Prologo
Il ragazzo corre. Non c’è alternativa. Corre stringendo al petto un involto prezioso, anche se le gambe a ogni passo sembrano spezzarsi, anche se barcolla, inciampa, cade. Gomiti e ginocchia sono sbucciati per l’impatto con il ruvido intonaco dei vicoli, e il respiro è ridotto a un continuo sibilo, i polmoni sono un unico bruciore dolorante.
Ma non c’è più spazio per i pensieri coscienti. La paura folle, la consapevolezza dell’incubo dietro le sue spalle lo spinge a dar fondo a ogni minima riserva di energia.
Anche se sa che è inutile. Anche se non esiste salvezza.
La città intorno sa già di morte. L’agglomerato di basse case azzurre, simili a cubi accatastati nel disordine della collina, collegate da un intrico di vicoli e scale dai gradini appena accennati, è completamente deserto. Qualche imposta, qualche porta lasciata spalancata da una fuga precipitosa ondeggia e sbatte, al vento caldo innaturale che ha sostituito la quiete di poco prima.
Nessun sopravvissuto. Solo il suo piccolo fagotto. Per il resto, nessun segno di vita, neppure un crudele ricordo, un corpo inerme, un solo brandello di essere umano, di animale, di insetto. Tutti vaporizzati, meno di un giorno prima, quando ancora il sole rossastro era a metà del suo percorso nel cielo.
Ora la notte copre pietosa la scena e attenua i contorni, ma l’oscurità aggiunge inquietudine, angoscia e paura. Nelle case al tramonto si sono accese molte luci automatiche, a illuminare l’immobilità del vuoto.
Attraverso i vicoli, i sensori segnalano la sua presenza, accendendo le luci agli angoli delle strade quando passa, spegnendole subito dopo.
Luce-buio…luce-buio…luce-buio…Ma quel che è peggio, la danza delle ombre è anche alle sue spalle, gli fa eco, segue il suo percorso: un’altra presenza che attiva gli ubbidienti sensori. Una presenza che non corre, segue con calma la sua traccia, lo insegue, implacabile e paziente. Un freddo ed esperto cacciatore che sa aspettare, non ha fretta; sa che la preda terrorizzata e allo stremo delle forze potrà solo mettersi in trappola da sola. È questione di tempo.
Non è stato ancora abbastanza, no, quell’orrore totale, la scoperta di quella desolazione, al suo arrivo nel paese. A lungo si è aggirato fra i vicoli e le scale, cercando tracce, superstiti, incapace di credere a tanto. Poi un lievissimo rumore lo ha attirato verso una casa, dove ha trovato ciò che ora stringe al petto.
Dopo aver perlustrato il luogo, non si era ancora ripreso da quella valanga di emozioni, stava cercando di recuperare le forze e la calma, lui, un adolescente, poco più di un bambino; un puro miracolo se non era ancora crollato, per l’insensata desolazione di morte.
Ma tornando al veicolo con cui era arrivato fin lì, aveva fatto la scoperta più sconvolgente, che aveva gettato completamente nel buio la sua mente, che l’aveva trascinato giù, sull’orlo della pazzia: una carta, il quadrato giallo poggiato sul sedile, con il fulmine viola che lo attraversava. Non sapeva cosa fosse, intuiva solo che era segno di morte. Per lui, senza dubbio.
Aveva fatto un tentativo disperato di partire, di scappare, ma il veicolo era fuori uso. Se l’aspettava, del resto. Sapeva di non poter più fuggire dalla città.
E allora, correre, correre, correre… scappare, nascondersi, il più possibile, finché regge il fiato, finché la mente non crolla. Strappare alla vita anche solo pochi istanti, tenere a distanza l’inesorabile.
Un sibilo acuto, e tutte le luci dei vicoli si spengono. Il suo inseguitore ha messo fuori uso la centralina dei sensori. È stanco di aspettare, e deve essere abituato a muoversi al buio.
Ora il ragazzo non riesce più a orizzontarsi, la notte è profonda e oscura, i suoi occhi non riescono a distinguere qualcosa fra le ombre. Ora il panico è al suo culmine.
È sicuro che, al contrario di lui, il nemico veda benissimo. Sa dove andare. E dove incalzarlo.
