Se c’è uno scrittore che è stato capace di mescolare realtà e fantasia al punto che, tirando le somme, si finisce per smarrire il senso del limite, perdendo di vista dove finisca l’una e l’altra cominci, non può essere altri che Kurt Vonnegut. A ben guardare, nella sua produzione i riferimenti autobiografici sono piuttosto precisi e circostanziati. Ma è proprio questa loro caratteristica, unita alla facilità con cui si trovano disseminati in quasi tutti i suoi romanzi e in diversi racconti, che riesce a generare nel lettore qualcosa di non diverso da un senso di smarrimento. Quasi che un simile profluvio di eventi dalla profonda valenza personale sia responsabile di una distorsione in grado di disorientare l’ago della bussola di ogni tentativo di interpretazione.

Capita così che la realtà scivoli nell’invenzione, che questa si risolva nella storia e che la storia, a sua volta, confluisca nella trovata fantastica, grottesca o esilarante che sia. In merito a questo tratto caratteristico, c’è chi ha parlato a torto o a ragione di “autobiografismo esibizionistico” . Quel che è certo, un simile espediente riesce a elevare episodi pure tragici – significativi della visione della vita di un uomo, o addirittura radicati nell’animo di un popolo intero – a una sfera di rappresentatività quasi mitologica, capace d’innalzarsi al di sopra della pura e semplice contingenza materiale. L’abilità di Vonnegut riesce comunque a rendere questa scelta sempre necessaria e indispensabile, sollevandola dal rischio della trovata ovvia o sensazionale. Ed è questa sua estrema naturalezza nel maneggiare una materia in fin dei conti ostica e delicata a renderlo, in ultima analisi, forse il più grande trasfiguratore dei nostri tempi.

In questa sommaria analisi del lavoro di Vonnegut più facilmente riconducibile alla fantascienza o comunque alla narrativa dell’immaginario, prenderemo in esame tre delle sue prime opere: Le sirene di Titano (1959), Ghiaccio-nove (1963) e Mattatoio n. 5 (1968). È bene comunque tenere presente che questa scelta non esaurisce il discorso. La produzione di Vonnegut si è estesa soprattutto in territori non di genere, contribuendo a plasmare il romanzo postmoderno (di cui un altro esponente di spicco è Thomas Pynchon, già discusso proprio su queste pagine), con opere sospese tra nichilismo e denuncia, ma sempre in qualche misura percorse da familiari echi fantascientifici.