racconto di

Alberto Cola

Violet blu

Alberto Cola, racconto dopo racconto, si sta imponendo come uno degli autori più interessanti della "nuova generazione". Il suo racconto "Mekong", vincitore di un'edizione del premio Alien e poi apparso nel Millemondi "Strani Giorni" che io stesso ho curato per la Mondadori, è risultato tra i più apprezzati dai lettori che hanno potuto votare attraverso Delos la loro preferenza per le opere apparse nell'antologia, un successo di grande rilievo se si considera la nutrita partecipazione di autori professionisti e conosciuti con cui Alberto ha dovuto confrontarsi. Ma la sua voglia di continuare a esprimersi ad alti livelli non si è fermata con "Mekong", e questo racconto che pubblichiamo, anch'esso finalista al premio Alien (ultima edizione), ci da la conferma che abbiamo a che fare con un autore di talento, in grado di esprimersi su ottimi livelli e toccando con disinvoltura diversi generi narrativi all'interno del fantastico. (Franco Forte)

Anche questa sera non sono più qui. Puro involucro di pelle e ossa, quasi gli organi fossero un lusso.

I clienti mi scrutano, scandagliano il mio angolo alla ricerca d'un briciolo di luce. Forse m'invidiano pure.

Chissà se loro sono coscienti d'essere altrove.

Più in là, oltre le vetrine appannate, l'alone arancione delle luci del parcheggio forma un'aureola opaca. Oltre essa è buio pesto.

Appoggiata a un traliccio c'è una ragazza, sembra aggrappata a una boa circondata da un'ombra di declino. Una macchina si ferma, vapori di scarico aleggiano nell'aria, il mezzo riparte, la ragazza non c'è più.

Il bar è ancora scarsamente affollato. Cork da dietro il bancone controlla distratto la sala, con aria indaffarata, da professionista. Mi accarezza appena con gli occhi e chissà come riesce a trovare la forza per fare un sorriso; il sorriso d'un uomo che ascolta una barzelletta mentre va alla forca. Ogni sera è così.

Non si è mai fatto toccare volontariamente da me. Lo capisco.

- Credo sia ora di accendere l'insegna Cork.

La mia voce si agita tra i tavoli, piatta e sottotono. Squarci del neon verde mare sulla strada, simili a spari nel buio. Leggo il disappunto sul suo volto, non vuole che faccia questi giochetti, li odia.

- Scusa, è che mi sto annoiando.

- Piantala D. - Il suo tono arrabbiato è fasullo.

In realtà siamo amici, anche se lui non vuole che si sappia troppo in giro. Un tempo mi ha salvato, a modo suo.

La porta geme sui cardini morsi dalla ruggine. Già prima di voltarmi so che lei è qui per me. Giubbotto stretto, alta, statuaria, tenui riflessi grigi negli occhi, l'aria d'una bambina che s'è persa. C'è qualcosa di disperato nel suo modo di fare, anche se cerca di fingere il contrario. Non è molto brava nel tentativo.

Cork mi indica con un gesto appena accennato della testa; lei si volta e dopo un attimo d'esitazione prende ad avanzare tra i tavoli. Quando arriva nel mio angolo isolato, nascosto in una penombra invidiabile, sembra abbia percorso chilometri.

- Sei D?

Il suo modo di parlare mi rammenta da quanto tempo non tocco una donna.

- Sì, sono io.

- Cerco una persona. - Lo dice tremando, gli occhi spalancati. Poi s'accascia sulla sedia. Un gesto quasi definitivo. - Il tuo potere può aiutarmi?

Non sopporto più la necessità forzata che si sposa con il terrore che incuto. Una volta mi esaltava suscitare questo fiume di paure magmatiche, oggi provo solo nausea, tanta quanta ne prova lei al cospetto del mio viso deforme.

- Il mio potere può tutto, tranne che riportarmi indietro. Cioè l'unica cosa che veramente m'interessi.

Tolgo il guanto dalla mano destra e lascio che i suoi occhi si perdano per alcuni istanti mentre osservano lo spettacolo. Non smetterò mai di meravigliarmi per come questo semplice gesto riesca ad annullare le idee altrui.

- Devi toccarmi, anche solo per un attimo. Non ti piacerà, ma questo è il prezzo da pagare.

L'ammiro mentre si fa coraggio e allunga le dita; ancora una volta lo sguardo tremante la tradisce.

Il suo tocco mi fa venir voglia di neve.

...All'inizio è solo un blocco di pulsioni emozionali ingarbugliate e fangose, ogni volta il preludio di un viaggio alla fonte di una pace che non esiste. Un'intrusione di viola, qualche tocco di blu, poi resta solo il colore di una volontà, forse di una violenza.... All'inizio è solo un blocco di pulsioni emozionali ingarbugliate e fangose, ogni volta il preludio di un viaggio alla fonte di una pace che non esiste. Un'intrusione di viola, qualche tocco di blu, poi resta solo il colore di una volontà, forse di una violenza.

