Ricordo solo i topi.

Quelli grassi, che ho visto inseguire i cani quando ancora in giro se ne vedeva qualcuno. Avevano nidificato nelle pareti, sotto i pavimenti, nelle tubazioni inutili, nella nostra testa persino. Facevano compagnia, tutto sommato.

Poi sono arrivati i reattori mobili e di notte sembrava giorno. Hanno subito bombardato, giù a est, per precauzione. Dicevano che le montagne ci avrebbero protetto. Cazzate. Adesso vediamo solo un po' di luminosità, di giorno come di notte, con l'aria che sembra un sudario verde, però di più quando c'è la luna. Oltre le rovine dei musei, delle scuole, delle moschee o chiese che sono chi lo capisce più, c'è ancora una zona civile dietro a un muro che hanno tirato su in un paio di giorni. Lo so perché si sente il rombo dei camion carichi di scorte e i colpi di quelli che li attaccano. Le provviste rimaste spettano solo ai disintossicati, come li chiamiamo noi. Niente quarantena laggiù, solo finta normalità.

I topi sono scomparsi dicevo, col tempo e grazie alla luce verde che però mi sa solo luce non è. Un peccato, erano una dieta forzata ma sana. Ci hanno tolto anche quella.

Tocca a me consegnare la posta adesso visto che il postino se ne è andato con i topi. E' il compito di ogni buon custode mantere un minimo di rapporti sociali, e nel palazzo siamo rimasti solo in quattro ma meglio che niente. Il giro lo inizio alla sera, prima che faccia completamente buio, così gli altri possono passare la notte a leggere e pensare, o a versare qualche lacrima, se ne hanno; tanto di dormire non se ne parla.

Quello che ho davanti è l'unico specchio che ho trovato setacciando gli appartamenti vuoti; amalgama un'immagine a strappi, tanti quanti sono i pezzi che ho messo insieme. Poteva andar peggio. Stiro le labbra in quello che sembra un solco poco convincente, ma il sorriso è a posto e i denti sono perfetti, trasparenti come non mai; c'è solo qualche piccolo cedimento qua e là. Dovrò farli vedere a Doc prima o poi, lui saprà cosa fare.

Ho addosso una vecchia divisa; un tocco d'ufficialità. Il berretto è un po' largo ma pazienza, avessi i capelli di un tempo sarebbe un'altra cosa. Non prendo la borsa, tanto ho solo due lettere. Ultimamente li vedo abbattuti, per un motivo o per un altro; è importante far capire loro che là fuori c'è qualcosa, qualcuno, ancora.

Continuiamo a sembrare persone, quasi.

L'occhio nero di Rommel, quello buono, m'infilza dallo spioncino. Devo sempre abbassarmi per mostrare la faccia, altrimenti sarebbe capace di sparare.

- Ah, sei tu.

Un tempo voleva che infilassi la posta in un'apposita fessura, poi ha imparato a fidarsi. La solita sinfonia di catenacci che cigolano, la porta che scricchiola sotto l'assalto delle serrature arrugginite, ogni scatto un lamento.

- Sbrigati a entrare, da qualche giorno metà corridoio è al buio, non si sa mai. Pensano di impressionarmi tagliando la corrente. Dilettanti.

- Ma no, è solo che non trovo più le lampade adatte. Cominciano a saltare - minimizzo facendo un passo in avanti.

- Lascia che pensi io alla sicurezza del palazzo. Conosco le loro tattiche.

Rommel in fondo è un brav'uomo. Le pareti del suo appartamento sono zeppe di foto sbiadite e medaglie, ha un armadio che rigurgita divise e un baule blindato pieno di armi che non funzionano. Non conosco il suo nome e lui non lo ricorda, ma gli piacque Rommel quando iniziai a chiamarlo così. Trovai una certa attinenza guardando la carrozzina con cui girava per casa, le ruote prive di copertoni e il ferro dei cerchioni che incideva bestemmie sul pavimento sabbioso. Dice che a volte sente pulsare le gambe, e non lo contraddico. Quasi sempre poi si mette a lucidare i moncherini cromati che gli ha costruito Doc, borbottando tra sé e sé cose incomprensibili.