
Il fandom italiano di fantascienza non ha memoria.
Per fan-dom si intende quella comunità di appassionati, di “fans”: fan(atics)-(king)dom, “regno dei fans”, che condividono un interesse per un fenomeno culturale.
Mentre negli USA possiamo datare il fenomeno agli anni Trenta, è soltanto nel secondo dopoguerra, a causa dell’ostilità del regime fascista per la cultura anglosassone, che nasce in Italia un fandom di fantascienza.
Scrive Paolo Bertetti (Università di Siena, dipartimento di scienze sociali, politiche e cognitive) in “Fandom e industria culturale: la nascita del fandom di fantascienza negli Stati Uniti” (2017):
Fin dall’inizio, quindi, il fandom fantascientifico ha svolto un ruolo di intermediazione fra consumo e produzione culturale, costituendo un trampolino per giovani talentuosi con velleità professionistiche. Tuttavia, il rapporto tra industria culturale e fandom fantascientifico è stato in realtà, fin dalle sue origini, assai più complesso: la stessa nascita di un fandom organizzato di fantascienza si deve infatti, almeno in parte, all’attività di promozione “dall’alto” ad opera dell’industria culturale.
In Italia questa attività di promozione è venuta a mancare; il fandom si è auto-organizzato a partire dagli anni Cinquanta, negli spazi che è riuscito a conquistarsi con i propri mezzi: fanzine ciclostilate e poi fotocopiate, distribuite via posta, e periodici incontri, con il tempo istituzionalizzati nell’Italcon, cioè il con-gresso (convention) ital-iano di science fiction. La prima Italcon, che ancora non portava questo nome, si tenne a Trieste nel 1972, dunque con quarant’anni di “ritardo” rispetto agli USA.
Durante l’Italcon gli appassionati si ritrovano a discutere della loro lettura preferita e a acquistare pubblicazioni; inoltre, si assegna il Premio Italia, suddiviso in più categorie narrative, come avviene per i più famosi premi USA, l’Hugo e il Nebula. Il Premio Italia “rappresenta la celebrazione dell’apprezzamento del fandom italiano per la produzione italiana dell’anno precedente,” come si legge sul sito ufficiale. Il medesimo sito ne raccoglie anche l’albo d’oro — ma la vittoria in una qualsiasi categoria non assicura visibilità all’opera, romanzo, racconto o rivista o altro.
Il fandom non ha memoria. Dal momento che la fantascienza italiana viene raramente ripubblicata in edizioni successive alla prima apparizione, le nuove generazioni di lettori conoscono meglio la science-fiction statunitense degli anni Quaranta che quella scritta in italiano sessanta, trenta o anche soltanto venti anni fa.
Questo oblio fa sì che gli aspiranti scrittori possano ispirarsi unicamente a modelli esteri, trascurando per forza di cose quella via italiana alla fantascienza che si può individuare nella produzione di autori e autrici che non hanno mai potuto approdare alla grande editoria.
Uno di questi casi è lo scrittore triestino Livio Horrakh, nato nel 1946 e vincitore, tra l’altro del Premio Italia, nella categoria racconto, alla sua prima edizione (1972).
Scrive nel 1998 Silvio Sosio su Fantascienza.com, al momento di pubblicare online il racconto in questione, Dove muore l’astragalo:
I racconti più famosi degli scrittori americani, lo sappiamo, vengono di continuo ristampati, raccolti in antologie che li mantengono vivi, che li fanno conoscere ai nuovi lettori. Ma dove finiscono tutti quei racconti bellissimi, quei piccoli gioielli prodotti dalla fantascienza italiana? Qualcuno, ma sono casi rarissimi, ogni tanto ricompare su qualche antologia. Per lo più spariscono, e vengono dimenticati. Noi vorremmo fare qualcosa per opporci a questa condanna, e cercheremo di pubblicare, dove sarà possibile, i grandi racconti della fantascienza italiana.
