Prologus

– Fratello, una visita per voi.

Il buon Padre pareva, ancor più del consueto, sollecito e premuroso nei confronti di quel vecchio fratello, entrato nella religione dei monaci camaldolesi a una età in cui spesso gli uomini, anziché avviarsi sui floridi sentieri della vera penitenza, si attardano ancora a involversi nei diletti della carne: il maturo vigore e la corporatura da guerriero l’avevano destinato ai lavori più umili, e la benevola accettazione con cui si impegnava in questo compito gli avevano guadagnato, assieme al rispetto di tutti, il nomignolo di Frate Umiltà, né con altro nome conosciuto era, presso i monaci di Santa Maria. In un tempo in cui alla umana sapienza veniva assegnato, dagli stessi uomini di Chiesa, un soverchio valore, egli candidamente mostrava, direbbesi quasi vantandola, la sua ignoranza di lettere, come colui che non sapeva scrivere neppure il proprio nome, cosa che gli aveva impedito di ricevere gli ordini religiosi.

Nessuno mai aveva sospettato che, sotto quelle vesti dimesse, celare si potesse un uomo di non picciolo momento: eppure, la visita che s’annunciava era della massima importanza, e il personaggio, giunto addirittura da Avignone, recava seco una lettera di accompagnamento dello stesso Sommo Pontefice.

Frate Umiltà parve non meno sorpreso di quella visita ma, senza porre domande, lasciò obbediente gli attrezzi agricoli del suo quotidiano lavoro e seguì l’Abate senza proferire parola.

Il visitatore che lo attendeva nel parlatorio era un giovane chierico, all’apparenza e all’abito. Uomo più dedito alla vita mondana che a quella religiosa, si sarebbe detto, ma questo non era un problema suo, né egli era colui che arrogarsi potesse di judicare chicchessia, bastandogli – e ahimè avanzando! – i molti peccati della sua lunga vita. Fosse stato più curioso osservatore, avrebbe in lui distinto gli impressi caratteri del filosofo o del letterato.

– A che debbo l’onore della visita di sì gran signore? – disse chinando il capo con vereconda modestia.

– Non mi sarei permesso di turbare la vostra santa vita, reverendo fratello in Cristo, se ordini stringenti, dallo stesso Trono di Pietro autorevolmente abbassati, non mi avessero comandato questa ambasciata.

L’Abate comprese essere egli inutile alla bisogna e fors’anco molesto, e sussurrò al fratello che il chiostro era libero, trovandosi tutti i monaci raccolti in devota meditazione.

I due attraversarono rapidamente la saletta in cui venivano ricevuti gli ospiti e si avviarono senza indugio verso il cortile.

– Il vostro nome è Buoso Maltraversi – fu il brusco esordio dello straniero.

L’uomo ebbe solo un lieve moto di insofferenza, ma si ricompose immediatamente:

– Lo era, mio signore, quando ancora vivevo nel secolo: da che mi sono convertito alla via di Cristo, quel nome è rimasto sepolto nel mio passato.

– Io mi chiamo Federico Maria della Mirandola – disse l’altro con una certa noncurante solennità; – gli ordini minori mi consentono di considerarmi ecclesiastico o laico a seconda delle convenienze… ovviamente – si corresse subito – della convenienza e del vantaggio di Santa Madre Chiesa.

Buoso annuì.

– So che in gioventù foste un valente uomo di guerra – proseguì il visitatore.

– Se mi trovo qui, in questa religiosa pace, è proprio perché intendo espiare il sangue di tanti fratelli che ho versato in copia sui campi di battaglia; lo confesso, sì: in mia vita mondana fui soldato, ma non di Cristo, bensì degli uomini. A mia parziale discolpa, debbo dire che mai la mia spada si è macchiata d’infamia – concluse con malcelata fierezza.

– Non posso che commendare la vostra retta intenzione – confermò il chierico, senza peraltro tralasciare di percorrere con lo sguardo indagatore il volto dell’antico soldato – ma se permettete, vorrei che alla vostra vita precedente ritornaste almeno con la memoria.