La sua mente si scioglie, il suo destino è mio, senza segreti.

Fuori, ha iniziato a nevicare.

Ryp era stanco. Quarra non faceva che ripetere come da un po' di tempo "l'immersione" la facesse star male. Io non avevo pensieri. Ero oltre simili banalità.

Potevamo considerarci a pieno titolo degli artisti, una sorta di pittori, e Flexus la nostra tela. Lì ero imprendibile, il migliore, primo passo verso l'immortalità.

Adoravamo lasciare impronte su nuvole inconsistenti.

- Non c'è più spazio per il dubbio, è troppo rischioso ormai. - Ryp riusciva sempre a sembrare assolutamente sicuro di sé, nonostante le mani che tremavano e lo sguardo malinconico dei reietti. - Questo è l'ultimo graffito. Ma dovrà essere grandioso.

- Sì, grandioso - echeggiò Qarra, gli occhi che non si mossero d'un millimetro dal sottile filo di fumo della sua sigaretta. Era fatta di morfina, le vene sul collo sembravano traslucide.

Mi dava la nausea guardare i loro volti segnati dalla paura, le smorfie di scusa, la voglia che avevano di tornare a vivere in sordina, quasi temessero di fare troppo rumore nella vita reale. A me una cosa simile non sarebbe mai accaduta.

Tutti ammiravano i colori di Damski.

- Sta bene - dissi con un ringhio. - Ma voglio tre obiettivi distinti, ognuno si sceglierà il suo e useremo i nuovi policromi a codice variabile.

I loro "sì" suonarono piatti, due cicatrici indelebili nel silenzio della cantina di Cork.

Catrame umido. Ogni immersione nella bolla di stasi è così; il circuito sussurra in sottofondo, il liquido connettivo ti accarezza, sensazioni che perdono sapore, aroma metallico, fragranze d'insolita densità. I miei occhi si sigillarono su Cork mentre attivava il contatto, una visione che mi dava sempre fiducia.

Morire in un mondo, per rinascere altrove. La realtà cessò di esistere con un rantolo opaco. Flexus si schiuse ai suoi viaggiatori.

L'immagine aliena di Qarra mi sorrise poco prima di deviare. Ryp era un insieme di vibrazioni liquefatte, privo di sostanza. Mi staccai da loro con disinteresse. Ormai erano soltanto dei riflessi all'orizzonte della mia coscienza.

Iniziai a fluttuare.

Cancelli, buchi neri, giardini, mura trasparenti, colori, sciami di luce mi attraversavano iniettando massicce dosi di piacere. Il mio ingresso era illegale, la direttrice mi portava a incrociare gli scarti altrui, ma ero abituato.

Ventri obesi, cristalli lacerati, menti implose, realtà masticate.

Poi giunsi allo Snodo.

VIRTUAL FLEXUS

Rete Virtuale Planetaria.

Attenzione, siete in un percorso non autorizzato.

Non avevo bisogno d'interagire con il sistema, il computer era predisposto per consentirmi un accesso facile e immediato a qualsiasi Ambiente riprodotto o negli universi neutri dove era possibile trasferire i propri Ambienti.

Penetrai, non avevo bisogno di autorizzazioni.

Nella scelta avevo pensato all'importanza dell'obiettivo come seconda variabile, quella principale era il numero di contatti giornalieri che riceveva. Era inutile lasciare graffiti dove poche persone potevano vederli. Tutti dovevano sapere che ero stato lì, e ammirare i miei colori.

Fu un attimo arrivare. Gli snodi di controllo s'inseguivano alle mie spalle, senza possibilità di rilevamento, nessun filtro al mio segnale. Poi il portale di noce finemente lavorato mi apparve in tutto il suo splendore cromatico, colonne sfumate, una lunga fila di contatti in paziente attesa. Tutto quasi vero.

Entrai sul palcoscenico intangibile del Vaticano.

Eccentrico. Ogni bit trasudava devozione. Un caos di ondula-zioni bianche come preghiere, bagliori di sentieri, guide per le anime in pena. Riverberi di canti, da qualche parte.

Mi misi al lavoro. Fu uno scherzo profanare quella sorgente esibita di finta tranquillità; i miei colori stillavano come lucciole, incrociando quella realtà, modificandola con blasfeme tonalità viola e sfumature blu. I nuovi policromi si adattavano, ogni tentativo di cancellarli era inutile. Osservai soddisfatto il programma di ripristino estetico faticare come un somaro nel tentativo di assemblare le informazioni corrispondenti ai colori, con i codici che reagivano, cambiando frequenza e costringen-dolo a ricominciare daccapo, alla ricerca di un'altra strada. Il balletto sarebbe durato a lungo mentre i graffiti proliferavano generando interferenze, minando la coesione della struttura, creando un'opera d'arte.