La presente antologia, che raccoglie tutta la narrativa breve di Livio Horrakh, risponde precisamente a questa esigenza.

Livio Horrakh nasce a Trieste il 4 luglio 1946. Dopo il diploma di ragioneria, ottenuto nel 1965, cura una rivista mensile di musica pop, della quale è accanito fan, stampata in off-set: nello stesso anno ricopre la carica di presidente dell’Elvis Presley International Fan Club of Italy, una passione mai dismessa, che diventerà protagonista di alcuni dei suoi testi migliori.
L’ingresso di Horrakh nel fandom avviene con le fanzine amatoriali triestine “Decimo pianeta” (1966-1967) insieme a Gianfranco Battisti, Fabio Pagan e Mauro Gallis, e la milanese “Verso le stelle” (versione ciclostilata, 1966-1968). Su entrambe, pubblica poesie di fantascienza (“tra le più belle che siano mai state scritte”, secondo la redazione di Galassia) e intanto lavora per pagarsi gli studi. Dopo un anno e mezzo però lascia il lavoro e si iscrive all’università di Trieste, Scuola di lingue moderne per traduttori e interpreti di conferenze.
Il suo esordio letterario nell’editoria professionale è del 1968, con la poesia Io consumo, in appendice a un romanzo di Ugo Malaguti apparso sulla collana da edicola Galassia. Si legge nella presentazione al suo successivo romanzo Grattanuvole, con riferimento a questo esordio: “Horrakh rivelava fin dall’inizio la sua predilezione per gli intrighi verbali e per le strutture beat e hippie in un contesto che ormai abbracciava anche il nostro paese.”
Nel 1969, a ventitré anni, Livio Horrakh viaggia in autostop fino a Baghdad, attraverso Balcani e Turchia; da quell’esperienza nasce il racconto Dove muore l’astragalo, Premio Italia 1972.
Nel 1971 Horrakh si laurea, e inizia a insegnare Traduzione specializzata presso la stessa facoltà; nei tredici anni di docenza ha seguito parecchie tesi di laurea dedicate a vari argomenti fantascientifici. A questa attività ufficiale, alterna quella di traduttore professionista e di giornalista. In rete si possono reperire diversi suoi testi specializzati sull’argomento della traduzione, oltre che recensioni letterarie, musicali, cinematografiche e teatrali, per esempio su L’Arena di Pola.
Negli stessi anni scrive diverse sceneggiature radiofoniche, oltre a racconti brevi, anche per bambini, che vengono trasmessi dalla Rai regionale, dalla radio slovena e da emittenti locali. Suoi racconti di fantascienza vengono tradotti in lingue estere e pubblicati in Francia, Germania e Cina.
Durante l’Eurocon/Italcon di Trieste del 1972, lavora in cabina per tradurre dal francese all’inglese; è in questa occasione che conosce Darko Suvin, e vede il proprio racconto Dove vola l’astragalo vincere il Premio Italia.
Nel 1977 pubblica su Galassia, in un’antologia che comprende anche opere di Theodore Sturgeon, Maurizio Viano e Mauro Miglieruolo, quello che è forse oggi il suo racconto più conosciuto: Tutto l’acido dell’impero, che con uno stile decisamente sperimentale per la SF italiana dell’epoca, anticipa di diversi anni i temi del cyberpunk: pervasività dei mass-media, diffusione di stupefacenti come modalità di controllo sociale, strapotere di organizzazioni economiche trans-nazionali, senza contare massiccio impiega di quella che oggi chiamiamo “post-verità”.
Probabilmente, per il modo (ormai) inusuale di scrittura (specie fantascientifica) che presenta, Tutto l’acido dell'Impero potrebbe dare di primo acchito, a qualche lettore, l'impressione di un gran marasma. Nulla di tutto questo, anzi: la sua è una trama che più semplice non si può.