Di lì a poco il destino si compie. Il ragazzo è finito in un vicolo cieco, privo di porte e finestre. A tentoni cerca invano un passaggio lungo i ruvidi muri, un appoggio per salire, qualsiasi cosa. Tornare indietro sarebbe inutile, sa che l’altro lo aspetta al varco.
Alla fine rinuncia. Ogni minimo istinto di conservazione è dissolto. Solo la sua mente continua a ripetersi: non voglio morire… non voglio morire… non voglio morire… non voglio morire…
Si è accasciato contro un muro, la testa china, stringendo sempre di più il fagotto al petto. Non ha più pensieri. Non ha più volontà. Gli sfugge una specie di singhiozzo.
E lo sente arrivare. È vicino, ormai.
Un globo giallo di luce danza su di lui, si posa su una delle lampade del vicolo, che subito si riaccende. Il ragazzo trova, chissà come, il coraggio di rialzare la testa.
Lo vede. La mano guantata di lucido metallo argenteo, la mano fatale che poco prima ha lanciato l’innocuo globo, ma che pure sa lanciare ben altro, è ancora alzata nel gesto.
Un fisico sottile, minuto, la grazia di un danzatore. E il viso, quel viso… Non può essere…
Gli si riaccende nella mente una scintilla di ragione. Non può chiamarla speranza, non oserebbe tanto.
– Con o senza grande dolore, la tua essenza è prossima alla meta.
L’altro ha iniziato la sua cantilena, con una voce bassa, quieta. Quasi tenera. Eppure quell’intonazione è più sinistra di una spietata ferocia, più cupa dell’odio e della rabbia.
– Chiedo il diritto di parola! – lo interrompe, quasi gridando.
La consuetudine è legge, e dev’essere rispettata. L’oscuro nemico arresta il suo discorso e i suoi gesti, si dispone ad ascoltare.
Freneticamente, il ragazzo cerca le parole più adatte, il tono giusto per convincere. Come se ve ne fossero.
– Ti conosco, eri con mia madre nello stesso campo di prigionia. Te la ricordi?
Pronuncia un nome, ripete: – Te la ricordi?
– Non ho obbligo a risponderti, ma … sì, ricordo.
Queste parole sono già un successo insperato. Non si lascia scoraggiare dal tono privo di emozioni con cui sono state pronunciate, ma prosegue, con tutta l’intensità di cui è capace: – Ti prego, risparmiami. Per quell’inferno che hai condiviso con lei. Mi disse che ti aiutò. Che ti salvò la vita. Non vuoi ora ripagare il debito salvando la mia?
Il nemico scuote impercettibilmente il capo.
– L’unico debito è con il committente. Questo è diverso, ragazzo. Questo è solo lavoro.
– Lavoro? Uccidermi, un lavoro? Troncare vite umane? Ma come puoi, tu che hai conosciuto la violenza, la prepotenza, che ne sei stata vittima.
La voce è strozzata. Non riesce a proseguire, né a esprimere l’incredulo orrore che prova.
– Il tuo diritto di parola sta per scadere – gli ricorda l’altro, rimanendo tuttavia in paziente attesa.
– Allora, fallo per questo. L’hai visto, vero?
Solleva il fagotto, lo apre. Un bimbo nato da poco si muove appena. Non piange neppure.
– Non ha che me. L’ho trovato qui, è l’unico superstite. Lo stavo portando in salvo. Morirà di fame e sete. Ti scongiuro, è un bambino: abbi pietà almeno di lui.
La mano guantata ha un guizzo leggero, muove un dito. Un lampo rosa pallido, appena percettibile, attraversa l’aria. Il neonato ha un solo movimento convulso, un tremito. Poi rimane immobile.
Il ragazzo guarda incredulo quel corpicino esanime. Apre la bocca, ma non riesce neppure a gridare.
– Questo non era previsto dal committente. L’ho fatto per te: così ho ripagato il mio debito. Sarai in pace, ora. Non lasci più nulla, dietro le tue spalle. La morte è inevitabile. Inutile averne paura.
Con orrore infinito, di nuovo preda di pensieri incoerenti, il ragazzo osserva la mano alzarsi di nuovo, puntare verso di lui. Per un istante si chiede sotto che forma arriverà il lampo, se dovrà torcersi come un verme ai piedi di quel mostro in forma umana, o se a lui piacerà dargli una fine rapida.
Come a rispondergli, l’assassino promette: – Non ci sarà dolore. Così ho deciso.
Poi, la luce firma la sentenza.
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