Zenone e i labirinti
Nell’anno 2024 ricorreva il centenario della morte di Franz Kafka, che è nato a Praga il 3 luglio 1883 ed è morto a Kierling il 3 giugno 1924. Per questa ricorrenza in molti si sono premurati di commemorarlo e celebrarlo Kafka (molto più di altri artisti famosi quali Anatole France e Josef Conrad, scomparsi nello stesso periodo). Lo farò anch’io, ma alla mia maniera (non fosse altro per non dovermi confrontare con coloro che hanno capacità letterarie e critiche superiori alle mie) cercando i segni della sua influenza nella letteratura più recente, sia colta che popolare.

Cominciamo col ricordare che lo scrittore era boemo ma di lingua tedesca, essendo nato in quel territorio dell'Impero austro-ungarico che sarebbe divenuto la Repubblica Cecoslovacca, indipendente a partire dal 1918 (proprio l’epoca in cui cominciò a pubblicare i suoi primi lavori). Inoltre era ebreo, anche se non aveva interesse per la pratica religiosa, tanto che in sinagoga si recava, con il padre, solo per le quattro principali festività dell’anno (non che questo, per gli antisemiti, cambiasse qualcosa). La maggior parte della sua opera sviluppa temi e simboli che prendono origine dalla sua condizione di vita e parlano d’alienazione e d’oppressione fisica e psicologica; l’autore esprime questi temi attraverso personaggi in preda ad angoscia esistenziale e conflitti tra genitori e figli, oppure travolti da labirinti burocratici e trasformazioni surreali. Proprio per quest’ultimo aspetto, oggi è ritenuto una delle maggiori figure della letteratura del XX secolo e tra i maggiori anticipatori del surrealismo e del realismo magico. Ha avuto una profonda influenza non solo sulla letteratura, ma anche sull’immaginazione popolare, tanto da venire utilizzato nei modi più impensati.
Praga, gotica e misteriosa per antonomasia, città ricca di enigmatiche atmosfere dal carattere cupo e inquietante, era lo sfondo perfetto per opere simili, come il romanzo scritto da Gustav Meyrink, un autore che scelse di abbandonare la carriera da banchiere per dedicarsi alle sue pulsioni più nascoste quali occultismo, esoterismo e spiritismo. Coevo di Kafka, Meyrink è noto al pubblico per Il Golem, forse l’esperimento più riuscito; sicuramente il più conosciuto. Nato nel 1915 come romanzo a puntate (proprio mentre Kafka fa i suoi primi tentativi letterari), Il Golem finirà poi per consacrare il suo autore fra i più grandi scrittori del genere gotico-fantastico. Nel corso degli stessi anni, inoltre, la storia fa la sua comparsa fra i primissimi schermi cinematografici dell’epoca attraverso una trilogia denominata Der Golem: pellicole interamente dedicate a questa strana figura mitologica. Il terzo di questi capolavori d’espressionismo, l’unico sopravvissuto e giunto fino ai giorni nostri, è stato intitolato Der Golem, wie er in die Welt kam (Il Golem – Come venne al mondo) ed è un film muto del 1920 diretto da Carl Boese e Paul Wegener (che partecipò alla pellicola anche come interprete del gigantesco automa d’argilla).

