Uno
(primo giorno)
Nathan stava osservando dall’alto del grattacielo. Il terrazzo era contornato da un muretto che non gli avrebbe impedito di buttarsi, se lo avesse voluto, ma non gli sembrava di averne motivo. E allora perché sono qui si chiese, ma la risposta non arrivò. Rimase a fissare i pinnacoli degli edifici resi indistinti dalla foschia grigiastra che sfumava le sagome dello skyline come una gomma gigante passata su un fondale disegnato a matita. Una folata di vento gli accarezzò la nuca e fece ondeggiare le falde della sua giacca. La città si sottraeva al suo sguardo, come una donna incerta del proprio fascino. O invece era lui che aveva qualcosa da nascondere?
Si svegliò di colpo, con una sensazione di vago disagio. Aprì gli occhi con cautela, quasi temesse di ritrovarsi in un posto sconosciuto e forse pauroso. La percezione di un ambiente non troppo ampio, pervaso da una luminosità lieve e diffusa, lo tranquillizzò un poco, ma non del tutto. Quella sembrava semplicemente una camera, la sua camera, e tuttavia non era certo di riconoscerla. Non completamente, almeno.
Si tirò su a sedere. La stanza era priva di finestre, ma sulla parete di fronte c’era uno schermo, incastonato tra due mobili. Sapeva che quello schermo era una finestra sul mondo esterno e, tra le sue funzioni, c’era anche quella di sostituire una finestra di tipo tradizionale. Sgusciò fuori dal letto e mise i piedi sul pavimento. Qualunque fosse il materiale che lo rivestiva, doveva avere la stessa temperatura del suo corpo. Avrebbe potuto trattarsi di legno naturale, ma ne dubitava.
Era nudo, così poté accorgersi di essere completamente glabro. Non ne fu sorpreso, ma gli sembrava di scoprirlo in quel momento. Si passò le mani sulla testa, a verificare che anche il cranio era liscio, cosa di cui non gli importava. Si spostò di poco, toccò un punto sulla parete di destra, contrassegnato da un piccolo riquadro fosforescente, e nella parete si aprì un vano, che conduceva al piccolo bagno.
Lo specchio circolare sul lavandino gli rimandò l’immagine della sua faccia assonnata. Era un incrocio forse strano, ma non sgradevole, di tratti somatici derivanti da etnie diverse. Riconobbe qualcosa di cinese nel taglio degli occhi, un’ombra di Africa nel colore della pelle, e altri influssi non meglio identificabili, che suggerivano un rimescolamento genetico piuttosto intricato.
La combinatoria leggibile in quel volto che ricambiava il suo sguardo gli diede una sensazione piacevole, perché lo qualificava come un cittadino del mondo, anziché inchiodarlo a un’identità riconoscibile. Non si chiese per quale motivo se ne sentisse confortato, al momento avvertiva solo l’urgenza di prepararsi a uscire, perché sapeva di dover andare al lavoro.
Qualunque ritardo avrebbe avuto delle conseguenze, di quello era sicuro.
Uscì sul corridoio e percorse una ventina di metri verso destra. Davanti all’ascensore c’era un uomo intento a fissarsi il polso sinistro, su cui c’era il quadrante di un micropalmare multifunzione, che somigliava a un grosso orologio. Nathan ne indossava uno quasi uguale. Non lo aveva ancora acceso, ma era certo che segnasse l’orario anche da spento. L’uomo era magro, di altezza media, e indossava un vestito scuro simile a suo, dal taglio semplice ma non privo di una certa eleganza.
L’ascensore si aprì. All’interno c’erano due persone: una donna dall’età indefinibile, anche lei alle prese col proprio polso, e un uomo coi capelli neri tagliati corti, e un paio di occhiali dalle lenti viola, dietro le quali si intravedevano a tratti dei piccoli lampi, come se il tizio stesse osservando un minuscolo temporale privato.
L’ascensore scese rapidamente da quel piano, il sedicesimo, fino all’ingresso dello stabile. La porta scivolò di lato e gli occupanti sciamarono fuori. Per strada c’era una notevole confusione, alla quale nessuno faceva caso. Lo stesso Nathan non ci badò, preso com’era dalla fretta di raggiungere la stazione della metropolitana.
Per un attimo, si chiese da che parte fosse. Se lasciava libera iniziativa alle gambe, queste ultime sapevano dove andare. Se invece cominciava a farsi domande, l’informazione si sottraeva alla presa, come una donna che rifiutasse il corteggiamento.