La scena che viene gradualmente delineata è un’America distopica, decisamente orwelliana, giacché vi è attuato un controllo totale della popolazione tramite nuovi media e droghe. Inoltre in questi Stati Uniti la guerra del Vietnam (in corso quando il testo fu scritto) continua ancora, assurgendo un po' a simbolo di ogni guerra. Su questo sfondo si innesta la rivolta armata antigovernativa di gruppi aderenti al cosiddetto "Movement", che sfocerà in una vera e propria battaglia urbana conclusiva (non anticipiamo altro). Al tutto, fa da fil rouge la breve vicenda di un giovane che chiede un passaggio in auto per recarsi a San Francisco, dove il racconto vedrà l’epilogo.
Questo per quanto attiene al tema portante.
Circa la struttura: si tratta di una serie tasselli e “schegge” che vanno gradualmente a comporre il mosaico. Nel testo si alternano: una sorta di voce narrante “ufficiale”; spot pubblicitari che reclamizzano le droghe; dialoghi frammentari di rivoluzionari del Movement in azione, captati via radio; testi martellanti e comunicati radio-tv di propaganda politica governativa; testi diffusi via radio pirata, che controinformano sulle reali vicende che hanno portato alla situazione in atto; e così via.
Resta da parlare dello stile: ma è sufficiente avviare la lettura per capire che Horrakh rielabora in modo personale, aggiornandoli con continui americanismi e neologismi, stilemi confluiti nelle (ed emersi dalle) controculture anni Sessanta, volgendo un occhio particolare al mondo del rock e dei suoi "grandi", di cui non mancano citazioni. Il risultato è una scrittura materica, sperimentale, incandescente, drammatica, che stordisce e "prende" pagina dopo pagina, fino a esiti (diremmo) di vera poesia nelle ultime scene.
Ma a parte le varie ascendenze letterarie, fantascientifiche e non, ci sembra anche di individuare (fatto questo realmente insolito in un racconto italiano pubblicato nel ‘77) chiari prodromi del genere cyberpunk.
(Vittorio Catani su Fantascienza.com, 15 maggio 1999)

Diversi anni dopo, Eugenio Ragone e Vittorio Catani promossero una versione audio di alcune pagine del racconto, con attori professionisti, effetti sonori e musicali, un teaser della quale venne fatto ascoltare al pubblico di un’Italcon di fine anni Novanta, a Courmayeur.
Nello stesso 1977 apparve la prima opera lunga di Horrakh, sempre sulla rivista Galassia, nel numero 228: si tratta del romanzo Grattanuvole, che racconta un’umanità di inizio terzo millennio, rinchiusa in trecento gigantesche torri dopo che ha volontariamente scelto la via di un parziale genocidio “per consentire a pochi eletti la possibilità di guardare al futuro” (dalla quarta di copertina del volume). Il romanzo racconta il viaggio del protagonista Karel alla ricerca della Casa dell’Uomo, che forse è solo un mito, attraverso un mondo la cui flora e fauna è irrimediabilmente mutata a causa delle radiazioni.
Scrive a proposito del romanzo Gian Filippo Pizzo, nella Guida ai narratori italiani del fantastico (Odoya, 2018):
Narrazione di ampio respiro, fluida e lineare ma allo stesso tempo dal ritmo incalzante, con un taglio a suo modo politico con l’ammonimento che l’uomo dovrebbe imparare a diventare parte integrante della natura e sfruttare in tal senso la scienza e la tecnologia, non è priva di felici momenti lirici.