Ma Kafka ha, come dire, una marcia in più, in quanto ha avuto una profonda influenza non solo sulla letteratura, ma anche sull’immaginazione popolare, tanto da venire utilizzato nei modi più impensati. Non a caso si usa nell’italiano corrente l’aggettivo “kafkiano”. A questo proposito, mi viene in mente un vecchio film di Marco Ferreri, uno dei meno amati dalla critica e dal pubblico, ma non per questo disprezzabile, dal titolo L’Udienza (1971). In questa pellicola il protagonista è uno stralunato Enzo Jannacci, che va a Roma perché vorrebbe avere una udienza privata con il Pontefice (all’epoca era Paolo VI, che aveva da poco concluso il Concilio Ecumenico Vaticano II). Non riuscendo ad avvicinarsi agli alti prelati per chiedere udienza, finisce per cercare aiuto in un sottobosco romano fatto di nobili dai loschi comportamenti e dalle simpatie fasciste (Vittorio Gassman), escort di lusso (Claudia Cardinale), pretonzoli ottusi e burocrati ed anche un commissario di polizia (Ugo Tognazzi) che dapprima lo sospetta di essere un pericoloso sovversivo e poi si convince che è solo un poveraccio. Ad ognuno che incontra ripete come un mantra la frase: «Mi trovo in una situazione Kafkiana». Dopo mesi e mesi di attesa, verso la fine del film riesce a parlare con un cardinale e gli sussurra all’orecchio ciò che vorrebbe dire al Papa. Il prelato si commuove fino alle lacrime, ma anche stavolta la sospirata udienza non arriva. Alla fine il povero Jannacci tenta di scavalcare le transenne in San Pietro per lanciarsi direttamente verso il Papa, ma non ci riesce e fa una brutta fine: muore sotto il colonnato del Bernini, stroncato da una polmonite. Le atmosfere e i personaggi del film richiamano in maniera puntuale gli archetipi dello scrittore praghese, ma c’è un motivo ben preciso: soggetto e sceneggiatura furono scritti da Marco Ferreri con la precisa intenzione di girare un film tratto da Il castello (Das Schloss, 1922) di Kafka. Impossibilitato per questioni di diritto d’autore, il regista decise di riadattare la vicenda ai giorni nostri, puntando il dito contro la burocrazia moderna e sostituendo l’Impero Austro-Ungarico con la Chiesa Cattolica. Per la verità Kafka voleva rappresentare la solitudine e il senso di diversità degli ebrei come lui nella Mitteleuropa. Restano comunque nel film altre caratteristiche idee kafkiane, come l’estraneità del protagonista rispetto alla famiglia e alla comunità che lo circonda, oppure l’impotenza del singolo di fronte al mondo e alla sua incomprensibile burocrazia.
Nella moderna narrativa parecchi concetti di Kafka sono stati ripresi e ampliati, fino al punto che talvolta non se ne riconosce più l’origine. Alcuni casi sono fin troppo evidenti: si pensi solo per un attimo alla produzione romanzesca di Dino Buzzati. La fortezza ai margini del Deserto dei Tartari, dove i soldati attendono per tutta la vita un nemico che forse non arriverà mai, oppure la Clinica dai sette piani, dove il malato scende di un piano ogni qual volta la sua malattia si aggrava, finché arriva al pian terreno e muore, sono Kafka allo stato puro.
Ma non occorre limitarsi ai casi più noti, come quello di Buzzati. Un buon esempio per iniziare può essere il brevissimo racconto Il messaggio dell’Imperatore (Eine kaiserliche Botschaft, 1918): uno dei primi di Kafka, scritto durante la prima Guerra Mondiale. Una persona comune sta aspettando l’arrivo di un messaggero che gli porterà le ultime volontà dell’Imperatore morente, ma questo inviato non arriverà mai perché ostacolato da difficoltà e barriere, rendendo inutile ogni sforzo da parte del messaggero stesso. Qui c’è già molto del pensiero e della poetica di Kafka: l’attesa di qualcuno che non arriverà; il contrasto tra l’enorme potere rappresentato dell’imperatore morente e la semplicità minuscola del suo suddito, sperduto nel più remoto angolo dell’impero; il mistero che non viene svelato. Il destinatario (e con lui il lettore) non saprà mai quale verità conteneva il messaggio dell’imperatore.
Oltre ai significati simbolici, faccio notare che questo messaggero che non arriverà mai a destinazione, perso per le strade dell’impero, si ispira a un concetto matematico, che ha origine nel cosiddetto paradosso di Zenone. Secondo il filosofo greco Zenone di Elea, se il Piè Veloce Achille, sfidando una tartaruga in una gara di corsa, dovesse concederle anche solo qualche metro di vantaggio iniziale, non riuscirebbe mai a raggiungerla. Una delle più interessanti spiegazioni di questo paradosso appartiene a Jorge Luis Borges, uno degli eredi di Kafka, che la giustifica così: “Achille, simbolo di rapidità, deve raggiungere la tartaruga, simbolo di lentezza. Achille corre dieci volte più svelto della tartaruga e le concede dieci metri di vantaggio. Achille corre quei dieci metri e la tartaruga percorre un metro; Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga percorre un millimetro; Achille percorre quel millimetro, la tartaruga percorre un decimo di millimetro, e così via all'infinito; di modo che Achille può correre per sempre senza raggiungerla”. Si tratta di una intuizione matematica che portò molti secoli dopo Newton e Leibniz a sviluppare il calcolo infinitesimale, mentre Borges l’ha sfruttata in alcuni racconti: in particolare ricordo qui Il giardino dei sentieri che si biforcano (El jardin de senderos que se bifurcan, 1941), dove chi entra non potrà uscire mai più, perché il labirinto continua ad espandersi.
