Prologo

– Carne di topo, bah! – borbottò il ragazzo con una smorfia feroce. La luce del giorno che declinava si rifletteva sulla coda liscia e nuda di un grosso topo prataiolo intento a bere.

Il ragazzo, Kàido, aveva fame, e già da due ore era in agguato presso la pozza d’acqua, nascosto nell’erba alta, aspettando che un animale qualsiasi andasse ad abbeverarsi. Ma fino ad allora non si era presentato nulla di commestibile.

– Non sono così disperato da mangiare quello schifo. – si disse ancora Kàido incoccando la freccia e colpendo il topo. Lo “schifo” fece un balzo in aria e ricadde giù, letteralmente spostato di qualche metro per l’impatto con la freccia, progettata per animali di taglia decisamente superiore.

Kàido con aria disgustata recuperò la sua arma e tolse la pelle alla preda, incidendola abilmente con un coltello: – Accidenti – esclamò – è più grosso il buco provocato dalla freccia, che non l’animale intorno al buco!

Poi accese un piccolo fuoco di sterpi, e ci ammucchiò sopra pigne e rami di pino, per ravvivarlo. L’odore della resina bruciata era acuto e dolce.

– Tutto, ma non i topi: non riuscirei mai a buttare giù la loro sudicia carne puzzolente di palude. – brontolò Kàido più tardi, inghiottendo voracemente il boccone semicarbonizzato che era diventato il topo.

Intorno, gli alberi erano ormai diventati sagome scure, e non era prudente indugiare vicino all’abbeveratoio: gli animali notturni, Kàido lo sapeva, erano forniti di grossi artigli, di denti affilati, di un carattere deprecabile, di una notevole mole, e di un appetito in proporzione.

Cercando di ignorare le esigenze del suo stomaco, il ragazzo si incamminò verso il rifugio di tronchi dove passava di solito la notte, dicendosi con filosofia che avrebbe rimediato la mattina dopo: alle maledette bestiacce prima o poi sarebbe venuta sete, e lui sarebbe stato alla pozzanghera, unto di grasso per difendersi dal freddo e per mascherare il suo odore, con la mira resa infallibile dalla fame.

Un’alba gelata cominciava a serpeggiare tra i rami degli alberi: l’orlo delle colline era sempre più chiaro. Kàido, irrigidito dal freddo, aveva il volto magro disteso in un sorriso: un cervo stava immobile sull’orlo della pozzanghera; la nebbiolina che saliva dall’acqua nascondeva le zampe dell’animale, rendendolo simile a un miraggio.

Poi il cervo con un balzo silenzioso sparì, messo in allarme da un breve volo di folaghe che si era levato alla sua destra con un improvviso frullo d’ali.

– Ci mancavano le oche! – quasi singhiozzò il ragazzo. La fame lo rendeva lucido in maniera innaturale, acuendo le sue percezioni, e i suoi pensieri avevano quasi la consistenza della realtà.

“Chissà se sopravviverò a questo inverno…” rifletté. E poi: “Gli animali stanno diventando scarsi e diffidenti, si sta preparando una brutta stagione. Devo andarmene da qui”.

L’anno prima si era spinto nella città sulla costa, a est, ma non c’erano molte possibilità di guadagnarsi la vita, sul mare, per un ragazzo di diciassette anni, tutto sommato poco scaltro, e soprattutto digiuno delle nozioni che permettevano agli altri isolati come lui di mimetizzarsi tra gli integrati e di non farsi beccare dalle guardie ladane.

Infatti era stato individuato quasi subito, e l’avevano salvato solo una certa velocità di riflessi e una certa ricettività alle sensazioni di pericolo, mutuate entrambe dalla lunga convivenza con gli animali selvatici. Non per niente era sempre vissuto nei boschi.

Ma Kàido aveva riflettuto a lungo sugli errori commessi, e adesso si sentiva quasi sicuro di potersela cavare, e di riuscire a fingersi un normale cittadino condizionato: – Il tempo passa in fretta. – mormorò leccandosi le labbra screpolate dal freddo, giovane lupo teso a sopravvivere –Dove sarò tra cinque anni?

1.

La snella nave biposto stava attraversando una zona di Spazio nella quale si agitavano bizzarre spirali gassose. Corpuscoli intensamente luminosi erano alla deriva in mezzo alle pigre volute dei gas, e parevano catturare tutta la lontana luce delle stelle, rifrangendola e scomponendola come se fosse passata attraverso un prisma.

All’interno della nave, un giovane umano e un piccolo alieno tozzo, fornito di due antenne sottili, guardavano, ugualmente incantati. Dietro la lastra rotonda dell’oblò, illuminati da tutti quei colori, i due sembravano sfolgoranti pesci tropicali.

– La fata Morgana dello Spazio: siamo fortunati, c’è chi ha vissuto una vita, quassù, senza mai vederla. – disse l’umano.

– Si chiama impropriamente fata Morgana, dal momento che tale fenomeno fisico è possibile solo nei pianeti in possesso di una atmosfera composta da… – aveva cominciato l’alieno. L’astronauta lo interruppe, dandogli un affettuoso pugno sul piccolo stomaco prominente: – Smettila, Bolas, non riattaccare con le lezioni. Sono stufo di un compagno saccente e presuntuoso come te!