– Cosa volete dunque sapere dell’uomo che un tempo fu Buoso Maltraversi?

Il giovane chierico sorrise mostrando una dentatura perfetta, da ricco uomo:

– Qualcosa accaduto molto tempo fa, diciamo nell’inverno dell’anno 1303 dell’Incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo.

Buoso si ritrasse e sul suo volto rugoso si disegnò l’espressione di un disappunto, ma fu questione di un momento; poi l’obbedienza lo riportò ai suoi doveri; appariva tuttavia evidente come cercasse di differire quanto possibile la risposta:

– Forse mi prendete per un uomo più dotto di quello che sono: le date non mi dicono molto, se non posso legarle a qualche accadimento della mia vita di antico peccatore.

– Scusate, fratello: se può aiutarvi, stiamo parlando di eventi accaduti al tempo in cui servivate in armi messer Bartolomeo della Scala.

Buoso si sentì impotente, come allorché, nel fervore della pugna, l’appiedata plebe abbatte un orgoglioso cavaliere chiuso nella sua armatura; emise un forte sospiro, poi, come un prudente soldato circondato da troppi nemici, si arrese:

– Gli eventi di quel terribile inverno sono tutti scolpiti a lettere di fuoco nel libro della memoria – ammise abbassando gli occhi.

Il chierico lasciò trascorrere qualche istante, senza incalzarlo, ma anche con la fermezza di chi non si lascerà comunque distogliere dal suo dovere.

Nell’intento di aiutarlo ad aprirsi, disse con dolcezza:

– Ne parlaste mai con alcuno, avanti questo giorno?

– Mai, affé mia, con persona viva, neppure in confessione, anche perché non commisi peccato, e questo lo so per certo, e testificato mi fu da persone di grande sapienza umana e salda fede.

– Quali persone, se permettete? – domandò incuriosito il chierico.

– Quelle che di tali eventi furono partecipi, e che meco giurarono non parlarne mai ad altrui.

– Non voglio che biasimiate oltre modo i compagni di quell’avventura, se tale segreto venne poscia da alcuno palesato: chi di loro violò il sacro giuramento prima della sua morte corporale, lo fece spinto da gravi ragioni; sapete leggere? – chiese mostrandogli un fascio di fogli spiegazzati.

– Messer no; sono, come vi dissi, illetterato.

– Da queste carte risulta che il Cavaliere Pierre de Saint-Jacques, durante gli interrogatori subiti a Parigi dagli scherani di Re Filippo di Francia, ammise qualcosa sotto tortura, ma la testimonianza fu passata a verbale, senza che gli inquisitori vi dessero soverchia importanza: forse la scambiarono per il delirio di un uomo ormai impazzito, o per un astuto diversivo. Ma qualcuno lesse, con sorpresa e sgomento, gli atti di quel triste processo alla milizia di Cristo, in cui nobili cavalieri furono forzati a dichiararsi colpevoli di delitti innominabili; e quel qualcuno adesso siede sul Trono del Vicario di Cristo.

Buoso fece un segno di rispettoso assenso con il capo:

– Per anni mi sono sforzato a dimenticare tutto – spiegò – ed ero quasi riuscito a convincere me stesso che ogni cosa si fosse svolta unicamente nella fantasia della mia fervida mente di giovane, ma quanto dite è segno evidente essere la volontà di Colui che tutto muove secondo i suoi fini imperscrutabili, che il mistero sepolto in quella putrida palude torni a rivivere.

– Messer Durante è morto, e pure il giudeo Immanuel; il prode Pietro non è sopravvissuto ai barbari tormenti dei suoi carnefici: restate solo voi.

– E sia – sospirò rassegnato Buoso – se Sua Santità vuol conoscere la vicenda dal suo inizio, cercherò di spremere il succo di essa, quantunque nel mio rozzo volgare espressa, affidandola a chi saprà senz’altro trascriverla nel dotto latino dei sapienti; ma di una cosa vi prego: non interrompetemi sino alla fine.

Lo straniero annuì ed estrasse un libricino bianco, un calamaio e alcune penne d’oca.

– Sono pronto – aggiunse mettendosi in ascolto.