Un vecchio detto recita “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”, per rimarcare la differenza tra le parole e i fatti. Una differenza esiste, ma l’idea che il parlare e il fare siano cose diverse e contrapposte non è affatto corretta, perché parlare è un’attività come un’altra. Si parla come si cucina, si legge o si passeggia. Per dirla tutta, parlando si fanno un sacco di cose. Vediamo quali.

Intanto ci sono i verbi “performativi” studiati da John Austin. In Come fare cose con le parole [1] il filosofo britannico spiega che ci sono cose che si fanno parlando. Ad esempio, se dico: “Ti maledico”, la maledizione consiste proprio nell’emissione dell’enunciato. Non si tratta, ovviamente, di magia, ma del fatto che alcune azioni si eseguono parlando.
Più in generale, in quanto comunicazione il linguaggio consente di eseguire degli atti linguistici che sono di fatto delle azioni. Se dico: “A che ora ci vediamo?”, sto facendo una domanda. In questo caso, l’espressione grammaticale (locuzione) e l’atto linguistico (illocuzione) coincidono. Se invece dico: “Mi passi il sale?”, locuzione e illocuzione sono diverse, perché ti faccio una domanda, ma la mia è una richiesta. Quest’ultima serve per ottenere che tu mi passi il sale, e questo è il suo aspetto perlocutorio, il risultato specifico che voglio ottenere dicendola.
Le parole si usano anche per fare altro, ad esempio: recitare una poesia, cantare, rimproverare, adulare, eccetera. Per quale motivo allora ci sembra che dire le cose non è come farle? Se io dico: “Ti rompo la faccia”, la mia frase non equivale a un colpo sul viso, si limita a minacciarlo. La minaccia, però, è un’azione di per sé, un atto linguistico che corrisponde a un gesto aggressivo, anche se non è fisico ma verbale.
Più in generale le parole vengono usate per descrivere una situazione o per attestare un fatto. Un fatto è uno stato di cose, o un evento che è accaduto. Asserire un fatto è un modo per stabilire una certa realtà. Il nostro rapporto con la realtà può essere più o meno diretto. Ad esempio: sono coinvolto in un incidente d’auto, o assisto a un incidente, o mi raccontano un incidente.
Supponiamo che di un incidente io abbia due versioni concordanti, oppure due versioni in contrasto tra loro. Nel primo caso io posso attribuire alla prima versione più credibilità rispetto alla seconda. Ma se ritengo (a torto o a ragione) che una delle due fonti sia più affidabile dell’altra, prenderei per buona la sua versione, forse anche nel caso in cui l’altra versione fosse sostenuta da due o tre fonti diverse, per cui dovrebbe essere ritenuta la più credibile.
Se sono io ad assistere a un incidente, la mia versione mi sembrerà inoppugnabile. Qui tuttavia entra in gioco la differenza tra eventi, fatti e descrizioni. La percezione dell’evento non è l’evento, mentre il fatto è uno stato di cose o un evento accertato. Io stabilisco un fatto quando descrivo uno stato di cose o racconto un evento, in questo caso a partire dai dati della mia percezione.
La narrazione è la descrizione di un evento nella sua evoluzione temporale. Un evento è un fatto nel momento in cui io ritengo che la narrazione ricostruisca l’evento in modo fedele. Il fatto che il resoconto di più testimoni tenda a non combaciare dimostra che il fatto non preesiste alla narrazione che ne viene fatta.
Questo non vuol dire che stati di cose ed eventi non abbiano una loro realtà, ma che noi dobbiamo ricostruire tale realtà. Quando la ricostruzione è ritenuta valida, noi diciamo che è vera. La verità di una ricostruzione dipende dunque dal suo grado di credibilità, la quale ha un duplice aspetto: c’è una credibilità oggettiva e una credibilità soggettiva, e non sempre si corrispondono.
Supponiamo ora che io stesso sia stato coinvolto in un incidente. In tal caso ne riporterò un danno fisico più o meno grave, che costituisce un fatto in un senso indipendente dalla descrizione che io o altri possiamo farne.

Il motivo di ciò è che il danno fisico è reale in modo diretto e non simbolico, nel senso che non può essere ridotto alla sua descrizione. Non è la diagnosi del medico ad attestare la ferita (se non in senso burocratico): essa si attesta da sé.
Tutto il resto, invece, è considerato reale proprio attraverso la simbolizzazione, cioè mediante una narrazione considerata vera. Si coglierà che una ferita è reale in questo senso solo per chi la subisce, mentre per tutti gli altri la sua realtà è o percettiva, o puramente simbolica: esiste nel linguaggio.
Perciò è facile pontificare sui problemi degli altri. Quel che è peggio, l’immaginario si infiltra nel simbolico, creando descrizioni e narrazioni che non corrispondono alla realtà, ma che vengono spacciate per vere. La realtà ha dunque degli aspetti reali, quelli che non possono essere messi in discussione perché ci toccano in modo diretto. In tutti gli altri casi, la realtà dipende invece dalle narrazioni, perciò la lotta per il potere può essere combattuta in due modi: sul piano reale con la forza bruta, e sul piano simbolico facendo scontrare una narrazione contro l’altra.
La differenza tra dittatura e democrazia è appunto questa: nella dittatura si governa usando la forza, nella democrazia si governa creando consenso. Naturalmente in un governo reale convivono aspetti repressivi e aspetti propagandistici, con una differenza quantitativa, a seconda dei casi, dei primi rispetto ai secondi. La propaganda viene usata per influenzare, perciò anche nella migliore della ipotesi il consenso si crea attraverso una manipolazione dei dati disponibili (magari sostituendoli con dati fasulli) ovvero per mezzo di narrazioni non fedeli.
L’epoca attuale è attraversata dall’idea che possiamo sapere tutto di tutti, ma si tratta di un’illusione, perché di fatto ci troviamo immersi in una marea caotica di informazioni, immagini e notizie. Alcune sono più o meno vere, altre rovesciano la realtà, altre ancora sono distorte, o inventate di sana pianta. Ognuno sceglie quelle che preferisce, ma il criterio non è quello della credibilità. Si tratta appunto di una preferenza, di ciò che si vuole credere.
La verifica non interessa. Ci si pasce di notizie come di cibo: ognuno sceglie secondo il suo gusto, e vorrebbe poterlo imporre anche agli altri. È come se la realtà potesse davvero essere creata dalla sua descrizione, perciò imporre una descrizione equivale a imporre una realtà al posto di un’altra. Philip Dick lo aveva già magistralmente rappresentato nel suo L’occhio nel cielo [2] il che ci ricorda che le parole possono creare interi mondi senza farli scontrare tra loro, ovvero i mondi della finzione narrativa. Ma questa è un’altra storia. Anzi, più di una.
Note
[1] John Austin, How to Do Things with Words, Clarendon Press, 1962. Il libro contiene le lezioni tenute da Austin nel 1955 all’università di Harward.
[2] Philip Dick, Eye in the Sky, Ace Books, 1957.
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