– Tu, Kàido, sei cresciuto come un selvaggio primitivo sul pianeta dell’Origine, badando solo a riempirti la pancia e a fuggire i Ladani – replicò il Bolas gravemente – e non sei in grado di apprezzarmi; ma è inutile che io faccia mostra di modestia tacendo il mio sapere: una rosa è una rosa anche se le cambi il nome, tanto per citare il passo celebre di una vostra antica ballata.

– La rosa saresti tu? – chiese il giovane umano ridendo.

– Non puoi negare che attualmente ne abbia il colore. – rispose l’alieno guardandosi pensosamente gli arti simili a mani che in quel momento erano di un delicato carnicino tendente al porpora. E l’uomo fletteva le sue dita, ed erano rosa e arancio.

La radio di bordo crepitò ed emise un richiamo sulla banda di emergenza, cogliendoli di sorpresa.

– Kàido… Kàido… Kàido… – stava chiamando qualcuno da qualche parte dell’universo – Kàido… se sei in ascolto, fatti riconoscere…

Le volute dei gas erano più rarefatte, adesso, ma ogni tanto incontravano ancora un corpuscolo vagante che li investiva con la sua pioggia di lucciole sfavillanti, e l’uomo e l’alieno sedevano al quadro comandi come arlecchini vestiti di luce.

– Sembra agosto sul mio pianeta… – disse piano Kàido – C’erano decine e decine di stelle cadenti che solcavano il cielo…

– Perché vuoi cacciarti nei guai? – chiese tristemente il Bolas, riallacciandosi a un altro discorso che gli interessava di più.

– È troppo tempo che voliamo sospesi oltre le nuvole. È arrivato il momento di cercare qualcosa da fare. – rispose Kàido smettendo di fantasticare sul suo pianeta.

– Cría cuervos… alleva corvi e ti beccheranno gli occhi, come dice il poeta. Ecco che l’allievo dà ordini al maestro. Ma tu sai che sei ricercato: chi ti dice che questo strano convegno proposto da sconosciuti non sia una trappola? Con la faccia da ribelle che ti ritrovi, non appena metterai piede a terra ti prenderanno e ti trasformeranno in un docile zombie contaminato. Sarà un piacevole cambiamento, allora, averti come compagno di viaggio – la voce dell’alieno era sognante – sarai quieto e rispettoso, quando ti dirò di fare qualcosa risponderai signorsì scattando sull’attenti, e…

– Non ci sperare – ghignò l’astronauta facendogli una smorfia – le loro polveri non mi fanno nessun effetto: sono un immune naturale. Dubito che riuscirebbero a trasformarmi in zombie. E poi hanno altro da fare che tendere trappole a me.

– Chi altro, se non la polizia ladana, potrebbe avere scoperto il nostro codice di chiamata?

– Lascia perdere il codice di chiamata: capisci, Bolas, se non vado dove ci hanno fissato questo dannatissimo appuntamento, mi chiederò per tutta la vita chi sono quelli che mi hanno inviato il messaggio, e cosa avrebbero voluto da me di così importante da utilizzare la banda di emergenza.

– E se ci andrai – brontolò l’alieno – non ti resterà molta vita per goderti la tua curiosità soddisfatta.

– Non essere pessimista, Bolas: da quando la prudenza fa parte delle tue virtù?

Gradualmente le spirali gassose divennero veli sfilacciati e inconsistenti, mentre si tornava a vedere la fredda oscurità tempestata di stelle. E infine un mondo azzurro cominciò a occupare lo schermo. Azzurro di nuvole e di sterminati oceani. Un mondo che agli inizi del tempo si era chiamato Terra.

– Se guardo i mari, giù, mi sembra quasi di sentire il vento salato sulla faccia. – rise Kàido eccitato – Non hai idea, Bolas, di come ti inzuppa l’acqua quando è inverno e c’è tempesta, mentre le onde fanno rollare la tua barca come se fosse tirata da mille delfini impazziti! E il colore del mare è fango e piombo, e il colore del cielo è fango e piombo, e tu, nel mezzo, stringi i denti e i pugni, e ridi, e scommetti sulla tua vita!

– Oh, quelli che ti hanno chiamato sapevano quello che facevano, quando hanno fissato qui il luogo dell’appuntamento. – sospirò il Bolas – È già la quarta volta, da quando ci siamo imbarcati, che con una scusa o con un’altra atterriamo sul pianeta dell’Origine, e, come dice un antico poema cavalleresco, tanto va la gatta al lardo, che ci lascia lo zampino: sembri un normale umano adulto, ma soffri di nostalgia come un ragazzo.

– Dove sta scritto che dobbiamo agire solo dopo avere ponderato saggiamente tutte le eventuali conseguenze delle nostre azioni? Dopo avere a lungo meditato sulla strada migliore da percorrere, non vorrei scoprire che non mi resta più tempo per mettere in pratica ciò che ho deciso. Abbiamo un periodo breve a disposizione: o si pensa a come viverlo, o lo si vive.

– Per essere uno che non pensa, chiacchieri troppo. – concluse il Bolas di malumore – Parla poco, ascolta assai, e giammai non fallirai, dice il bardo.