L'isola dei filantropi: Darkness on the edge of town

Il nome "Omelas", scrive Ursula K. Le Guin introducendo il racconto-apologo del 1973 The Ones Who Walk Away from Omelas per l'antologia The Wind's Twelve Quarters, le era venuto in mente leggendo al contrario un'insegna stradale che indicava la città di Salem, nell'Oregon. Forse l'episodio è vero, forse è solo un brillante tentativo di allentare la tensione di quelle due intensissime cartelle.

Ma poche righe prima si era detto che il racconto parla del "dilemma della coscienza americana". Allora Salem è un nome un po' meno casuale: Salem, Gerusalemme, è la città con cui spesso, sin dal Seicento puritano ("la città sulla collina"), si è andata identificando quell'America che descrive la sua "missione" nazionale come quella di un popolo eletto. A Salem, nel Massachusetts, si erano svolti i famigerati processi della caccia alle streghe. Quel racconto, programmaticamente, è un apologo che parla dell'America, e del suo rovescio.

A inaugurare la letteratura utopica negli Stati Uniti, l'oscuro bozzetto An Allegorical Description of a Certain Island and Its Inhabitants, pubblicato da un anonimo The Philanthropist nel 1790, descrive un'isola idilliaca la cui perfezione può solo essere superata, dopo la morte, dal Paradiso, che tutti i navigatori contemplano in ammirazione da lontano. Ma chi riesce a vederla da vicino, trova una casta di "monitori" che scrutano e puniscono ogni raro sintomo di dissenso nei confronti del benevolo sovrano. Per qualche misteriosa ragione, da quest'isola ideale ogni tanto qualcuno tenta di fuggire lanciandosi in mare, verso morte quasi certa.

Il Filantropo (che scrive per la Massachusetts Magazine, pubblicazione "popolare" dell'epoca) non sta, evidentemente, denunciando l'America come distopia totalitaria: sta ponendo la questione di un'utopia che definisce la sua differenza dal Vecchio Mondo europeo richiamandosi a un'omogeneità nazionale tutt'altro che scontata. Pensiamo, per esempio, alla tremenda contraddizione di uno stato democratico che nasce allo stesso tempo ratificando i diritti fondamentali inalienabili dell'uguaglianza fra i cittadini (la vita, la libertà, la ricerca della felicità, come dice la Dichiarazione d'Indipendenza) e inserendo la schiavitù nella Costituzione. Nei diritti, nei racconti e nello stato, c'è chi definisce, chi è definito, e chi finisce fuori.

Di immagini del genere ce ne saranno tante nella letteratura statunitense (soprattutto in quella che si rivolge al pubblico "di massa"), proprio in quegli anni. Pensiamo alle Lettere di un agricoltore americano di Crèvecoeur: la perfezione agreste della nazione si rompe davanti all'immagine dello schiavo nero in gabbia torturato a morte. Pensiamo ai romanzi gotici di Charles Brockden Brown (Wieland, Edgar Huntly, Ormond, Arthur Mervyn): la pace dell'idillio separato si rivela illusoria e va a pezzi al minimo contatto con l'esterno (il rivoluzionario francese o l'immigrato irlandese). Più avanti, a metà Ottocento (sempre ai confini del gotico e dell'avventura), c'è Benito Cereno di Herman Melville, che intorno all'"ombra" del nero costruisce una beffarda parabola sulla schiavitù. E c'è La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne: la comunità puritana si tiene insieme trasformando in reietta l'adultera Hester (messa alla gogna e respinta ai margini della città), che prima fugge e poi torna a svolgere volontariamente "l'ufficio" di capro espiatorio, garante del tessuto sociale.

Un'utopia chiusa è ancora un'utopia?