James Cameron torna su Pandora con Avatar: Fuoco e Cenere, terzo capitolo ufficiale della saga iniziata nel 2009. Il film è stato girato in contemporanea con il secondo e prosegue l’epopea di Jake Sully e Neytiri. Fin dall’inizio Il progetto è stato pensato come un ciclo multiplo di grande respiro, ma oggi alla vigilia dell’uscita il futuro della serie appare più incerto e problematico di quanto molti fan sperassero. È utile esaminare, pertanto, lo stato della saga, le parole (e le ragioni) di Cameron sull’eventuale interruzione o prosecuzione, le reazioni del pubblico e della critica ai capitoli precedenti provando a dare un giudizio franco sul rapporto tra estetica/tecnologia e narrativa nei film finora prodotti.

James Cameron sul set di <i>Avatar: The Way of Water </i>(2022)
James Cameron sul set di Avatar: The Way of Water (2022)

La saga Avatar ha dimostrato una capacità commerciale impressionante. Il primo film del 2009 è rimasto per anni tra i titoli più redditizi di tutti i tempi, mentre Avatar: The Way of Water (2022) ha superato i 2,3 miliardi di dollari di incasso, confermando al marchio ancora un enorme richiamo internazionale.

Dal punto di vista critico e di pubblico, il bilancio di The Way of Water è stato netto ma articolato: quasi universalmente elogiati gli aspetti tecnici (regia delle acque, motion capture, fotografia, resa IMAX/3D), mentre molti commentatori hanno insistito su una sceneggiatura percepita come più semplice, più archetipica e meno raffinata rispetto alla spettacolarità visiva. Le prime reazioni stampa definirono il film “un prodigio visivo”, e diverse recensioni sottolinearono come la tecnica spesso sovrastasse il cuore emotivo e la complessità narrativa.

Questo mix di incassi mostruosi, lodi agli effetti e rimostranze sulla scrittura è la cornice in cui si inserisce l’attesa per Fuoco e Cenere. Grande curiosità per il nuovo set di immagini e creature, insieme a una domanda sempre più forte sui motivi per cui Cameron sembra investire così tanto negli aspetti tecnologici, e se per fare ciò stia rinunciando (o meno) a costruire storie che restino nel tempo.

Nei mesi passati James Cameron ha rilasciato interviste che possono essere lette su due registri. Da un lato ha ribadito di aver scritto e pianificato i film fino al quinto, con idee anche oltre, e ha affermato che, se la salute e la voglia glielo permetteranno, intende continuare; dall’altro, ripetutamente, ha ammesso che la prosecuzione del ciclo non è affatto garantita: dipende dai numeri, dalle possibilità produttive e dai costi sempre maggiori della tecnologia VFX. Cameron ha detto che Avatar 3 dovrà “fare molti soldi” perché per il proseguimento ci siano gli incentivi finanziari giusti, e che la pandemia, lo streaming e il cambiamento dei comportamenti del pubblico hanno in pratica reso più incerta la sostenibilità economica di saghe così costose. In parole povere: non è una scelta puramente artistica è anche (in larga misura) una scelta industriale.

Altro elemento da non sottovalutare è che Cameron ha affermato in interviste più recenti di sentirsi “in forma” e disposto a dirigere ancora (ha detto “I’m healthy, I’m good to go” in contesti promozionali), ma ha anche lasciato aperta la porta alla possibilità di passare il testimone in futuro, se la mole di lavoro per gli ultimi capitoli diventasse insostenibile per una sola persona. Questo mix di entusiasmo personale e realismo di mercato è la spiegazione più plausibile del tono ambivalente nelle sue dichiarazioni. Dopo due film che hanno mostrato la tecnologia al massimo livello, il ritorno narrativo (in termini di sorpresa emotiva e rinnovamento) può essere difficile da mantenere: Cameron potrebbe ritenere che, senza l’elemento “novità tecnica”, il payoff creativo non giustifichi altri sforzi mastodontici. Di sicuro Disney e i partner valutano spese, guadagni e tempistiche; se le proiezioni non convincono, anche la volontà creativa può essere frenata. E non è detto che un progetto possa contare all’infinito sulla fama del brand, il rischio di affaticamento di franchise è reale e menzionato spesso dagli stessi produttori.

