Friedrich Nietzsche dice che la follia è piuttosto rara nei singoli, ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli e nelle epoche è la norma. La follia non è qui la disorganizzazione mentale della psicologia clinica, ma una disfunzione sociale derivante dalla confusione tra reale e immaginario. Poiché l’immaginario non è eliminabile, vien da pensare che gli umani come specie siano, necessariamente, folli. Chiediamoci se questa conclusione sia corretta.

Sigmund Freud distingue tra nevrosi e psicosi, e spiega che la differenza tra nevrosi e normalità è solo una questione di grado. Jacques Lacan dice che la Realtà contiene tre registri: l’Immaginario, il Simbolico, e il Reale. Qui per realtà s’intende ciò di cui facciamo esperienza, e per registro la modalità di tale esperienza. Il simbolico è il registro linguistico, rappresentativo, espressivo e comunicativo. Il reale (dice Lacan) è ciò che non può essere simbolizzato, ciò che si impone. Questo non significa che non posso rappresentarmi il reale, ma che il reale non è riducibile a simbolo. Il reale eccede (va oltre) rispetto al simbolico.

Prendiamo come esempio un incidente d’auto in cui qualcuno si rompe una gamba. Questo episodio si può raccontare, dunque è simbolizzabile, però la gamba spezzata di per sé non è qualcosa di simbolico, bensì di reale. Per cogliere il punto, supponiamo che l’incidente accada invece nella scena di un film. In tal caso, la gamba rotta è un elemento puramente simbolico (di fiction narrativa) e non ha a che fare con il reale, bensì con l’immaginario.

Il rapporto con la realtà è diretto o indiretto. La realtà ci tocca, oppure ci arriva come informazione. Nel primo caso abbiamo a che fare con il reale, nel secondo caso con il simbolico. Sia il reale che l’immaginario sono simbolizzabili, ma il reale non si esaurisce nel simbolico, mentre l’immaginario sì. Il reale di Lacan ha molte facce, ma qui è inteso nel senso del principio di realtà di Freud.

Se ora torniamo alla questione della follia, vedremo che follia significa sostituire a livello simbolico l’immaginario al reale, ma credendoci, cioè supponendo che la realtà contenga elementi di reale che invece sono immaginari. Questo scambio è pericoloso. Si pensi a Don Chisciotte che scambia i mulini a vento per dei giganti: è una follia che rischia di nuocergli.

Lo scambio tra immaginario e reale è pertanto un rischio, e si tratta di capire se chi commette tale errore cerchi oppure no di coinvolgere altri nella sua follia. James Ballard è stato un grande esploratore di questo paradigma della follia del singolo, che la usa per modificare la propria realtà in termini di pulsioni profonde.

Nella vita di tutti i giorni, dato che i media ci forniscono una quantità enorme di informazioni, diventa complicato distinguere tra immaginario e reale, e quindi (per definizione) tra follia e verità. Il punto non è semplicemente quanto ci sia di vero nella situazione raccontata, ma il modo in cui viene utilizzata mediaticamente, ovvero (secondo i casi) in termini (più o meno) oggettivi, oppure manipolatori.

La manipolazione non è necessariamente una notizia inventata, se non nelle sue forme più rozze. In genere è manipolazione di qualcosa di vero, in modo da distorcere il significato dei fatti. Si noti che le nostre premesse ci portano a contrapporre non la verità alla menzogna, ma la verità alla follia. Se qualcuno ci racconta una realtà distorta (in cui l’immaginario è spacciato per reale) e se crede a ciò che racconta, non solo questo qualcuno è folle, ma ci coinvolge nella sua follia nel momento stesso in cui crediamo alle sue parole.

In più, il fatto che qualcuno non creda affatto a ciò che racconta non elimina la commistione tra reale e immaginario. Pertanto, chiunque prenda per buono il racconto si troverà in una situazione di scambio tra immaginario e reale, e dunque nella follia (intesa come distorsione della realtà). Tra ingannarsi e venire ingannati non c’è differenza di stato, perciò lasciarsi ingannare fa scivolare nella follia (si pensi all’Otello di Shakespeare).