Le mie creazioni sarebbero rimaste lì per molto. Beati fedeli.

Scesi in profondità, inappagato. Lasciai lamine inopportune di arcobaleni su altari marmorei, per i corridoi riservati, in cripte nascoste e nelle cappelle sacre. Interruppi una conferenza sui sacrilegi, regalando a ogni costrutto presente una pennellata di viola, un riflesso di blu, da portare a casa, memorabili.

I miei colori, il marchio di Damski.

Timidi tentativi di fermarmi, pallidi echi di preghiere lontane.

Ancora più giù.

La resistenza crebbe.

Il programma di dissuasione mi assalì, la cattiveria d'un antico gesuita. Agiva inserendo nel mio contatto una miriade di finzioni allettanti, e di simulazioni agguerrite.

La mia connessione vacillò. I cacciatori del programma erano una miriade di roditori intenti a sgretolare il collegamento; non avevo voglia di un confronto, ma se li avessi lasciati fare sarei rimasto bloccato lì, a consumarmi tra indulgenze e redenzioni.

Feci l'unica cosa possibile. Focalizzai su un'area nero-argento corrispondente al nucleo del programma. Troppo veloce per loro.

Centro.

Niente più che uno strappo, e la mia mente ci cadde dentro a corpo libero, volteggiando su se stessa. I cacciatori non avevano scelta, seguirono le mie tracce danneggiando lo scenario, entrando anch'essi nel nucleo. Il collasso del programma fu come l'eruzione di un'alba senza luce.

Non so come accadde, forse l'implosione generò una sacca di rigetto che mi travolse, gettandomi all'interno dei loro sistemi di sicurezza, pura informazione fagocitata dal flusso e allo stesso tempo tutt'una con esso.

Deviai. Deviai. Deviai...

L'avevo vista una volta sola, nello spettacolo tridi d'un predicatore. Sotto i riflettori, allora, la Sindone non m'era parsa un granché, muta promessa di miracoli avvolta dal baluginìo dorato dello scanner di controllo che, a ogni istante, la rendeva fortezza impenetrabile, analizzandone allo stesso tempo lo stato di protezione da agenti esterni sotto infinite variabili, e intervenendo, se necessario. Moderno istinto di conservazione.

Quando la protezione mi assorbì inserendomi nel sistema dello scanner, tornai nella realtà sublimando in quella sintesi dorata, scaraventato attraverso l'oggetto sacro. Per una scaglia di tempo fui assimilato dalla Sindone, assorbendone l'essenza, fonden-domi con essa.

...Il sapere prosciugò ogni energia, saturando vuoti e integrando mancanze, aprendosi la strada nel mio cervello come un fulmine che lascia dietro di sé un solco luminoso, strisciandomi addosso, bruciando ogni cellula, esigendo un pegno sconosciuto. ... Una luce antica, accecante vi era riposta. Le mie idee si rifransero come onde d'inizio marea. Il sapere prosciugò ogni energia, saturando vuoti e integrando mancanze, aprendosi la strada nel mio cervello come un fulmine che lascia dietro di sé un solco luminoso, strisciandomi addosso, bruciando ogni cellula, esigendo un pegno sconosciuto.

Restò solo il riflesso sfuocato di una conoscenza al di là della comprensione, in un angolo schiuso della mia anima ammutolita.

Un frammento nella mia mano. Forse piansi.

Il tocco mi spinse via con delicatezza. Risalii i canali del Flexus, indifferente a ogni tentazione. Cerchio su cerchio, uno sbattere d'ali. La luce era fredda.

Punto zero.

Aprii gli occhi su Cork. Le sue braccia mi sorreggevano con forza mentre cercava di tirarmi fuori dalla bolla di stasi, il mio corpo che gemeva liquido connettivo, quasi stesse piangendo.

- Damski, ma che diavolo... - La sua voce si spezzò in un rantolo bilioso.

Credo fu in quell'istante che lo toccai, osservando stupito la mia mano diventata trasparente, simile a vetro opaco. Assaporai la sua mente che s'irrigidiva, fragile sotto il filo tagliente dei miei pensieri. Mi sfamai del suo passato e galleggiai incuriosito sulla superficie del suo destino, così pieno di nere visioni; fino all'attimo in cui ne vidi la morte, facendo mia la sua sofferenza.

- O Cristo, Damski... Cristo, smettila...