Altro racconto dalle atmosfere kafkiane è I sette messaggeri (1942) di Buzzati. In un regno immaginario, il figlio del re decide di raggiungere il confine del regno, portando con sé sette messaggeri per mantenersi in contatto con la capitale. A causa della distanza crescente, i messaggeri impiegano sempre più tempo per raggiungere la città e tornare con lettere e notizie, tanto che, quando queste raggiungono il principe, a otto anni dalla sua partenza, sono ormai illeggibili e superate, mentre il confine del regno sembra irraggiungibile.
Un altro interessante racconto di questo tipo appartiene a James G. Ballard ed è praticamente l’unico, nell’intera produzione dell’autore, che sia ambientato nello spazio interstellare. Si intitola Rapporto su una stazione spaziale non identificata (Report on an Unidentified Space Station, 1982). Qui un gruppo di astronauti entra in una stazione spaziale aliena abbandonata e scopre rapidamente che il suo interno è molto più vasto dell’esterno. La stima delle dimensioni della stazione viene da loro continuamente rivalutata, poiché mentre ne esplorano gli interni sembra raggiungere le dimensioni di un grande asteroide, poi di un piccolo pianeta. Le stanze, le passerelle e i corridoi sembrano moltiplicarsi e dilatarsi all’infinito, creando uno spazio senza nessuna conclusione visibile, in cui gli esploratori si perdono per sempre. Può sembrare la riproduzione, su scala più piccola, di ciò che accade nel nostro universo secondo le più moderne teorie sulla sua espansione, ma dubito che l’autore avesse in mente questo. Invece Ballard trova i suoi riferimenti letterari in Borges e, specificamente, in storie come La biblioteca di Babele e il già ricordato Il giardino dei sentieri che si biforcano: del resto Borges, assieme a Alfed Jarry, al surrealismo e al dadaismo, sono sempre stati i suoi modelli. Ma anche Franz Kafka, evidentemente.

Un altro scrittore che ha preso spunto da questo racconto di Kafka è Robert Sheckley (di origine ebreo – russa, come anche Asimov). Nei suoi brevi racconti degli anni Cinquanta descriveva una società che allora sembrava fantascientifica e lontana, mentre adesso è sul punto di realizzarsi. I temi affrontati erano il consumismo esasperato, la mercificazione non solo del sesso ma persino dei sentimenti, i persuasori occulti nella pubblicità, lo strapotere dei mezzi d’informazione, l’arroganza del potere, l’indifferenza e la crudeltà degli spettatori televisivi e la spettacolarizzazione della violenza. Sheckley sembra voler combinare l’angoscia metafisica di un Franz Kafka con la giocosità nonsense di un Lewis Carroll. È probabile che, per via delle sue origini, sia influenzato dal tipico umorismo yiddish, la qual cosa lo fa inserire di diritto in una tradizione che va dai fratelli Marx a Woody Allen, passando per Jerry Lewis e Mel Brooks. Si può fare dell’umorismo con la fantascienza oppure sulla fantascienza: Sheckley è stato maestro nel gestire entrambe le modalità e per questo motivo il collega Brian Aldiss una volta lo descrisse come “Voltaire-e-soda.” Va ricordato qui soprattutto il romanzo Scambio mentale (Mindswap, 1966), che fu pubblicato da Mondadori nella sua collana dedicata ai Nuovi Scrittori Stranieri; l’inizio è tipicamente fantascientifico, ma il resto molto meno. Il protagonista accetta di scambiare la sua mente con un marziano, per una sorta di avventura turistica del futuro. Per coincidenza, in quello stesso 1966 Philip Dick aveva avuto la stessa idea per il racconto We can remember it for you, wholesale, noto anche come Total recall e poi trasformato due volte in film. Ma il turista mentale alla fine della vacanza non riesce a farsi restituire il suo corpo: così deve andare in giro per altri pianeti a cercare di recuperarlo, sapendo che morirà, se non rintraccia il marziano che gli ha tolto il corpo. La conclusione, apparentemente un classico lieto fine, è più simile a uno sberleffo al lettore, una presa in giro. Perché il mondo dove il protagonista decide di fermarsi definitivamente è diversissimo da quello di partenza. Ma lui sceglie di ignorarlo: tanto, il vero ritorno è impossibile e il pianeta Terra (quello vero) è perduto per sempre. Quanto di kafkiano c’è in tutto questo!
