La splendida copertina di Max Bertolini per <i>Goliath</i>
La splendida copertina di Max Bertolini per Goliath

Hai vinto o sei arrivato finalista in molti altri premi dopo, vero?

Devi sapere che ho la stessa malattia di Francesco Grasso, che egli tempo fa definì "concorsite". La mia è una necessità psicologica perché il confronto con gli altri è un pungolo costante che mi tiene sveglio e, può sembrarti assurdo, quando i risultati non arrivano l'effetto è triplicato. Sono le mazzate a farti migliorare, secondo me. I premi sono una trincea letteraria: ti costringono a porti domande che altrimenti resterebbero senza risposta, osservi gli altri, impari e mese dopo mese ti fai le ossa.

Il romanzo Goliath è nato dopo queste esperienze di racconti brevi o è stato un lavoro parallelo, al quale hai lavorato anni e anni e anni?

Tutt'e due. Ho impiegato sei anni per scriverlo usando i ritagli di tempo, ma il grosso se ne è venuto fuori negli ultimi due. Ho scontato errori di gioventù perché quando l'ho iniziato ero convinto di sapere come si scrivesse un romanzo (cavolo, avevo ben vinto dei premi!), poi negli anni mi sono svegliato dal sogno e ho ricominciato da capo un'infinità di volte. L'esperienza non è che sia proprio a buon mercato.

Ti è stato utile lavorarci sopra con il direttore editoriale dei Solid Books, Franco Forte?

Franco è un amico e posso dire che, fin dall'edizione 1996 dell'Alien, mi ha sempre dato il consiglio giusto al momento giusto. Avevo già avuto modo di lavorare con lui, ma mai su un romanzo. E' incredibile apprendere ogni volta cose diverse che troppo spesso si danno per scontate, e in questo Franco è un professionista. Certo, le prime volte ho dovuto indossare una robusta tuta da combattimento, poi col tempo qualche suo colpo ho capito come schivarlo, per altri lo anticipo, ma qualche ceffone arriva ancora. Del resto, è l'unico modo per apprendere, no?

Di cosa parla Goliath?

Goliath riprende degli spunti che ho già affrontato in alcuni dei miei racconti; forse sentivo l'esigenza di dare un respiro maggiore a idee che avevo coltivato negli anni. Mi è sempre piaciuto, quando possibile, mischiare l'aspetto tecnologico, mai eccessivo per quanto mi riguarda, con un aspetto un po' piu' spirituale, mistico, direi, che per Goliath forse è il termine che calza meglio. Il tutto inizia come un giallo ambientato in una Torino futura, poi, come spesso accade in romanzi di questo genere, la storia si trasforma sotto gli occhi del lettore diventando altro, mentre i personaggi principali sono alle prese, più che con gli eventi, con se stessi. Atmosfere a me congeniali, azione quanto basta e un finale che mi sono davvero divertito a scrivere. Mi rendo conto che è difficile raccontare qualcosa senza svelare nulla.

Così a occhio sembra che abbia un sapore un po' cyberpunk...

A dire il vero, Franco, in uno dei suoi primi commenti, lo definì un romanzo più vicino alla science-fantasy. Il cyberpunk è un'attitudine, e non me la sento addosso. Comunque ai lettori trovare le connessioni fra le due cose, se esistono.

La cultura giapponese ricorre frequentemente nei tuoi lavori. Sei un nippofilo quindi?

Direi di no, anche se questa potrebbe essere l'impressione data dai miei racconti. A venti anni iniziai, spinto da amici, a praticare arti marziali: judo prevalentemente, un po' di aikido e una spruzzata di tai chi. Ci fu un grande cambiamento nella mia vita, soprattutto legato a un periodo di totale confusione che stavo vivendo. Imparai ad apprezzare il controllo di me stesso, a scavare nelle mie risorse, a ragionare in modo differente. Da li' iniziai ad appassionarmi a un tipo di cultura per me fino ad allora sconosciuta. Non sono un nippofilo perché molte cose di quel mondo così distante non le apprezzo, ma altre possono cambiarti la vita. E' stato un passaggio naturale scriverne.