Si avviò con un passo incerto, che divenne mano a mano più convinto. L’ingresso della stazione apparve di fronte a lui, sulla sinistra, simile all’imboccatura di una caverna artificiale. Accelerò l’andatura, per recuperare un ritardo che forse era solo nella sua testa. Quello che c’era nella sua testa era tutto ciò su cui poteva contare, rifletté, e in quel momento aveva l’impressione che ci fosse un po’ meno di quanto gli sarebbe servito.
Il vagone della metro si fermò con uno sbuffo di aria compressa. Le porte si aprirono, la gente sgusciò fuori e venne sostituita da un afflusso un più numeroso, che riempì lo spazio libero quasi ai limiti della capienza. Nathan si guardò intorno, mascherando la curiosità. Era come se si trovasse in una città che non conosceva bene, anche se sapeva che non era vero. Era possibile che la sera prima avesse bevuto troppo, e che fosse questo a procurargli quella sorta di parziale, e intermittente, amnesia?
No, si disse, era più come se la sua attenzione fosse rivolta altrove, non avrebbe saputo dire a cosa, e che fosse quello a dargli la sensazione di non sapere bene dove si trovasse, e perché. Del resto, non è che ne fosse così preoccupato. La testa gli si sarebbe schiarita, ne era certo. Solo che… in che modo avrebbe potuto capire dove doveva scendere? Semplice, si rassicurò, il subconscio gli avrebbe fornito la risposta, bastava che non ci pensasse.
Non sapeva come si chiamasse la stazione dov’era salito, ma a lui interessava sapere quale fosse quella dove doveva scendere. Non ricordava quale fosse, ma l’avrebbe riconosciuta al momento giusto. Una voce femminile scandiva con chiarezza i nomi della fermate, perciò bastava che lui… Proprio in quel momento, sentì annunciare l’arrivo in una stazione il cui nome gli sembrò familiare. Non ne era certo, ma quando il treno si fermò i piedi lo portarono fuori, sul marciapiedi ingombro di passeggeri in attesa.
Due
L’interno della stazione gli dava la sgradevole sensazione di un rifugio antiatomico che fosse stato goffamente mascherato da centro commerciale. Gli schermi in alto trasmettevano solo spot pubblicitari privi di sonoro, e sequenze insensate che sembravano dei trailer di film d’azione. Al piano superiore, un certo numero di vetrine mettevano in mostra manichini vestiti in maniera assurda, con abiti che sembravano appartenere a epoche storiche ormai passate. Era difficile che qualcuno potesse pensare seriamente di comprare uno di quei vestiti, e del resto nessuna di quelle vetrine corrispondeva a un vero negozio, a meno che le porte d’ingresso non fossero state abilmente mimetizzate.
Nathan fu colpito dagli occhi dei manichini, che non erano vacui come avrebbe potuto pensare, ma dotati di pupille che parevano seguire i suoi movimenti. Un semplice effetto ottico, considerò, che tuttavia risultava inquietante. Si affrettò a uscire dalla stazione, preso da un improvviso senso di leggera claustrofobia. Mentre emergeva all’aperto, venne investito da una raffica di pioggia formata da lunghe gocce d’acqua sottili come aghi, che gli sferzarono il viso e la sommità del cranio.
La maggior parte delle persone si proteggeva la testa per mezzo di un cappuccio trasparente che fuoriusciva direttamente dal colletto. Nathan era certo che avrebbe potuto imitarli, ma per qualche motivo preferiva bagnarsi. La pioggia somigliava a una doccia dal getto troppo violento, ma l’acqua non era particolarmente fredda.
I piedi lo stavano portando in una direzione precisa, che corrispondeva a un edificio svettante sull’altro lato di una piazza di forma quadrangolare. Le pareti della costruzione erano formate da ampie losanghe di vetro scuro, incastonate in una struttura di acciaio brunito. L’intero grattacielo emanava un riflesso cupo, come se fosse un gigantesco gioiello formato da pietre dure.
L’ingresso, leggermente rientrato, si apriva sotto un’arcata che somigliava a un omega rovesciato, e in effetti sulla sommità dell’arcata si poteva leggere la scritta “Omega W. Enterprise” in grosse lettere sbalzate, come se si trattasse di un bassorilievo.
La porta a vetri si aprì con un fruscio, con l’apparente innocenza di una trappola ben congegnata. L’atrio era deserto. Proprio di fronte, una donna dalla bellezza innaturale se ne stava seduta dietro la barriera di una scrivania in plexiglas, quasi a rappresentare in modo icastico l’esca di quella trappola potenziale. All’apparire di Nathan, un sorriso luminoso si disegnò sulla sua bocca carnosa.
