Contro l’assurdità e la follia della normalità quotidiana e delle istituzioni sociali, per molti l’unica opposizione alla (parola chiave) “tecnocrazia” è l’uscita individuale dal mondo, talvolta anarchica, talvolta semplicemente passatista. E allora abbiamo i sogni – a volte, gli stereotipi – di un ritorno al primitivo, al tribale, a un mondo pre-capitalista e pre-tecnologico,

Michael Moorcock
Michael Moorcock
che sembrano idealizzazioni pastorali un poco consolatorie – pensiamo alla strada che porta dalle filosofie orientali alla New Age odierna – più che strategie politiche. Forse anche in questi termini è giusto che uno dei miti di questa generazione diventino gli hobbit (placidi, nullafacenti, goderecci) del Signore degli anelli, che in questi anni raggiungono una popolarità americana che non smetterà mai di stupire il suo autore: Frodo lives, Frodo è vivo, dirà una celebre spilla che radica nell’immaginario di massa l’universo di Tolkien, complesso ma dominato da un atteggiamento nostalgico. D’altra parte, anche con Frodo, Gandalf e la loro alleanza per opporsi a un conflitto disastroso, nella cultura e nell’azione politica, questo è il momento in cui le preoccupazioni ecologiche arrivano in primo piano.

Però, in modi radicalmente diversi, un’altra tendenza trova nella tecnologia un potenziale salvifico, in qualche caso con accenti metafisici. Al livello più alto, c’è Gregory Bateson che parla di legame fra evoluzione psichica e ricerca cibernetica, fra ecologia e psicologia: se si riuscirà ad applicare alla società il principio cibernetico dell’autoregolazione, forse si riconquisterà un Eden. In termini che catturano l’attenzione più generale, sono Marshall McLuhan e Timothy Leary a legare determinismo scientifico-tecnologico e vitalismo primitivista. Il villaggio globale di McLuhan, che unificherà in una singola rete i sistemi percettivi individuali, è l’annuncio di un millennio terreno, una consapevolezza planetaria che renderà obsoleti i limiti del linguaggio, dei territori, del corpo e di ogni parzialità sociale: la visione beatifica di un cattolico altamente eterodosso che, per le vie tortuose della cultura, si ritrova in sintonia con i sogni degli hippies. Invece, per Leary sono le droghe il veicolo della nuova coscienza collettiva; la nuova generazione, espandendo la consapevolezza, si sta tramutando in una sorta di nuovo passo evolutivo. Con loro due, molti dei modelli futuribili della fantascienza (nella musica, nel cinema, nella letteratura) entrano in risonanza con il pubblico che vive la controcultura. E fra lo sterminato numero di riviste nate in California, il Whole Earth Catalogue di Stewart Brand, inaugurato nel fatidico 1968, partendo dalle tecniche dell’agricoltura sostenibile, si trasforma sempre più in una specie di manuale di futurologia visionaria. La liberazione, comincia a dire Brand, non dovrà respingere la tecnologia; la rivista e il suo direttore, anni dopo, torneranno in primo piano nella divulgazione del cyberpunk.

 

La fantascienza negli anni 60

Ripartiamo, comunque, dall’anno celebrato da noi europei: il 1968 della SF. E in effetti le innovazioni, formali e tematiche, arrivano soprattutto dalle isole britanniche, esemplificate dall’antologia curata da Judith Merril, England Swings SF, che ufficialmente ratifica la nascita della “nuova ondata di narrativa speculativa”, la New Wave, un’etichetta che in seguito finisce col riunire sia autori della nuova generazione, sia affermati scrittori che da

S. Delany: Nova
S. Delany: Nova
quel decennio trovano nuova linfa e nuovo coraggio. Ma le uscite importanti del 1968 fantascientifico sono tante.

Tutti a Zanzibar di John Brunner rinnova le sperimentazioni formali degli anni Venti di John Dos Passos per presentare una distopia della sovrappopolazione in cui quel che conta non è la trama ma l’affastellarsi dei dati (narrazioni, estratti di giornale, saggi fittizi) che, per frammenti sovrapposti, al limite del sovraccarico informativo, costruiscono un mondo: quasi un’epica della crisi. Programma finale di Michael Moorcock, il romanzo più vicino alla sensibilità delle mode giovanili britanniche, lancia un protagonista che avrà lunga vita (anche al cinema): Jerry Cornelius, un po’ James Bond, un po’ supereroe, che acquisisce una qualità semidivina nella finale incarnazione ermafrodita. Pavana di Keith Roberts e Cronomoto del nordirlandese Bob Shaw aggiungono una nota poeticamente malinconica all’atmosfera del periodo, rispettivamente con un’Inghilterra ucronica dominata dalla Chiesa cattolica e una storia di universi paralleli: in ultima analisi, opere sulla fragilità delle certezze presenti. A questi potremmo aggiungere Gli uomini nei muri di William Tenn (autore residente negli USA ma di nascita inglese), amara parabola darwiniana che riprende direttamente Wells cancellando l’umanità dal ruolo di specie dominante nell’ecologia del mondo.