Negli ultimi anni, per ragioni di lavoro e di ricerca, mi è capitato di occuparmi molto di valutazione. Valutazione di studenti, di testi, di sistemi informatici… Entrare in questo mondo fa capire quanto sia difficile a volte valutare le cose.

Una parte di questa difficoltà deriva dal fatto che la valutazione a volte deve essere soggettiva. Si può perfino dire che nella prospettiva di un lettore la valutazione soggettiva è l’unica rilevante. In fin dei conti, quando leggiamo, di solito non ci interessa molto che un autore rispetti determinati standard o parametri: ci interessa invece che parli a noi, e che dica cose che sono interessanti per noi. Poi, certo, ci sono medie, classici di riferimento, testi importanti per interi gruppi di persone, componenti descrivibili in modo assolutamente oggettivo e così via. Ma occorre anche riconoscere l’esistenza di una base ineliminabile di soggettività: i motivi per cui qualcosa riesce ad arrivare davvero a qualche lettore, o a un gruppo di lettori, anche quando la maggioranza non sembra notare differenze.

In questa prospettiva, Livio Horrakh è senz’altro un caso da tenere presente. Per me, leggere fantascienza italiana negli anni Settanta e Ottanta significava in effetti avere a che fare con una gran massa di racconti e romanzi spesso molto ripetitivi. In questo contesto, le opere di Horrakh spiccavano. Certo, la ripetitività spesso non era sinonimo di scarsa qualità. Per esempio, un traduttore, curatore e scrittore molto valido come Vittorio Curtoni ha scritto opere di alto livello qualitativo. Tuttavia, cosa forse non troppo sorprendente, i suoi racconti migliori, da Volo simulato in poi, mi sono sempre sembrati quelli che imitavano le imitazioni di James G. Ballard scritte da Brian Aldiss e quindi brillavano in un certo senso di originalità riflessa.

Un confronto più diretto, a molti decenni di distanza, per me è quello suscitato dalla rilettura del Poeta della sopraelevata di Livio Horrakh. Il racconto, come anticipato nell’Introduzione a questo libro, era collocato in appendice al numero di Galassia che ospitava come pezzo forte il romanzo Nel nome dell’uomo scritto da uno dei curatori della rivista, Gianni Montanari. A distanza di molti decenni dal momento in cui mi capitò di recuperare su una bancarella del mercato di Viareggio quel libretto, con la copertina in parte strappata, mi sono accorto che del romanzo di Montanari, pur ben scritto, non ricordo quasi nulla: ricordo che parlava di mutanti, che per qualche motivo non troppo chiaro venivano presentati e braccati secondo lo stereotipo del terrorista eroico in circolazione all’epoca… Gli unici due dettagli che mi sono rimasti impressi erano che, in quel romanzo di ambientazione italiana, si diceva che le squadre di cacciatori di mutanti erano state messe in piedi dall’Arma dei Carabinieri; e che a un certo punto si descrivevano le code di macchine al controllo alla frontiera con la Francia. Ma al tempo stesso, mi sono accorto che ricordavo molto bene, invece, Il poeta della sopraelevata, sia per i personaggi sia per l’ambientazione.

Insomma, alla mia personale sensibilità di lettore, Horrakh, con la sua pur non abbondante produzione, sembrava chiaramente un’altra cosa, rispetto alla maggior parte degli autori attivi nel periodo. Mi pareva uno scrittore che aveva una propria visione del mondo, un modo personale di esprimerla, e, cosa non meno rilevante, le capacità per gestire il tutto. E con quella visione, all’epoca, mi trovavo anche ad avere una certa sintonia. Né il discorso era limitato ai racconti: anche il romanzo Grattanuvole, che recuperai poco più avanti, era senz’altro qualcosa di diverso rispetto a ciò che si leggeva di solito.

