché non sono disponibili trascrizioni di processi precedenti, il giudice è costretto a fare affidamento sui registri computerizzati, che sono pieni di errori (oggi li chiamiamo “bugs”). Non solo: da quando i registri sono stati informatizzati, il tempo di appello è stato ridotto a cinque giorni. Invece di fare appello, il protagonista si rivolge allora al governatore per ottenere la grazia. Il perdono viene concesso dal governatore, ma un errore nel numero di avviamento postale fa sì che arrivi troppo tardi. Dopo che il protagonista è stato giustiziato, il governatore riceve a sua volta un avviso legale dal computer per aver violato delle leggi…
Non è niente male anche il brevissimo racconto Il certificato (The certificate, 1956) di Avram Davidson, guarda caso anche lui ebreo. Il concetto tipico della fantascienza (l'umanità costretta alla sottomissione da esseri alieni più potenti) riceve un trattamento notevolmente evocativo e dai risvolti kafkiani. In questo caso, cinquant'anni dopo l'arrivo degli alieni, uno della piccola percentuale di uomini rimasti in vita entra nei meandri della burocrazia aliena, sognando una impossibile fuga o almeno la morte. Ma occorre il rilascio di un documento certificato anche per poter morire.
Segnalo infine una antologia del 2011, mai tradotta in Italia: Kafkaesque (cioè l’equivalente del nostro aggettivo “kafkiano”) a cura di James Patrick Kelly & John Kessel. Sono tutte storie ispirate a Franz Kafka con autori quali: J. L. Borges, J. G. Ballard, Philip Roth, Damon Knight e tanti altri, incluso un fumetto di Robert Crumb ispirato a Un artista della fame. Spicca su tutti Il 57° Franz Kafka di Rudy Rucker, che parte da una situazione che ben conosciamo. I candidati alla presidenza degli Stati Uniti sono indistinguibili tra loro e sono degli “impresentabili”. La gente comune è totalmente priva di fiducia negli uomini politici e non va nemmeno più a votare (sembra parlare dell’oggi, ma il racconto è del 1983). Poiché il sistema di voto del futuro è del tutto informatizzato, un hacker riesce a infilare tra i candidati alla presidenza il nome di Franz Kafka e, inaspettatamente, è proprio questo nome a risultare il più votato e potrebbe legittimamente essere eletto Presidente… se fosse ancora vivo. Non credo che Rucker volesse essere profetico ma, pensando alle ultime votazioni americane, sembra che ci sia riuscito. Pare quasi di sentir riecheggiare un famoso aforisma di Franz Kafka: “un cretino è un cretino, due cretini sono due cretini, diecimila cretini sono un partito”.
Qui mi fermo. Penso di aver spiegato a sufficienza quanto di kafkiano vi sia nella letteratura odierna, sia popolare che colta. Altri esempi credo che il lettore possa cercarseli da solo, utilizzando questo articolo come una specie di “road map”, un suggerimento per percorsi letterari.
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