L’uomo è un animale sociale, diceva già Aristotele, e la socializzazione è il processo in cui un essere umano impara a socializzare. Ma cosa vuol dire socializzare? Potrebbe venire in mente il concetto di cooperazione, ma quest’ultima è piuttosto un risultato della socializzazione, uno dei motivi per cui si socializza. In essenza, si tratta di relazionarsi con i propri simili. A sua volta la relazione consiste di interazioni, e l’interazione sociale fondamentale è la comunicazione [1].

Se prescindiamo dagli aspetti linguistici e ci focalizziamo sugli aspetti pragmatici, cioè concreti, diviene evidente che per gli umani la realtà è una costruzione sociale e che il parametro di base sul quale si valuta la sanità di un individuo è l’accettazione, o comunque l’adeguamento, alla realtà condivisa. Per cogliere la portata di questa affermazione, si può fare riferimento ad alcuni romanzi di Philip Dick, segnatamente a L’occhio nel cielo [2] e Follia per sette clan. [3]

Nel primo, Dick ci mostra come una realtà che si conformasse alla visione di un solo individuo si trasformerebbe in un incubo, e questo è peraltro il problema dei regimi totalitari (emblematico quello ideato da George Orwell nel suo romanzo 1984, del 1949). Nel secondo romanzo, Dick descrive una comunità chiusa nella quale i clan del titolo sono gruppi di persone accomunate da una stessa tipologia psichiatrica.

La storia raccontata da Dick si regge sull’idea che gli umani tendano a stabilire legami sociali con individui che hanno la loro stessa percezione della realtà (oltre che una personalità similare). Questo può sembrare ovvio, ma suggerisce qualcosa di più sottile, cioè che qualunque visione della realtà, per bizzarra che sia, verrà sostenuta apertamente a patto che trovi un gruppo sufficientemente ampio di sodali.

In altre parole, ciò che conta è la condivisione, ma non è necessario che essa sia universale, e del resto la maggior parte delle credenze diffuse sulla realtà non sono affatto accettate da tutti. In fondo, la pluralità è l’essenza della democrazia. Ciò non toglie che le credenze siano in competizione l’una con l’altra, e che ciascun gruppo o comunità ambisca a imporre la propria opinione su quella degli altri. Questo tipo di fenomeno, di per sé tutt’altro che recente, ha tuttavia acquisito caratteristiche inedite all’interno della società dell’interconnessione perenne.

Siamo di nuovo alla questione della comunicazione, e qui vorrei introdurre una tesi che può essere attribuita a Niklas Luhmann [4] che siano le parole a produrre il significato, e non il contrario (Jacques Lacan parla di “primato del significante”). Nella teoria classica si parla di codificazione e decodificazione, supponendo che i pensieri (livello semantico) vengano messi in formato linguistico (livello sintattico) e che poi quest’ultimo venga ritrasformato nei pensieri che lo hanno originato.

Nella teoria di Luhmann non sono gli umani a comunicare ma i sistemi sociali, nel senso che gli umani emettono messaggi, ma il risultato dei loro tentativi dipende dal modo in cui i riceventi interpretano a livello semantico il formato sintattico a loro disponibile. In definitiva, è il medium a comunicare perché è il medium che fa da tramite tra i parlanti, dato che tra essi non c’è alcun contatto diretto da pensiero a pensiero.

La questione è quindi più complessa di come sembra, perché il significato originale (il pensiero) è del tutto inaccessibile (la mente è una “scatola nera”, una black box) e dev’essere ricostruito. Solo l’assenso del parlante può stabilire se la ricostruzione sia corretta, o comunque accettabile, ma tale assenso non sempre è disponibile e spesso non è neppure richiesto. Tutto ciò ha una conseguenza a prima vista positiva, perché nessuno può prevedere che cosa verrà capito di ciò che si dice, e ne deriva che il tentativo di manipolare l’opinione delle masse risulterà problematico.

Tuttavia, la manipolazione non consiste solo nel tentativo di far passare un particolare messaggio. Sotto questo aspetto, la comunicazione si limita a ripetere contenuti semplici che dipingano la realtà nel modo in cui si vuole che appaia, cioè difforme da com’è davvero, ma questo non è tutto.

Il vero problema dell’era della comunicazione globale è l’impossibilità di distinguere le notizie che vengono date in buona fede (cioè credute vere da chi le diffonde) dalle notizie che vengono diffuse da chi sa che esse non sono veridiche. Questo sembra corrispondere al tentativo di far passare per buone delle informazioni fasulle, ma è qualcosa di diverso e di più deleterio.

La contro-informazione infatti non modifica semplicemente la verità, ma mescola cose vere e cose false, e cerca di creare stati d’animo, piuttosto che delle opinioni. Determinati stati d’animo, tra cui l’incertezza su come stiano le cose, una volta suscitati rendono più probabili alcuni atteggiamenti e modi di comportarsi piuttosto che altri. In questo modo si manipola la realtà rendendola confusa e non decifrabile.

La fantascienza s’inserisce in tutto questo in almeno due modi. Da un lato è ben consapevole (si pensi ancora a Dick) della manipolazione a cui è soggetto il reale, dall’altro ricorre a forme di comunicazione diretta (telepatia) per risolvere il problema della comunicazione, perfino tra umani e alieni. Ciò viene fatto in modo più o meno ingenuo, a seconda dei casi e dell’autore. Basti citare l’esempio offerto dal famoso romanzo Solaris di Stanislaw Lem [5] in cui l’alieno costituito da un intero pianeta (di fatto un oceano) riesce a leggere nella mente degli umani, mentre loro non riescono a capire nulla di lui.

Note

[1] Paul Watzlawick, Janet Beavin & Don Jackson, “Pragmatics of Human Communication” (1967), trad. it. “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, Roma, 1971.

[2] Philip Dick, “Eye in the Sky” (1957), trad. it. “L’occhio nel cielo”, Urania 201, Mondadori, Milano, 1959.

[3] Philip Dick, “Clans of the Alphane Moon” (1964), trad. it. “Follia per sette clan”, Galassia 124, La Tribuna, Piacenza, 1970.

[4] Niklas Luhmann (1984), “Social Systems”, Stanford University Press, Stanford, 1995.

[5] Stanislaw Lem, “Solaris” (1961), trad. it. “Solaris”, editrice Nord, Milano, 1973.