Negli anni successivi, Horrakh collabora con la rivista “Verso le stelle” di Luigi Naviglio, rinata come pubblicazione da edicola, purtroppo per solo dieci numeri tra il 1978 e il 1979: è presente in quasi tutti i numeri con racconti, sceneggiature radiofoniche e poesie. A proposito di questo periodo della sua vita, scrive Horrakh in una nota al suo romanzo breve Il Buddha dell’era oscura (2003):
Insegnavo all’università, mi cacciavo in un ginepraio di guai sentimentali, riprendevo l’attività giornalistica, scrivevo libri di linguistica applicata (del tutto inutili, tranne forse uno, 216 pagine di analisi testuale dedicate a L’incipit narrativo: quattro righe di The Three Stigmata of Palmer Eldritch; perlomeno, per me, divertente — perché poi avrei perso il concorso per associato — e ancora oggi mi dico che avrei fatto molto meglio a continuare a scrivere fantascienza).
Negli anni Ottanta le sue pubblicazioni di fantascienza si fanno progressivamente rarefatte. Nel 1984 partecipa al progetto “rock-fiction” di Gammalibri, pubblicandovi ben tre racconti di argomento musicale; tra gli altri autori che collaborano all’iniziativa, ci sono nomi noti al fandom, come Danilo Arona, Grazia Lipos e Stefano Tuvo.
Dopo di che, si apre una specie di vuoto. A parte una sceneggiatura radiofonica sulla rivista Zodiaco & Magia, e il romanzo breve Il Buddha dell’era oscura sul n. 41 di Robot (2003), su invito di Silvio Sosio, abbiamo un vuoto di vent’anni.
Horrakh scompare dalla fantascienza; non è mai stato molto attivo nel fandom, ma i lettori più collaudati non hanno mai dimenticato il suo nome.
A sorpresa, torna finalmente alla pubblicazione per una casa editrice non specializzata, con il suo secondo romanzo, a ben quarant’anni di distanza dal primo — e si vede che il tempo, le letture e la distanza dal fandom gli hanno giovato, perché Memphis all’infinito (Cut-Up Publishing, 2017) è un romanzo straordinario.
Ho avuto modo di scrivere che in un mondo parallelo, in cui i migliori scrittori italiani fossero stati a suo tempo stimolati e valorizzati, un romanzo come Memphis all’infinito sarebbe uscito per Einaudi, l’avrebbe letto anche chi non ha mai preso in mano un libro di fantascienza, e magari sarebbe finito nella cinquina del Premio Strega.
Memphis all’infinito inaugura la collana “Immaginaria” curata da Fabio Nardini; è ambientato in un 2004 alternativo in cui, nell’anniversario degli attentati dell’11 settembre, è stata portata a termine un’altra serie di attacchi spettacolari contro obiettivi negli USA. Il presidente (che non è George Bush bensì un certo Wallace), che teme per la propria rielezione nelle votazioni di novembre, decide di mandare indietro nel tempo una squadra di agenti con il compito di neutralizzare i dirottatori-attentatori prima che colpiscano. Da decenni infatti un’équipe di scienziati compie esperimenti segreti di fisica quantistica sul viaggio nel tempo, possibile soltanto verso il passato; benché il rientro nel presente non sembri garantito, tutto è pronto per una missione più ambiziosa.
Tuttavia, un potente senatore che appartiene allo stesso partito, interessato a evitare un secondo mandato del presidente, costringe i fisici del progetto a cambiare le coordinate temporali della missione, in modo che non riescano a evitare gli attentati. In questo quadro iniziale si inserisce una trama incalzante, che vede un giovane fisico costretto a un salto quantistico nel tempo fino al 1954; e qui il lettore assiste alla più straordinaria invenzione letteraria di questo romanzo.
La possibilità del viaggio nel tempo è giustificata dall’autore con i paradossi della meccanica quantistica; ciò che nessun altro autore di sf ha immaginato prima di lui, è che il viaggiatore umano sia causa di un collasso della funzione d’onda continuo, per cui ogni cosa intorno a lui muta in continuazione: la presenza di altre persone, il loro aspetto fisico, l’abbigliamento, gli oggetti, l’architettura. Il protagonista scivola tra una serie di stati paralleli provocati dal fatto stesso che egli osservi il passato. Quali sono le conseguenze del protagonista sul suo presente, il 2004, di questa sarabanda di decoerenza quantistica?
