Filigrana dei tempi (post)moderni

Il 2001 segna uno spartiacque anche nell’evoluzione della scrittura di William Gibson. I tragici eventi di settembre aprono una ferita nella coscienza di tutto l’Occidente, e a farne le spese maggiori non possono che essere coloro che con la sua storia hanno ancora un conto aperto. Gibson, pur risiedendo in Canada da più di trent’anni, non ha mai rinunciato alla cittadinanza americana, a testimoniare il legame viscerale che lo avvince alla sua terra natale. Negli anni ha fatto più volte ritorno nel suo Sud, e non si è mai tirato indietro quando gli veniva chiesta un’opinione sull’attualità politica, economica e sociale degli Stati Uniti d’America.

Quanto l’11 settembre sia rimasto impresso anche nella sua coscienza di cittadino americano è evidente dalla lettura de L’accademia dei sogni . La storia, che segue le peripezie di Cayce Pollard in un futuro ormai indistinguibile dal nostro presente, tradisce un unico, significativo appiglio alla storia di questi ultimi anni: l’attentato al World Trade Center, in cui tra i dispersi delle Twin Towers figura anche il nome del padre di Cayce, ex agente della CIA in pensione. Nessuno riesce a spiegare cosa ci facesse a New York quel giorno, come se qualcuno si fosse prodigato a cancellare tutte le sue tracce intorno alla sua presenza proprio nei paraggi di Ground Zero. La madre di Cayce si è fissata con i Fenomeni di Voce Elettronica, un particolare caso di apofenia (“la spontanea percezione di collegamenti e significati tra cose non correlate”, come scrive lo stesso Gibson) che consiste nel registrare rumori ambientali e ricercare poi nel ronzio di fondo della realtà eventuali messaggi lanciati ai vivi dalle presunte anime dei morti. Cayce, che guarda alla fissazione della madre con un misto di sufficienza e rassegnazione, non si è rassegnata lei stessa al dolore, e continua a inseguire a modo suo lo spettro del padre.

I suoi insegnamenti, se non altro, le tornano utili non appena si scopre invischiata in uno strano intrigo, intrappolata negli ingranaggi di una macchinazione che sembrano colpirla da più di una direzione. Win Pollard era infatti un esperto di sicurezza che prestava le sue consulenze ai enti privati e governativi. La sua ossessione per la “messa in sicurezza del perimetro” si è trasmessa alla figlia, la prima eroina gibsoniana a meritarsi un intero libro tutto per sé, un’innovazione che – attraverso la stessa assonanza del nome: Case-Casey-Cayce – si ricongiunge direttamente al passato e alle origini di Neuromante, il primo romanzo di Gibson e finora l’unico ad aver presentato il punto di vista di un unico, inconfondibile protagonista.

E dopo gli hacker, dopo gli analisti quantitativi, Gibson introduce anche una nuova

professione: il coolhunting. Proprio questo è Cayce, una cool-hunter, una figura già esistente nella realtà ma nel caso in questione esaltata dalla sua particolare sensibilità all’impatto inconscio dei marchi (e il parallelo con Laney è immediato). Fin dalla più tenera infanzia Cayce ha sperimentato sulla sua pelle la capacità di penetrazione dei simboli del commercio: scoprendo la sua dolorosa repulsione per l’omino della Michelin, arriva a confermare i suoi timori crescendo. Adesso, alla soglia dei trent’anni, l’unico modo che ha per sopravvivere in un mondo assediato dai brand, è di limare i bottoni dei jeans e strappare le etichette e i contrassegni da giacche e magliette.