Con Predator: Badlands il franchise dei Predator prende una direzione che, forse, molti fan non si aspettavano. Non più (solo) umani alle prese con cacciatori alieni, ma la storia raccontata dalla prospettiva stessa della specie Yautja. Il film, diretto da Dan Trachtenberg e con protagonisti Elle Fanning e l’esordiente Dimitrius Schuster-Koloamatangi, è stato presentato come un tentativo di rinnovare la saga mantenendo la sua ferocia visiva, ma lavorando con maggiore attenzione al cuore emotivo dei personaggi.
Dan Trachtenberg, reduce dal successo critico e commerciale di Prey (2022), è l’autore di base dietro a Badlands: non solo ne firma la regia, ma è anche accreditato per la storia insieme allo sceneggiatore Patrick Aison (che ha scritto lo sceneggiatura definitiva). Secondo quanto emerso durante la promozione e nelle prime presentazioni ufficiali, fra cui il panel del San Diego Comic-Con, Trachtenberg ha esplicitato la volontà di ribaltare la prospettiva tradizionale del franchise: “Perché non raccontare la storia dal punto di vista del Predator?” è, in sostanza, la domanda che ha guidato il progetto. L’intenzione era duplice: preservare l’identità viscerale dell’action/sci-fi e al tempo stesso trovare una chiave empatica che permettesse al pubblico di entrare in sintonia con un protagonista non-umano.
Nel corso delle prime fasi di sviluppo Trachtenberg e Aison hanno costruito una mitologia che spinge l’arco narrativo più avanti nel futuro rispetto agli altri capitoli, presentando nuove creature (il temuto “Kalisk”) e approfondendo la cultura Yautja in modo più organico. Questo approccio ha richiesto un lavoro di world-building dettagliato: design delle armature, logica sociale del clan, linguaggio e rituali di caccia, oltre a una deliberata scelta di limitare (quasi del tutto) la presenza umana, per evitare il confronto diretto con storie già viste e offrire invece un’esperienza “alienocentrica”.
La sceneggiatura definitiva è stata firmata da Patrick Aison, autore che aveva già collaborato con Trachtenberg su Prey, un elemento che ha facilitato un’intesa creativa consolidata. (budget riportato attorno ai 105 milioni di dollari) ma con un’impostazione da set “coeso” e relativamente contenuto per il cast principale, scelta voluta per conservare intimità e coerenza nella direzione d’insieme.
Le riprese si sono svolte in Nuova Zelanda: scelta logistica e creativa che ha permesso di utilizzare paesaggi vasti e al tempo stesso un’industria tecnica locale di alto livello (effetti pratici, prostetica, motion capture). Il film mescola effetti pratici e CGI, con un forte ricorso al make-up prostetico per la resa fisica dei Predator e a sequenze in motion capture per le performance più dinamiche e per il Kalisk. Le scelte tecniche sono state pensate per mantenere impatto visivo credibile, contaminando il realismo tattile degli effetti pratici con la libertà espressiva del digitale.
Trachtenberg, nelle interviste, ha sottolineato come il nucleo del film sia l’empatia: far sentire lo spettatore vicino a un cacciatore alieno significa costruire motivazioni, relazioni e fragilità riconoscibili. Ha parlato di un set in cui il gioco e l’improvvisazione erano incoraggiati anche quando questo significava re-adattare battute e improvvisazioni nel linguaggio dei Predator sviluppata con l’aiuto di esperti per rendere autentiche le vocalità degli Yautja. Questa attenzione al dettaglio linguistico si è rivelata un elemento narrativo e performativo rilevante: ogni improvvisazione doveva “tradursi” nel codice sonoro della specie, con tanto di click, risonanze e vibrati caratteristici.
Trachtenberg ha inoltre spiegato la sua scelta di non includere protagonisti umani: «Volevo che il pubblico imparasse a tifare per un Predator», una frase che sintetizza lo scopo di ridefinire il rapporto spettatore-mostro. La strategia ha richiesto un lavoro di fiducia con gli attori e con il team di effetti: la resa emotiva doveva funzionare pur senza i gesti mimici tipici dell’attore umano “puro”.
Elle Fanning, interprete ormai consolidata con una carriera che attraversa drammi indipendenti e grandi produzioni, assume in Badlands un compito insolito: interpretare una sintesi tra robotica e vulnerabilità, spesso in condizioni fisiche estreme (il suo personaggio è un synth letteralmente diviso in due). Dimitrius Schuster-Koloamatangi, invece, è l’attore che interpreta Dek, il giovane Predator emarginato che si mette alla prova contro la leggenda del Kalisk. Si tratta del suo primo ruolo importante fino a oggi e dell'occasione di mostrare un lavoro di trasformazione fisica e interpretativa.
Una delle scelte più affascinanti della produzione è stata lo sviluppo del linguaggio Yautja, un linguaggio alieno coerente e testabile sul set. Collaborando con esperti di linguistica e con sound designers, il team ha messo a punto un codice fonetico (click, vibrati, soffi) che ha richiesto agli attori di imparare pattern e intonazioni.
Ma, dopo tutte queste premesse, il film com’è?
È un classico popcorn movie che va visto al cinema per apprezzare inquadrature, effetti speciali e sonori. Se lo aspettate in streaming probabilmente sembrerà solo un telefilm più lungo. Il twist consapevole sulla scelta del protagonista (lo Yautja) è accompagnato dall’ulteriore decisione di scegliere un Predator “debole” che viene spinto da questa sua problematica ad andare a cercare la “Preda più cattiva” per riscattarsi. Nelle interviste di presentazione registe e autori hanno messo in mezzo temi universali quali il rito di passaggio, l’emarginazione sociale, il rapporto tra creatore e creatura (nel caso dei synth interpretati da Fanning), e la ricerca di identità in una società regolata da codici di onore auspicando che questa lettura possa consente al film di parlare anche a chi non è interessato agli alieni: la storia può essere letta come un racconto sulle seconde possibilità e sull’empatia verso l’altro.
Se questo era l’obiettivo mi sa che l’hanno mancato, non è parlando di empatia e facendo recitare dialoghi elementari che si ottiene un simile risultato, ma chi andrebbe a vedere Predator per i dialoghi? (Ok, sì, “Non ho tempo di sanguinare” è rimasta iconica). Se, invece, la sfida era fare un film senza nemmeno un umano (il synth della Fanning è, ovviamente, prodotto dalla Weyland Yutani) che possa spingere il mondo di Predator a incrociarsi di nuovo con quello di Alien in un lontano (e forse remoto) futuro raccogliendo e ampliando quanto è stato fatto nelle vecchie serie a fumetti di Dark Horse, strutturato come un gioco di sopravvivenza di livello in livello, ok, può andare.
Personalmente ho trovato, al confronto di Badlands, più innovativo il precedente Prey. Anche se il finale di Badlands potrebbe diventare altrettanto iconico per la potente sublimazione del concetto di “famiglia disfunzionale” all’ennesima potenza.


















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