Ed Zitron, londinese, 33enne, fondatore e CEO della EZPR, compagnia che si occupa di pubbliche relazioni, nel 2016 ha scritto un articolo per il sito Deadspin, nel momento in cui per Jonathan Nolan finiva l’avventura di Person of Interest ed iniziava quella di Westworld.

Quasi alla fine dell’articolo Zitron afferma: «Di sicuro non ricordo che nessuno abbia detto riguardo a Person of Interest: “Chi avrebbe mai immaginato uno show che esplora i meccanismi di auto apprendimento di una AI?” o che lo abbia usato nei social come argomento di discussione sull’edonismo tecnologico. La differenza con Westworld è che quest’ultima ha dietro di se l’apparato marketing di HBO (invece della CBS dell’altra serie). C’è un feeling particolare tra internet e questo tipo di serie TV (come dimostrato da serie quali Lost e Game of Thrones) sulle quali dobbiamo costantemente martellare e pontificare, e spero che questo non impedisca a Westworld di raggiungere l’unico scopo che una serie ha: raccontare una buona storia». Manifestando anche un certo fastidio nell’ingerenza di internet su qualità, scelte produttive e diritto all’esistenza che le serie hanno.

Chissà se Zitron avrebbe mai immaginato che a distanza di quattro anni proprio Westworld (diventata ormai una della tante serie discusse su Reddit e in rete) avrebbe portato ad un ritorno di fiamma di Person of Interest. Infatti i dati di streaming della serie ormai chiusa rilevano un aumento di interesse, e parecchi dei nuovi appassionati iniziano anche a chiedersi come mai non l’avessero notata durante il suo percorso sulla CBS.

La terza stagione di WW (al momento siamo al quinto episodio trasmesso) ha rinunciato all’ambientazione western e alle linee narrative temporalmente sfalsate per una narrazione più lineare e ambientata nel mondo esterno ai parchi a tema.

Un mondo futuribile dove Rehoboam (Geroboamo) è una AI che attraverso una app guida letteralmente il destino degli esseri umani in maniera quasi identica a come venivano guidati i robot di Westworld dal defunto Anthony Hopkins. Una AI creata dai fratelli Serac (di cui è sopravvissuto uno solo interpretato da Vincent Cassel), due profughi francesi giunti negli USA dopo che Parigi è stata nuclearizzata (per ora non è dato sapere per quale motivo). Il genio dell’uno e la spregiudicatezza dell’altro (Cassel) li hanno condotti a creare un dio. Un dio capace di impedire agli esseri umani di autodistruggersi, guidandoli sui precisi binari di vite così preordinate che al confronto quella di Truman nell’omonimo film è pura anarchia.

Person of Interest, iniziata nel settembre del 2011 e conclusasi a giugno 2016, si presentò (nella prima stagione) come un “crime drama” appena velato di fantascienza. La storia era quella di un ex agente CIA (Reese/Jim Caviezel) reclutato da un miliardario genio dell’informatica (Finch/Michael Emerson) creatore di una AI chiamata “La Macchina”, che il governo USA utilizza per monitorare ed evitare altri eventi catastrofici come il 9/11. Nei dati esaminati dalla Macchina, però, esiste una vasta quantità di “irrilevanti” ovvero di persone ed eventi che pur non essendo catastrofici sono comunque criminosi, ed è su questi che i due protagonisti si metteranno al lavoro. Nel corso delle stagioni si passò dal crime alla fantascienza distopica, fino ad assistere allo scontro tra la Macchina e il suo nuovo fratello Samaritan, strumento di controllo più serrato e subdolo realizzato e messo in funzione da una frangia autoritaria del governo che fa capo al classico senatore in odore di dittatura occulta.

In una intervista del 2014 a Jonathan Nolan, in merito a Snowden e il Wikileaks, il produttore affermò: «Il momento che stiamo vivendo è quello in cui i dati da passivi, cioè qualcosa che la nostra vita produce, stanno diventando attivi. È il momento in cui i dati iniziano a controllarci. I sistemi informatici stanno sviluppando la capacità di dirigere le nostre vite in modo sottile sfruttando proprio i dati che produciamo.» Ed è il possesso di una illimitata quantità di dati che determina il potere sia in Person of Interest che in Westworld (tutte le prime due stagioni di questa lasciavano capire che ogni ospite del parco veniva ridotto ad un flusso di dati utili. Nella terza, finalmente, scopriamo per cosa: essere inseriti nel sistema della AI Rehoboam).

Appare molto chiaro, dunque, il collegamento tra Person of Interest e Westworld nei temi propri che appartengono a Nolan. Uno su tutti: il libero arbitrio.