– Buongiorno, dottor Manselli.
– Buongiorno… – Nathan annaspò per un attimo nel vuoto della sua mente, cercando il nome della ragazza. – Irina – concluse, sorridendo a sua volta.
Ora si trattava di scoprire da che parte dovesse andare. Provò a puntare verso la sua destra, ma il sopracciglio sinistro della donna si contrasse in modo quasi impercettibile, e lui si affrettò a operare una rapida conversione, dirigendosi nell’altra direzione con tutta la disinvoltura che gli riuscì di mettere insieme. Poco più avanti trovò le porte degli ascensori. Schiacciò il pulsante di chiamata del più vicino e attese, cercando di assumere un’aria disinvolta.
Quando l’ascensore arrivò vi salì sopra e schiacciò il numero del piano senza preoccuparsi di guardare la pulsantiera. Era l’unico modo per lasciare che fosse la sua mano a indovinare dove si trovasse il suo ufficio, o quel che era. Dopotutto, come faceva a essere sicuro di lavorare in un ufficio? E se fosse stato un tecnico, o un semplice addetto alle pulizie? Per qualche motivo, gli sembrava che e due ipotesi fossero da escludere. Se per caso… La cabina si arrestò senza scosse, e la porta si aprì scivolando senza rumore sulle guide.
A che piano si trovava? Il settimo. Chissà se c’era una corrispondenza tra il numero del piano e l’importanza del suo incarico. Non ne aveva idea, ma di certo lo avrebbe scoperto di lì a breve. Ora c’era da capire quale fosse il suo ufficio, sempre ammesso di averlo, un ufficio. Il corridoio era bianco e asettico, come quello di un ospedale. Chissà di cosa diavolo si occupavano, quelli che lavoravano lì dentro, a cominciare da lui.
Una figuretta femminile comparve nel suo campo visivo, come se fosse apparsa dal nulla. O c’era un angolo un po’ più avanti, oppure era uscita da una delle porte che si aprivano su entrambi i lati. La donna si muoveva con grazia, ondeggiando lievemente sui fianchi. Indossava una tutina leggera, che le aderiva addosso come una seconda pelle. Gli sorrise mentre si incrociavano, e lui le sorrise in risposta.
– Buongiorno. Le spiace accompagnarmi nel mio ufficio? – domandò. – Ho una cosa da darle.
Era un azzardo, ma lo aveva fatto d’istinto. La ragazza annuì.
– Certo, non c’è problema. – Aveva una vocetta sottile, in linea con la corporatura minuta.
– Dopo di lei – disse Nathan, e attese che si muovesse.
La donna fece dietro front, e si incamminò con la sua andatura aggraziata. Poco più avanti, si apriva in effetto un altro ramo del corridoio, che lei imboccò svoltando a destra. Una ventina di metri più avanti c’era una porta con sopra il numero 714 e una targhetta in plastica col suo nome: “Nathan Manselli – Culture minoritarie”.
Che diavolo voleva dire “Culture minoritarie”? Inutile chiederselo, in quel momento. La mano di Nathan si infilò di propria iniziativa nel taschino della giacca e ne estrasse un tesserino magnetico con il quale sbloccò la porta.
– Attenda qui – disse alla ragazza.
Si infilò nell’ufficio, guardandosi intorno. C’era una scrivania di materiale opaco, forse sintetico, il cui ripiano appariva del tutto sgombro, come se in quel posto nessuno ci lavorasse, e non c’erano mobili in vista. Nathan girò rapidamente dietro alla scrivania e guardò se c’erano dei cassetti. Ne trovò due. Aprì quello di sinistra e vide che all’interno c’erano delle scatole di plastica di varia grandezza. La prima conteneva una piccola farfalla di onice nero. La prese d’impulso e rimase a osservarla per un lungo momento, quasi si aspettasse da lei una risposta chiarificatrice a domande che non aveva neanche espresso.
La farfalla parve vibrare leggermente nella sua mano, ma la sensazione fu talmente fuggevole che non era in grado di dire se fosse stata reale o se l’avesse immaginata. Tornò alla porta, poi porse la scatola alla ragazza in attesa.
– Può farla avere a Irina? – domandò. – Le dica che la riprenderò all’uscita.
La donna fece segno di sì con un cenno del capo. O lui era un tipo importante, lì dentro, o lei era abituata a obbedire. Magari erano vere entrambe le cose. Perché no?












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