Si dibatte da tempo sul fatto che gli autori e le autrici italiane siano meno portati, rispetto ai colleghi anglosassoni, verso trame basate su scienze hard, e che la causa di ciò sia la nostra cultura, che da secoli definiamo umanistica. Per questa ragione nel nostro paese molti lettori, probabilmente quelli meno interessati alle qualità narrative e più alle idee contenute, non leggono autori italiani, consumando soltanto fantascienza americana. Ecco, Memphis all’infinito è esattamente il tipo di opera che necessita alla Sf italiana per stare alla pari con l’ingombrante presenza straniera; ha tutte le caratteristiche che dovrebbe avere un romanzo di fantascienza contemporaneo:
· è basato su un’idea scientifica hard, della quale sfrutta le ricadute narrative in modo approfondito e creativo;
· ha una documentazione estremamente curata, sia nei capitoli ambientati nel 2004 che in quelli ambientati nel 1954, con una profondità di dettaglio che va dall’alimentazione all’abbigliamento, dalla toponomastica alla musica;
· mette in scena personaggi solidi e credibili, non pupazzi manichei, eroi o cattivi divisi da una barriera netta;
· è sessualmente esplicito, e contiene anche una di quelle solide storia di sentimenti che di solito le autrici e gli autori italiani snobbano — un po’ perché la sf che ha prevalso dopo il periodo cyberpunk è avventurosa e puritana, un po’ perché proprio non sono capaci a scrivere di sentimenti;
Giustamente, scrive Gian Filippo Pizzo nella già citata Guida:
Al contrario degli altri suoi scritti qui Horrakh usa il linguaggio asciutto richiesto dalla trama, ma non va tralasciato il fatto che si tratta sempre di uno dei pochi scrittori italiani di fantascienza capaci di invenzioni linguistiche e di utilizzare uno stile che non di rado possiamo definire poetico.
Tornato finalmente alle pubblicazioni, Horrakh sembra accelerare per l’urgenza di scrivere. Solo tre anni dopo Memphis, esce per l’editore Robin Apophis 2049, riscrittura e ampliamento del romanzo breve Il Buddha dell’era oscura apparso nel 2003 su Robot. In quest’occasione, Horrakh stesso scrisse una sorta di prefazione, che vale anche per il romanzo:
La storia di questa novelette è lunga e decisamente travagliata. Devo premettere che sono un autore pigro, lento, testardo e quanto mai puntiglioso (spiegherò poi perché). Il tutto ebbe inizio nel lontano 1977, anno in cui mi venne la malaugurata idea di scrivere un romanzo-mostro (il titolo dello stesso avrebbe dovuto essere proprio Il mostro freddo), romanzo che – cito dall’auto-intervista su Verso le Stelle di Luigi Naviglio – “doveva avere inizialmente trecento pagine e ne avrà forse cinquecento… Si svolge tra il 1992–93 a Los Angeles, per una trama intessuta di violenza, sesso e disperazione, e si snoda su tre livelli temporali attraverso le storie di una cinquantina di personaggi” (autocitarsi addosso… ehm).
Bene, dopo tre anni di allucinanti (o allucinatorie?) revisioni, di questa follia narrativa non sono rimasti che l’ambientazione a Los Angeles, la violenza, il sesso e la disperazione, tematiche che mi rendo conto a posteriori mi hanno costantemente ossessionato (una delle tre in particolare, indovinare quale). […] a chi Il Buddha piacerà posso dire che sto scansendo lo script di 325 pagine, per mettermi a riscriverlo sotto forma di romanzo (Vittorio, preparati…) in attesa di qualche angelo editore.