Comunque la mania per Avatar non si è esaurita: i trailer, le immagini promozionali e le campagne IMAX hanno ancora buona presa sugli appassionati, specie in mercati come Cina, Europa e Nord America. Ma l’hype si è evoluta: non è più l’attesa spasmodica del 2009, è una curiosità matura che si interroga su che cosa il film racconterà, oltre a come lo mostrerà.

Sondaggi, forum e recensioni early-screening (quando disponibili) hanno mostrato due gruppi principali: chi è entusiasta per le nuove meraviglie visive e per il mondo espanso di Pandora (fortissime aspettative su creature, ambientazioni e set-piece visivi) e chi guarda con scetticismo, chiedendosi se serva davvero un altro monumento di effetti speciali se alle spalle manca una sceneggiatura in grado di reggere il confronto emotivo. I commenti degli utenti su piattaforme come IMDb e Reddit spesso sintetizzano questo secondo sguardo: bellissimo da vedere, ma con riserve su durata e profondità. In sintesi: l’hype c’è, ma è più cautelativo rispetto al passato curioso e ambizioso, ma anche più critico. Questo atteggiamento è esattamente quello che costringe Cameron e gli studios a fare i conti con la domanda “vale la pena” (economica e creativa) di continuare?

Di sicuro Cameron resta un maestro nel progettare esperienze cinematografiche colossali: l’attenzione al dettaglio visivo, l’uso di tecnologie di motion capture e il design delle creature sono (perlomeno) al livello più alto nell’industria contemporanea. Le sequenze subacquee del precedente episodio hanno ridefinito aspettative tecniche che molti credevano già al massimo. Tuttavia le sceneggiature, pur non prive di momenti riusciti, tendono a schiacciarsi su archetipi melodrammatici e su linee narrative lineari che funzionano soprattutto come supporto alle funambolicità visive. In alcuni passaggi la profondità tematica (etica coloniale, relazione con la natura, trauma) viene evocata, ma raramente approfondita con grande originalità dialettica o psicologica. Critici e pubblico l’hanno notato: ottima resa sensoriale ma struttura narrativa talvolta troppo didascalica.

Per progetti di questa scala la tensione tra show e story è essenziale: spendi centinaia di milioni in ricerca tecnologica e ti aspetti che il ritorno sia spettacolare e mediatico; ma trasformare quella meraviglia in uno spartiacque emotivo e narrativo richiede tempi di scrittura e audacia tematica che non sempre vengono messi al centro. In alcuni momenti la tecnologia sembra usare la storia come pretesto, non sempre il contrario.

Il portatore di cosa?
Il portatore di cosa?

Avatar rimane un’impresa artistica e tecnica importante: quando funziona (e spesso funziona), è cinema totale, immersivo, sensoriale, memorabile. Tuttavia, a oggi, la saga soffre di una qualche forma di squilibrio tra forma e sostanza: la forma (la tecnologia) è spesso più avanti della sostanza (la profondità narrativa). Non è un difetto mortale: si può migliorare con scritture più concise, personaggi più interiorizzati e rischi tematici maggiori.

Cosa ci si può aspettare da Fuoco e Cenere (e cosa sperare)? Alti standard visivi e sequenze spettacolari. Cameron ormai ha messo sul tavolo soluzioni tecniche che difficilmente verranno disattese. Un’ulteriore espansione del mondo, nuovi personaggi e qualche rilettura tematica del rapporto tra guerra, identità e natura.

Cosa sarebbe prezioso vedere? Una narrazione più concentrata: tempi più serrati per far emergere conflitti interni ai personaggi, non solo esterni. Più rischi tematici: spingersi oltre il “conflitto tra umani e Na’vi” verso dilemmi morali meno binari. Ridurre la sensazione che gli effetti siano il fine e non il mezzo: usarli per raccontare, non soltanto per stupire.

Avatar: Fuoco e Cenere arriva in un momento in cui la saga è forte economicamente e tecnicamente, ma debole nel versante narrativo cosa che potrebbe compromettere la nuova risposta al botteghino. Le parole di Cameron, tra volontà creativa e realismo economico, non sono uno spettro negativo, ma un promemoria: anche i registi più visionari devono fare i conti con la sostenibilità del loro progetto. Se Fuoco e Cenere saprà mettere insieme cuore e spettacolo, la saga avrà ancora senso come impresa pluriennale; se invece confermerà solo la superiorità della tecnica sul racconto, potrebbe essere la prova che un mondo visivamente ricchissimo non basta, da solo, a garantire la leggenda cinematografica a lungo termine. E Disney avrà messo la firma su un altro progetto concluso per “fatigue”.