Avvertii il sostegno mancare, mentre Cork si voltava cadendo carponi, iniziando a vomitare e a urlare allo stesso tempo, con brandelli bruciati della mia pelle ancora attaccati alle mani e alla camicia.

Il lezzo del suo terrore si serrò su di me, come una trappola d'acciaio.

Pensieri. Scuri, coagulati, roventi.

Lei. Una scossa, un battito del cuore all'ennesima potenza.

Riapre gli occhi. Sono pieni di nebbia mentre cerca di mettermi a fuoco e recuperare i sensi impazziti.

- Non preoccuparti, passa in un attimo - le dico.

Si guarda in giro, come se non capisse l'origine del luogo in cui si trova. C'è qualcosa di familiare in tutto quel che vede, ma l'unica cosa reale sono io.

Penso il suo nome. Si volta verso di me.

- Dopo, è come se ogni cosa fosse rivestita d'una luce diversa, ma è un effetto che svanisce. E' un po' come vedere lo splendore del buio vero? Ed è terribile. Io ci vivo dentro.

La mia voce deve sembrarle strana, con sfumature che non ha mai ascoltato.

- La gente... - Parole masticate. Le escono dalla gola a fatica, quasi impossibili da attingere. - Non può essere così. Sembrano...

Il mio sorriso, così simile a una smorfia di dolore, le strappa un'espressione imbarazzata. Quante volte ho visto quello sguardo, quegli occhi sgranati, udito le grida di quelle anime che lentamente si trasformano in cenere?

Lascio i miei pensieri andare alla deriva. Tra la gente.

Odore di desideri stantii. Sudore. Ricerca.

- Non c'è redenzione quando si vive nel ricordo. - Mi rimetto il guanto. La mano scotta, è sempre così dopo essermi fatto toccare da qualcuno, preso il suo destino, conosciuto ogni pensiero e avergli donato stralci di visioni. - La sofferenza ingigantisce, finché diventa uno spettro impossibile da scacciare. E' in quel momento che accade, la realtà non è più ciò che sembra.

Il suo silenzio è l'unica risposta che ricevo. La paura che trasmette mi si addensa intorno, visibile, una foschia viola attraversata da venature blu, i soli colori che ormai sono in grado di distinguere dopo un contatto, come delle stimmate cromatiche.

Aspetta una risposta per la domanda che non ha bisogno di fare.

- Il tuo uomo non esiste più - dico, il tono distaccato.

Si alza, barcolla un po' ma riesce a reggersi. - Ho lasciato i soldi al barista, tutto quello che avevo.

- Basterà.

Se ne va camminando lentamente, lo sguardo fisso su una luce che solo lei può vedere, mentre la porta del bar le si chiude alle spalle proiettandola confusa all'esterno.

Viene all'improvviso, una sensazione di calore malsano e soffocante. Il brusio della gente si trasforma in un vento rabbioso. Un'atmosfera dal sapore preconfezionato, indistinto, uno stereo senza volume fasciato di nervi cresciuti sopra un'invisibile tuta protettiva fatta d'amianto e disperazione.

Ho voglia di vomitare davanti a tanta forza negativa, a quella cattiveria insopprimibile, e così naturale. Vorrei tornare a essere uomo e non ombra. Sono stanco di angoli bui.

Cork mi fissa incuriosito mentre corro scompostamente verso l'uscita. Le luci della città brillano, illuminando la superficie inferiore delle nubi più basse. L'aria è pesante.

La raggiungo alla fine della strada. Il suo volto è rigato dalle lacrime; un sorriso forzato, triste le distorce i lineamenti.

- Lui era il migliore. - Si stringe addosso il giubbotto, rabbrividendo. - Il migliore... - ripete con orgoglio.

La sua voce assomiglia a un eco lontano, irrimediabilmente perso. Poi, sorprendendomi, affonda tra le mie braccia, senza peso. Non ha paura mentre è scossa dai singhiozzi. Stringerla è come stare sulla riva di un mare agitato, con le ondate che erodono sempre più la sabbia.

Quell'abbraccio così vero, dopo tanto tempo.

- Lascia che ti racconti - le sussurro all'orecchio. - Lascia che ti racconti, di quando lui ha visto il colore di Dio...

I lampioni che allungano il collo di ferro sulla carreggiata vuota si spengono nel silenzio, uno alla volta. L'aria è risucchiata via nella notte finalmente calma.

Solo ora mi accorgo che ha smesso di nevicare.

Come ti è sembrato questo racconto? Non l'ho letto Mediocre Discreto Buono Ottimo Eccellente Se avete racconti che ritenete adatti per Delos, inviateli alla Redazione Narrativa di Delos, delos.script@fantascienza.com: saranno letti e accuratamente valutati dall'esperto editor Franco Forte.