Un’ultima cosa: sì, ci sono alcune idee-guida nei miei lavori, uhm, vediamo: il buddhismo, la meccanica dei quanti, il vudu, gli universi paralleli, le ucronie, The King (Elvis Presley, naturalmente), la sperimentazione linguistica e di scrittura e, ovviamente, i conflitti interpersonali.
Come il precedente Memphis all’infinito, Apophis 2049 è assolutamente in linea con la produzione anglosassone; è scandito da un ritmo inesorabile — ma non si pensi al classico thriller — che sfrutta tecnologie oggi in rapida evoluzione immaginando come possano cambiare il nostro futuro. Romanzo di idee, senz’altro, ma capace anche di coinvolgere chi legge nelle vicende personali dei personaggi, ed è un peccato che un’opera del genere abbia avuto così poca visibilità presso gli appassionati del genere fantascienza.
Apophis, o Apopi, era nella religione egizia antica l’incarnazione della tenebra e del caos. L’ambientazione del romanzo è un futuro non troppo distante da oggi, ma decisamente stravolto da applicazioni tecnologiche che hanno frantumato il confine tra l’esperienza reale e il paesaggio virtuale. Viene in mente in proposito il titolo di un racconto di Bruce Sterling, La nostra Černobyl’ neurale, come pure l’intera poetica di J.G. Ballard sulla perdita di riferimenti della coscienza umana rispetto a un ambiente sempre più artificiale.
La storia si svolge tra gli USA e l’India, con qualche scena in Italia. In questo futuro, la vita di tutti i giorni è caratterizzata dalla possibilità di variare a piacimento l’ambiente (sia in interni che all’esterno) tramite proiezioni olografiche che possono sovrapporre alla realtà (i muri di una stanza, di un ristorante, di un ufficio) un’immagine digitale che cambia totalmente la percezione. Inoltre, anche in spazi aperti si muovono immagini tridimensionali, per di più a fini pubblicitari, di persone, animali, cose. Ad esempio, il cielo è spesso occupato da enormi proiezioni che pubblicizzano prodotti dell’industria. In particolare, l’industria dell’intrattenimento ha raggiunto livelli di volgarità, violenza e sessismo che oggi possiamo solo immaginare.
Per quanto riguarda la situazione politica del mondo immaginato da Horrakh, la pax americana appare insidiata da un nuovo protagonismo muscolare della Russia, e dalla diffusione di un movimento neocomunista che conduce una sanguinosa guerriglia in Birmania, in cui sono coinvolte forze armate statunitensi in uno scenario simile alla guerra del Vietnam.
In tutto questo, l’Europa sembra mantenere un atteggiamento pragmatico, né con il presidente Usa Austin né con il russo Vušenko. Entrambe le superpotenze sono impegnate nella gara per produrre per prime la terribile bomba-quark, l’arma definitiva che concederà il dominio totale sul pianeta — anche al prezzo dell’annientamento fisico della potenza avversaria.

In tale desolante scenario, comincia a muoversi in India un uomo misterioso e sfuggente, che conquista sempre più consenso, e che sostiene di essere Maitreya, il “Buddha del futuro”, e dunque successore di Gautama, il “Buddha storico”, che porterà sulla Terra la benevolenza e la compassione. I discorsi che Maitreya tiene a pubblici sempre più numerosi sono quanto di più distante si possa immaginare dalla retorica violenta e aggressiva dei competitor politici: sono parole permeate di una metafisica più misteriosa che consolatoria, che affascina gli ascoltatori in contrasto con una realtà sempre più materialista.
Inoltre, pare che Maitreya possieda anche un certo grado di poteri telepatici, che sono diffusi anche tra diversi individui, ai quali è permessa una limitata precognizione di eventi che ancora devono accadere.
Questo sconfortante panorama, che comprende anche altri elementi tipici dell’immaginario di Horrakh, come gli stupefacenti utilizzati a fini di controllo sociale, sostiene l’intreccio di due trame principali: la corsa alla bomba-quark, osservata dal punto-di-vista del presidente Usa Austin, e l’indagine sull’elusivo Maitreya, che vede impegnati in India due giornalisti, lo statunitense David e l’italiana Anna.