È opportuno precisare che l’immaginario non è un problema, ma lo diventa se viene sostituito al reale. Se l’immaginario è un supplemento del reale lo arricchisce, se si sovrappone al reale lo maschera. La realtà contiene sempre dell’immaginario, si pensi alle opere d’arte e alla fiction, che arricchiscono il reale senza scalzarlo (“Questa non è una pipa” scrive René Magritte sotto l’immagine di una pipa). Le ideologie sono intrise di immaginario, e in genere cercano di sostituirsi al reale (se qualcuno se lo chiedesse, la democrazia non è un’ideologia ma una pratica).

Per decidere occorre distinguere tra immaginario e reale. Premesse erronee producono azioni sbagliate. Nella Parigi di fine Ottocento, Alexandre Gustave Bönickhausen (poi Eiffel, sì, proprio quello della famosa torre), coinvolto ingiustamente nello scandalo dei fondi del canale di Panama, fu dapprima condannato e poi assolto, ed ebbe contro l’opinione pubblica perché era stata diffusa la falsa notizia che egli fosse di una certa etnia (alquanto malvista).

Da questo esempio di cronaca divenuta storia si può vedere come l’immaginario creduto reale (attraverso la propaganda, ovvero per mezzo di un cattivo uso del simbolico) porti ad agire in modo irrazionale (“folle”, cioè non adeguato al reale). Il problema deriva dal fatto che per evocare un fantasma (che è una fantasia dalle radici inconsce) è sufficiente nominarlo. Lacan scrive da qualche parte che basta dire la parola “elefante” e ci troviamo subito con un pachiderma in mezzo alla stanza.

Le parole evocano il reale anche quando la corrispondenza con il reale non esiste. Che sia vera o meno, una notizia colpisce se viene data in modo ripetitivo e martellante, nello stile descritto in romanzi distopici come 1984 di George Orwell (del 1949) o Brave New World di Aldous Huxley (del 1932). In altri casi le notizie vengono offerte in un formato dicotomico, con due schieramenti già pronti e contrapposti, e l’invito implicito a sceglierne uno. Più precisamente, il formato dicotomico riguarda la modalità con cui la notizia viene confezionata. Si offre insomma la possibilità di scegliere tra due opzioni. Chi non vuole accodarsi alla versione mainstream trova bell’e pronta un’alternativa che rovescia la narrazione principale.

L’opportunità di scelta crea l’impressione che l’informazione sia fornita in modo neutrale, ma una situazione complessa non si descrive per mezzo di affermazioni contrapposte, una sola delle quali sarebbe vera. Ciò che occorre è una descrizione che riesca a illuminare le diverse sfaccettature che sembrano escludersi a vicenda. Di fatto le contrapposizioni sono spesso mal poste, e una falsa contrapposizione non è una scelta, ma un modo per produrre confusione (vuoi bene più a mamma o a papà?).

La descrizione dicotomizzata di un evento spinge il pubblico a schierarsi in modo polarizzato per l’una o per l’altra parte che vi è coinvolta. Se non ci sono attori in gioco, ci si schiera per la notizia, cioè per una delle due narrazioni fornite da chi la riporta. Si crea così una forma di pensiero collettivo che si può definire “conformismo dicotomico”, espressione che sembra indicare un ossimoro, ma individua invece la tendenza all’allineamento (non per riflessione ma per riflesso) sull’uno o l’altro di due schieramenti.

L’informazione polarizzata pretende che un’affermazione semplice possa riassumere una situazione complessa, e che la libertà di scelta tra due opinioni contrapposte (quali che siano) escluda la manipolazione e il conformismo, perfino l’errore. Ma in verità un’alternativa fasulla non garantisce affatto la libertà del pensiero, semmai è un modo per imbrigliarlo.