Tra le immagini iconiche di Dark, serie tedesca prodotta da Netflix, iniziata nel 2017 e terminata con la terza serie uscita il 27 giugno 2020, c’è quella di una sfera perfetta e totalmente oscura.

Gli autori, Baran Bo Odar (che è sceneggiatore e regista di tutti gli episodi) e Jantje Friese (partner anche nella vita di Odare sceneggiatrice alla quale nel 2015 è stato tributato il German Film Awards per il film Who Am I) hanno costruito una storia perfetta, Nel lavoro di preparazione hanno definito minuziosamente tutto ciò che vi accadeva dall’inizio alla fine dell’intera cronologia e poi, uscendo dalla storia stessa, hanno osservato la sfera e deciso da che parte volevano affrontare la storia e raccontarla.

Il successo di Dark, che in molti definiscono la migliore serie finora prodotta da Netflix (andrebbe aggiunto di fantascienza, ce ne sono di altrettanto buone in altri generi) sta proprio in questo: il lavoro attento di preparazione e sviluppo della storia.

Se la seguite sapete a cosa mi riferisco, se non l’avete fatto provateci e vi troverete invischiati nella storia inevitabilmente e lentamente.

Altra sua caratteristica, infatti, è il ritmo, apparentemente lento ma con ha accelerazioni improvvise e fulminanti, e intrecci di storia che sembrano complicarsi sempre di più.

La vicenda parte dalla sparizione di un bambino nella cittadina tedesca di Winden che vive attorno ad una centrale nucleare, ma il thriller lascia ben presto il posto alla fantascienza dei viaggi nel tempo.

Non pensate a Ritorno al Futuro, e nemmeno ad Avengers Endgame, in Dark i personaggi riescono ad incontrare ed interagire con le versioni di se stessi più giovani e più vecchie (e ne incontrano diverse) senza che ciò «sia male» come avrebbe detto il dottor Venkmann dei Ghostbusters.

Il dipanarsi dei viaggi nel tempo (e anche dei mondi paralleli) porta alla meticolosa costruzione dell’albero genealogico degli abitanti di Winden che ha stimolato tanti fan a riempire la rete di schemi, guide ai personaggi ed ipotesi.

È singolare come negli ultimi tempi ci siano diverse produzioni fantascientifiche che utilizzano il viaggio nel tempo quasi sempre con lo scopo di salvare chi si sta dirigendo verso una catastrofe. Come se il malessere di condividere una società non troppo rassicurante spingesse a desiderare di capovolgere uno o più nodi della nostra storia passata. Non possiamo negare che alcune di queste produzioni sono ampiamente pasticciate e dimostrino come un argomento come i viaggi nel tempo, se non ben gestito, porti gli autori ad incartarsi.

In Dark non succede.

Per quanto il titolo riporti all’oscurità, alla morte, all’entropia massima, alla non esistenza (tutto ben veicolato dalla fotografia in toni freddi e dall’ambientazione nordica) in realtà Dark parla di amore e salvezza.

La potenza dei sentimenti è presente dall’inizio alla fine della storia, affidata alla recitazione dei personaggi (e qui un applauso al casting anche per come ha saputo selezionare attori differenti ma somigliantissimi per le differenti età dei personaggi) e alla definizione dei loro caratteri che non scade mai nel banale. In Dark si incontrano bambini, adolescenti, adulti, anziani e vecchi, tutti profondamente veri e non ridotti a icone narrative senza sostanza. Vedendo serie, spesso, siamo indotti a ragionare per luoghi comuni, c’è il ragazzo ribelle che poi si redime, la bella antipatica, il padre autoritario, il cattivo a tutto tondo creando così una mappa dei personaggi che può anche far prevedere lo sviluppo e i colpi di scena nella storia. Nemmeno questo accade in Dark, dove i ruoli sono intrecciati a tal punto che non possiamo definire un «buono» e un «cattivo».

La serie è percorsa anche dal senso di ineluttabilità del destino, tanto da mostrare come, ad un certo punto, anche effettuando scelte diverse, accadano sempre gli stessi eventi magari in situazioni contingenti e temporali diverse.

Seguire gli episodi porta, mano a mano che si procede, ad un felice senso di confusione davanti al quale o ci si ferma e si iniziano a comporre schemi e diagrammi o (molto meglio) si «rompe il fiato» e si va avanti, lasciandosi condurre per mano fino allo scioglimento della storia (che, sia molto chiaro non lascia alcuno spazio per altre serie) delineata dai narratori.

Mano a mano che si procede appaiono scenari futuri e mondi alternativi del tutto intriganti e di cui non tutto viene chiarito (altro applauso per l’uso centellinato dello spiegone) però anche il non detto appare clamorosamente chiaro, come se nella mente dello spettatore si creassero delle spiegazioni subconscie.

La fantascienza di Dark è una fantascienza «ferrosa», quella che si accompagna al rumore di pesante porte metalliche che cigolano e si chiudono con un tonfo. Ed è una fantascienza che ruota attorno alla «particella di Dio» e ad una centrale nucleare. Per questo motivo l’unico emulo di Dark, forse, si può trovare in Tales From The Loop, la serie di Amazon creata da Nathaniel Halpern e basata sui disegni di Simon Stalenhag, artista svedese che mescola la quotidianità con oggetti retro-scifi. Per ora di Loop c’è una sola serie che sembra aver posto dei presupposti simili alla serie di Netflix, vedremo se e come verranno sviluppati.

Due dei concetti ricorrenti di Dark sono il numero tre (spesso vediamo le tre età dei personaggi insieme, i salti temporali avvengono ogni 33 anni, su un misterioso libro la copertina reca il simbolo della triquetra) e la domanda: «Si può riportare indietro qualcuno dal mondo dei morti?»

E per quanto semplice e provocatoria questa possa sembrare, fa riflettere come potrebbe essere tanto semplice e allo stesso tempo ambiziosa la motivazione che spinge inconsciamente i ricercatori delle particelle: modificare il tempo per impedire una grossa catastrofe, o anche solo per poter riabbracciare chi si ama ed è stato portato via dall’imprevedibilità della vita.

Scienziati, astronauti, avventurieri, esploratori e tutti gli altri protagonisti delle storie di fantascienza che abbiamo letto e visto sono, alla fine, solo esseri umani guidati da sentimenti primari quali l’amore e la paura, e parte del fascino della fantascienza è avere da sempre raccontato del fattore umano messo davanti a prove quasi impossibili da superare che vengono poi risolte proprio dalle qualità umane intese nella loro accezione più alta.

Dark parla anche di sacrificio, e di angeli (non quelli «leziosi» con le ali,ma molto più simili a quelli de Il Cielo Sopra Berlino) e getta il seme di numerose riflessioni sulla nostra vita quotidiana, il che la rende ancora più profondamente fantascienza, e lo fa adoperando con maestria tutti gli elementi di un prodotto cinematografico, compresa la musica. La playlist della serie (disponibile su Spotify) è altrettanto bella quanto la serie stessa. L’unico brano che aggiungerei è Higgs Boson Blues di Nick Cave, proprio per il riferimento alla «particella» nel titolo e per il «groove» del brano.

Alla fine dell’ultimo episodio la sensazione che resta è di soddisfazione per non aver sprecato il tempo e l’attesa di anno in anno, cosa non semplice in questi tempi inflazionati da serie di ogni tipo.

Ovviamente non potrà piacere a tutti, ma una possibilità potete concedergliela.