Quello di Kennedy è un nuovo ideale di coesione nazionale, fatto di ottimismo, di comunicazione e conoscenza, al di là della sindrome del sospetto. Il suo perseguimento è uno dei fili conduttori del decennio: fra le sue conclusioni c’è proprio l’arrivo sulla Luna dell’Apollo 11, il 21 luglio 1969.

Un’altra, inattesa storia di fantascienza è del 1964, contenuta nell’Autobiografia di Malcolm X, il primo libro che, con un po’ di perplessità, prende atto dell’arrivo sulla scena americana

Otis Redding
Otis Redding
di un gruppo di giovani bohemien bianchi alla moda, battezzati hippies. Scrive Malcolm: “i primi esseri umani, l’Uomo Originale, erano un popolo nero”, vivevano in Egitto e con la loro cultura raffinata e sofisticata avevano creato imperi che coprivano tutta l’Africa, mentre i bianchi vivevano, selvaggi e seminudi, in un’Europa rimasta al livello delle caverne. Però uno scienziato con volontà di onnipotenza, Yacub, usa l’ingegneria genetica e crea una “diabolica razza scolorita”. Anche grazie a loro, i bianchi selvaggi invadono il mondo e portano ovunque violenza e schiavitù. Come in ogni feuilleton, c’è almeno l’annuncio di un lieto fine: una leggenda dice che il loro dominio—nonostante oppressive tecniche di “lavaggio del cervello”, sarebbe durato seimila anni, che ora stanno giungendo al termine. Dove Kennedy vuole unire, Malcolm vuole distinguere: bianchi e neri, ci dice giustamente, occupano posizioni ben diverse nell’ambito del sogno nazionale. Eppure, in un paradosso (forse) sorprendente, entrambi hanno in comune una fiducia nel presente e nell’immaginazione scientifica: come stavano anche cantando Otis Redding e Bob Dylan, un cambiamento è alle porte, e sarà per il meglio.

Potremmo ipotizzare che nella tensione fra queste due visioni si muove tutta la cultura di quegli anni, compresa la “controcultura” che li rende unici, e che altrove ho provato a raccontare in un libro. Culture e controculture sono delimitate dal grande trauma che abbraccia il decennio, la guerra in Vietnam, intorno a cui si mobilita tutta la popolazione, nelle università ma non solo. Nel frattempo, altri traumi e altre mobilitazioni prendono forma. Da un lato, i momenti scioccanti di una serie di assassini che saranno materiale per tanti

Philip K. Dick
Philip K. Dick
autori di ogni genere: John e Robert Kennedy, Martin Luther King, Malcolm X su tutti. Dall’altro, i movimenti giovanili, e quelli per i diritti civili e politici degli afroamericani, e poi (con forza sempre maggiore) delle donne e dei gay.

Nell’immaginario, il centro ideale viene assunto proprio dagli hippies, che nel rapporto con la scienza e la tecnologia oscillano fra odio e amore, fra apocalittici e integrati per riprendere la distinzione (sempre valida) di Umberto Eco. Dietro di tutto, c’è uno scetticismo verso la società di massa che aveva in passato prodotto quelle opere di sociologia popolare che avevano giù influenzato tanta social science fiction nel decennio precedente, come I persuasori occulti di Vance Packard e La folla solitaria di David Riesman, e a loro volta influenzate dalla tradizione distopica di Orwell e Huxley – uno scetticismo condiviso anche da libri di un marxista altamente eretico come Herbert Marcuse (L’uomo a una dimensione), come dalla nascente nuova psichiatria di Erving Goffman o degli inglesi Laing e Cooper. Sempre più, l’America presente viene raffigurata come una distopia spersonalizzante, dittatoriale e oppressiva: l’“Impero”, lo chiameranno fra gli altri Philip K. Dick e i Jefferson Starship. L’alienazione, che distingue la modernità tecnologica dalla dimensione naturale, sta diventando quasi un tratto biologico. Pensiamo al beffardo inizio di God Bless You, Mr. Rosewater (1970) di Kurt Vonnegut:

 

Uno dei personaggi principali di questo racconto, che parla di persone, è una certa quantità di denaro, proprio come uno dei personaggi principali di un racconto che parlasse di api sarebbe una certa quantità di miele.