Lo slogan della terza stagione di Westworld è, infatti, “Free Will Is Not Free” (il libero arbitrio non è libero), e questo è chiaramente applicabile già ai personaggi di Person of Interest, che si trovano a doversi opporre ad un programma di controllo dei cittadini USA, passando poi per gli Host di Westworld, gli androidi più umani degli umani, che non hanno alcun libero arbitrio se non l’illusione della narrazione che Robert Ford/Anthony Hopkins fornisce loro, per arrivare alla narrazione totale della vita planetaria nelle mani di una AI in questa nuova stagione.

Accanto al libero arbitrio, però, c’è il tema degli “irrilevanti”. In Person of Interest è l’interesse di Finch per i crimini giudicati irrilevanti in quanto non implicano grandi minacce per la sicurezza nazionale e coinvolgono persone comuni. Nelle prime due stagioni di Westworld sono gli androidi del parco ad essere giudicati irrilevanti, pure macchine funzionali alle storie e al divertimento, ed è su loro che si appunta l’occhio della serie. Nella terza, gli irrilevanti sono tutti quegli esseri umani destinati a sprecare il proprio potenziale secondo la AI Rehoboam e quindi destinati a costituire dei vicoli ciechi dell’evoluzione della specie sui quali non vale la pena di investire.

Il terzo tema, una quasi inevitabile conseguenza dei primi due, a questo punto: la ribellione degli irrilevanti nei confronti di un Dio dispotico e dittatoriale.

In Person of Interest un gruppo (che si costituisce lungo le stagioni) di irrilevanti fuori dagli schemi rovescia il sistema di Samaritan, in Westworld gli irrilevanti Host operano una mattanza di ospiti umani e tecnici per liberarsi dalle strette maglie della narrazione ed uscire nel mondo vero dove scoprono la presenza della narrazione totale che decidono di rivelarlo agli ignari e irrilevanti esseri umani.

Entrambe le serie raggiungono lo scopo di una serie (come si diceva all’inizio) “raccontare una buona storia”, e per fare questo, ovviamente, hanno bisogno di creare un legame tra spettatore e protagonisti.

Così è stato per Person of Interest e il suo gruppo di eroi. In Westworld, però, la situazione è meno semplice. Per chi tifare? Per gli irrilevanti, ovvio, ma quali? Per gli androidi o per gli umani? C’è poi una vera differenza tra le due specie?

E se tutto questo volesse stimolare una riflessione sulla razza umana che vede esaurirsi il proprio compito evolutivo per cedere il passo a quella degli androidi e delle AI che essi stessi hanno creato?

Forse l’uomo è destinato ad essere sparso tra le stelle come corpi umanoidi e schemi di pensiero che egli stesso ha generato in viaggi di esplorazione che, per la sua propria debolezza fisica e anche per difetti comportamentali e sociali, non riuscirebbe a sopportare in altro modo?

Eventuali risposte a queste speculazioni le potremo trovare nella prossima quarta stagione, che è stata messa in produzione. Bisogna vedere, però, in quanti vorranno andare a vedere cosa ci riserverà la narrazione di Jonathan Nolan.

Inutile nascondersi che la serie ha cambiato pelle, e da una prima stagione folgorante siamo giunti ad una terza che nel cambio totale di ambientazione e di scelte narrative (addio agli intrecci di linee temporali narrative) si è un po’ sfilacciata, perdendo molto della sua coralità. L’ultima stagione ha introdotto qualche nuovo personaggio: il Caleb interpretato da Aaron Paul, e il già nominato Serac di Vincent Cassell, ma lo spessore narrativo e psicologico della prima stagione si è un po’ perso rendendoli forse più icone di concetti filosofici che personaggi a tutto tondo.

Insomma, il livello di empatia spettatore/personaggio per questa terza stagione è calato specialmente nei due ultimi episodi dove la voglia era di vedere dove volesse andare a parare la riflessione sul libero arbitrio piuttosto che appassionarsi alle vicende dei personaggi. Purtroppo un perplesso disinteresse si è anche manifestato nei confronti di William (uomo in nero) e Bernard, due personaggi che fino alla scorsa stagione erano centrali e sfaccettati e invece sono stati ridotti quasi a dei riempitivi (d’accordo, forse nelle loro mani c’è il destino della quarta stagione).

E anche se in Westworld abbiamo ritrovato addirittura la lotta tra due AI (perché a Rehobohan si contrappone il suo precursore Solomon) che può aver richiamato l’intreccio trasversale di Person of Interest, quello che è mancato, in questa stagione, è proprio un gruppo di protagonisti per i quali emozionarsi per davvero.

Per un giudizio definitivo, però, aspetteremo la prossima (e ultima) stagione.