In quel periodo c’erano naturalmente anche altri autori “originali”, cioè che riuscivano a dire cose in modo personale. Un altro, per esempio, era (in modo decisamente più incostante) Riccardo Leveghi, che si distingueva anche solo per i titoli dei suoi racconti, spesso formati da nomi di stelle o numeri di catalogo di oggetti celesti: Beta cor serpentis, Rho Lupis [sic!], Galassia quasi stellare 4565 NGC. Quasar in Chioma di Berenice, Radiosorgente NCG/273. Pulsar in Draco, «Sci Canis Majoris»… Ma, appunto, mi sembrava evidente che Horrakh si trovasse in una categoria diversa anche in mezzo agli “originali”.

Una componente interessante, che sicuramente contribuiva a questa novità, era il rapporto di Horrakh con un mondo assai più aggiornato di quello conosciuto negli ambienti della fantascienza italiana. Fin dalle origini, con Dove muore l’astragalo, il rapporto con la “controcultura” e con una sensibilità hippie o beat era essenziale. Era, se vogliamo, il modello della fantascienza new wave inglese e statunitense, che veniva tradotta anche da noi ma che ben pochi in Italia mostravano di assimilare (e che emergeva già nella poesia-racconto d’esordio, Io consumo, del 1968). Pochi anni più tardi, anche il notevole racconto Tutto l’acido dell’impero riprendeva in modo molto personale quelle suggestioni; e la componente musicale veniva poi in primo piano nei racconti ospitati nell’antologia L’hotel dei cuori spezzati (1984); antologia in cui, vale la pena ricordarlo, compariva anche un altro degli autori “originali” del periodo, anch’egli triestino, Stefano Tuvo.

A queste pubblicazioni fece seguito un periodo di lungo silenzio. È in questa fase che mi capitò anche di andare a trovare l’autore a Trieste, per conoscere appunto di persona chi aveva scritto quei racconti così diversi dagli altri e con l’obiettivo di scrivere qualcosa sul suo lavoro o recuperare qualche inedito. Non ricordo tempi e modi esatti, ma doveva essere il 1990: all’epoca, mi sembrava che il silenzio dell’autore stesse andando avanti già da molto… ma in realtà era solo l’inizio.

Dell’incontro ricordo bene diversi aspetti. Chiacchierammo un po’ al tavolino di un bar, accompagnati dalla mia fidanzata. Horrakh fu gentilissimo con il ragazzino che era venuto a cercarlo. Mi sembrò però piuttosto sorpreso, assai più che lusingato, per il mio interesse per la sua narrativa: sembrava invece del tutto concentrato sul suo lavoro universitario (in preparazione dell’incontro avevo anche dato un’occhiata alle sue pubblicazioni, e in particolare, se ben ricordo, a un contributo su L’istituzione della funzione pragmatica esterna nel modello traduttivo in tre fasi a trasferimento indiretto pubblicato sulla “Rassegna italiana di linguistica applicata”). Del suo rapporto con la fantascienza parlava di qualcosa come di ormai lontano. In ogni caso, alla fine dell’incontro il rispettabile ricercatore mi lasciò anche una pila consistente di suoi dattiloscritti e appunti inediti, dicendo che avrebbero potuto essere utili per il lavoro di ricerca o di tesi cui stavo puntando. Mi sembrò anche quello, da parte sua, un modo per chiudere con un’epoca – e sono contento che poi, nella realtà non sia stato così.

Nel caso mio, le normali vicende della vita mi hanno poi portato piuttosto lontano dalla fantascienza italiana. Quel lavoro di ricerca su Livio Horrakh e su altri scrittori di fantascienza italiani è di conseguenza rimasto incompiuto. Riportarlo alla memoria oggi è però anche un buon modo, personalmente, per ricordare le potenzialità di un autore e di tutta una comunità; e le possibilità di una letteratura che magari, da decenni, avrebbe potuto andare in direzioni diverse da quelle che si vedono oggi. Di originalità intelligente, del resto, abbiamo bisogno oggi forse più che allora.