Vale anche per il romanzo ciò che Pizzo scrisse a proposito del suo predecessore, Il Buddha dell’era oscura:
Il futuro immaginato tre lustri fa dall’autore non è dissimile dalla nostra realtà: droghe, religioni basate sul culto di Elvis Presley, trip cibernetici, clima da guerra fredda, il tutto scritto con uno stile visionario e pieno di neologismi ma non pesante, che ripropone il fascino di certi suoi racconti.
Allo stesso modo, inseguendo un proprio solido nucleo di ossessioni, nel successivo e più recente romanzo Horrakh è tornato sulla figura di Elvis Presley, ampliando il racconto L’Hotel dei Cuori Spezzati pubblicato sull’omonima antologia fanta-rock.
Alternate Elvis, sottotitolo in 16 universi possibili (1933-2068) (Write Up Books, 2022), è costruito come una serie cronologica di notizie internazionali, esattamente situate nel tempo (con indicazione di giorno, mese e anno), alternate a episodi della vita del cantante statunitense. Non si tratta però di avvenimenti reali: sfruttando le potenzialità del sottogenere fantascientifico detto ucronia o “storia alternativa”, Horrakh divide gli eventi narrati in sedici “universi paralleli”, secondo la teoria del fisico Hugh Everett (e con la conferma, aggiungerebbe Horrakh, di David Deutsch, maggiore specialista mondiale di computer quantistici): continuum spaziotemporali nei quali la Storia con la S maiuscola, e di conseguenza anche i miliardi di storie individuali, hanno seguito un corso differente da quello che conosciamo.
Tale teoria scientifica è piena di implicazioni narrative: per esempio, scenari in cui persone reali assumono ruoli diversi da quelli fattuali, e vengono coinvolte in eventi differenti, in una “cascata” che si amplifica a mano a mano che si procede avanti nel tempo, con un meccanismo simile all’“effetto farfalla”.
La grande potenzialità narrativa di questa teoria consiste nel permettere di analizzare “in negativo” i grandi fatti della Storia da una prospettiva nuova, e letterariamente interessante.
L’autore organizza la trama in brevi unità narrative in ordine cronologico, dal 6 aprile 1933 al 20 agosto 2068. Ogni “unità”, contraddistinta dal numero dell’universo in cui è ambientata (da 0 a 15), è divisa in due parti: una notizia di cronaca, che “rovescia” un fatto storico acclarato, seguita da un episodio nella vita di uno dei sedici Elvis Presley alternativi.
Il romanzo è un caleidoscopio di stimoli colti: di citazioni di cronaca, politiche, storiche, musicali, cinematografiche. Le conseguenze dei fatti alternativi non vengono esplorate a fondo, rimangono ipotesi anti-fattuali ma puramente estetiche, come ventaglio di possibilità che rappresenta l’immensa gamma di “universi possibili”: Alternate Elvis è infatti concentrato sui destini alternativi di Elvis Presley, nei quali si estrinseca la letterarietà dell’opera.
Mi piacerebbe possedere davvero una Macchina del Tempo. Non per cambiare eventi funesti del passato, dopotutto il nostro mondo è il prodotto di questa tragica Storia; vorrei una macchina del tempo per tornare agli anni Settanta e Ottanta, quando nella fantascienza italiana è successo qualcosa di irreparabile, quando abbiamo perduto, o lasciato andare, un autore come Livio Horrakh. Perché è questo il mio antidoto alla irrilevanza della sf italiana: dateci più Horrakh, riportiamo la science fiction sull’altra diramazione dell’albero ucronico, quella di una letteratura adulta e matura che nulla ha a che vedere con avventure galattiche, omini verdi e gratuiti scenari distopici, la fantascienza italiana che avrebbe potuto essere e non fu.
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