Mutazioni e metamorfosi
L’aspetto più fantastico della narrativa di Kafka, quello che più lo avvicina al surrealismo e al realismo magico, è indubbiamente costituito dalla descrizione di strane metamorfosi. Sotto questo aspetto, i due racconti più noti sono La metamorfosi (Die Verwandiung, 1916) e Una relazione accademica (Ein Bericht für eine Akademie, 1917). Nel primo, il più noto, il protagonista Gregor Samsa si ritrova improvvisamente trasformato in un enorme scarafaggio. L’autore non ci fornisce spiegazioni sul perché e il percome: accade, semplicemente, come a volte nei nostri sogni. Da quel momento però il racconto procede con una minuziosa e realistica descrizione di come lo scarafaggio possa continuare a vivere e di come la sua famiglia si adatti a convivere con lui. Progressivamente, però, la convivenza diventa insopportabile finché, quando Gregor si fa male, viene abbandonato a se stesso e lasciato morire. La domestica di casa lo spazza via con una ramazza e la famiglia Samsa ritrova la serenità.
Nel secondo racconto, di poco successivo, la situazione è capovolta: uno scimmione viene catturato e portato a uno scienziato che lo sottopone a dei trattamenti per costringerlo a evolversi e a diventare simile a un essere umano. La storia descrive con accuratezza questa evoluzione, attraverso sofferenze e torture, fino a quando il protagonista, ormai divenuto del tutto umano, riesce a fuggire ed emanciparsi. Una volta ottenuta la libertà, si rende conto che può sopravvivere solo facendosi accettare dalla società e integrandosi in essa: comincia a studiare e diventa così colto da poter raccontare la propria storia in una relazione accademica. La sua via di fuga dalla prigionia è stata l’omologazione.

La narrativa dell’immaginario si è subito impadronita dell’idea contenuta in questi racconti e l’ha fatta propria. Per esempio H. P. Lovecraft nel 1926 scrive L’estraneo (The outsider) un breve racconto che deve molto a Kafka. Raccontato in prima persona, descrive la vita di qualcuno che vive completamente isolato e nel buio. Crede di essere un umano come gli altri, ma al tempo stesso percepisce di essere in qualche modo un diverso, un estraneo. Fino a che, proprio nelle ultime righe, trova in casa sua uno specchio che gli rimanda la sua immagine: quella di un orrendo mostro.
Un poco più tardi lo scrittore canadese Alfred E. Van Vogt scrive Villaggio incantato (Enchanted Village, 1950). La situazione di partenza è tra le più classiche: un astronauta fa naufragio su Marte e resta solo. Potrebbe essere l’inizio di una vicenda alla Robinson Crusoe, già vista molte volte (si pensi al successo del recente romanzo The Martian di Andy Weir, subito trasformato in film). Ma questa volta il protagonista sa di non avere alcuna probabilità di sopravvivere: non ha cibo né acqua e l’aria è quasi irrespirabile. Mentre vaga tra le sabbie di Marte si imbatte in una città abbandonata, appartenuta all’antica civiltà marziana scomparsa da tempo immemorabile. Nella città tutto funziona ancora in modo automatico, anche se non ci sono più abitanti: purtroppo il nutrimento è adatto ai marziani e non ai terrestri. Stremato, l’astronauta si addormenta, convinto di essere prossimo a morire, e invece si risveglia in piena forma. Salvo scoprire che, durante il sonno, la città ha operato su di lui trasformandolo in un marziano. Ora la sua biologia è compatibile con il pianeta che lo ospita, ma non è più umano. Se non è kafkiano tutto questo…
Qualcosa del genere accade anche nel romanzo di Frederik Pohl Uomo Più (Man Plus, 1976) solo che, in questo caso, la metamorfosi è operata da uomini su altri uomini. Per colonizzare Marte, macchine sofisticate sono state collegate al corpo dell’esploratore e i suoi organi sono stati sostituiti con altri organi artificiali: ora egli è adatto a vivere nell’atmosfera rarefatta di Marte, traendo direttamente dal sole l’energia che gli occorre. Ma le persone umane normali, una volta suoi simili, non lo riconoscono più come uno di loro, e Marte diventa necessariamente il luogo del suo esilio e la sua casa. Questa volta Franz Kafka si unisce a Mary Shelley e Gregor Samsa si mescola con la creatura di Frankenstein.
Sulla falsariga della Relazione Accademica, sono numerose anche le storie che parlano di animali trasformati in umani. Il primo esempio che mi viene in mente è Cuore di Cane (Sobac'e serdce, 1924 – l’anno della morte di Kafka) di Mikhail Bulgakov. Qui l’animale reso umano non è una scimmia, ma un cane, e il tono del racconto è più leggero e satirico. Tuttavia le due vicende hanno diversi punti di contatto. Il cane, tramutato in uomo da un singolare esperimento scientifico, viene strappato al proprio mondo e costretto ad adattarsi a nuove contorte condizioni di vita, fino a trasformarsi in un ottuso e prepotente burocrate dell’apparato statale russo. In un certo senso anche Tarzan delle scimmie (Tarzan of the Apes, 1912) di Edgar Rice Burroughs racconta una vicenda del genere. Qui il bambino è umano alla nascita, ma è stato allevato dalle scimmie e cresciuto come un animale selvaggio. Gradualmente riacquista la propria umanità, fino a diventare addirittura Lord Greystoke, un Pari d’Inghilterra, sebbene non rinunci del tutto sua forza primitiva e ai suoi istinti animaleschi. Diventa così un essere sospeso tra due mondi, un po’ come gli ebrei nella società germanica. Nonostante le similitudini (in fondo Tarzan si ribella all’omologazione nella società rigidamente gerarchica dell’Impero Britannico), la vicenda esprime tutto l’ottimismo tipico della civiltà americana e resta quindi ben lontana dalle cupe atmosfere dello scrittore boemo.
Nella fantascienza non si contano più i racconti che parlano degli sforzi dell’umanità per aiutare cetacei e primati ad evolversi fino a diventare nostri pari (non sempre con fini nobili). Un buon esempio è L’Ismaele innamorato (Ishmael in love, 2007) di Robert Silverberg: la storia di un delfino a cui i militari hanno accresciuto artificialmente l’intelligenza per i loro scopi. Il mammifero marino soffre per la sua totale solitudine e si innamora perdutamente della sua istruttrice, pur sapendo che è un amore impossibile. Ma il mio preferito è Jerry era un uomo (Jerry was a man, 1947) di Robert A. Heinlein. In questa storia, uno scimpanzé viene fornito dalla scienza di un cervello umano, ma i laboratori di ricerca che lo hanno trasformato vogliono conservarne la proprietà, sostenendo che non di un uomo si tratta, bensì solo di un animale da laboratorio. Viene istituito un processo per stabilire chi lo possiede, ma Jerry ha dalla sua alcuni scienziati e soprattutto un astuto avvocato, degno di Perry Mason. Con un colpo di teatro, il difensore fa esibire la scimmia davanti alla giuria e le fa cantare un vecchio blues, mentre si accompagna con la chitarra. Se vi interessa, il blues s’intitola Old Folks at Home (Swanee River) ed è una canzone dei tempi della schiavitù. Con la sua voce gutturale e la pronuncia alterata dalla gola scimmiesca, il primate canta proprio come uno schiavo nero liberato e la giuria non può far altro che commuoversi e sentenziare: Jerry è un uomo.
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