Il pianeta rosso dell'età dell'oro

Stanley G. Weinbaum
Stanley G. Weinbaum
La storia di invasione di Wells e il romanticismo di Burroughs, insieme, rappresentano il default del Marte fantascientifico, con cui tutti i loro successori dovranno fare i conti.

All'inizio della cosiddetta Età dell'Oro della SF, la prima operazione è quella di rendere dominante l'immagine del deserto: niente aree lussureggianti, solo qualche deposito di acqua, atmosfera gelida e sottile come nell'alta montagna, forme di vita minime, adatte a condizioni pressochè estreme.

Marte sta cambiando forma nell'immaginario americano, dunque. Per prima cosa, arrivano i Marziani come personaggi, come individui. E le prime storie dell'Età dell'Oro sono storie di comunicazione, non di guerra. Nel 1934 Raymond Z. Gallun pubblica Old Faithful, (Vecchio fedele), a cui aggiungerà gli inferiori seguiti The Son of Old Faithful (1935) e Child of the Stars (1936). Forse con in mente un vecchio racconto di Wells, The Star (La stella), per Gallun il rapporto con l'alieno è ora un tentativo di instaurare un dialogo, non una battaglia con un nemico ineluttabile: attraverso lo spazio, la conversazione fra i due scienziati sui rispettivi pianeti permette al marziano di trovare asilo presso il suo amico terrestre. C'è molto di ingenuo, e anche un poco di western (in fondo, N. 774 fugge dallo spietato mondo in cui gli è stato ordinato di suicidarsi, saltando "in groppa" a una cometa di passaggio) in questa storia, insieme all'affermazione di una speranza sostenuta dalla fiducia nell'universalità della ricerca scientifica.

Di impatto ancora maggiore è il racconto di Stanley Weinbaum, A Martian Odyssey (Un'odissea marziana, 1934). In Weinbaum, è importante il realismo, dal viaggio della nave atomica Ares col suo equipaggio internazionale di "pionieri", alla descrizione del pianeta: un ecosistema coerente, arido, gelido e desolato, di cui l'equipaggio cerca di scoprire i meccanismi, popolato di creature ai limiti dell'indescrivibile (riuscire a descriverli con proprietà, suggerisce Weinbaum, significherebbe avvicinarsi a una comprensione), e soprattutto con un suo affascinante rappresentante, simile a uno struzzo, dal nome impronunciabile che i terrestri ribattezzano con approssimazione 'Tweel'. Rimane celebre il ritratto del primo avvistamento di Tweel; attraverso i paralleli impossibili con fisionomie note, forse per primo Weinbaum riesce a trasmettere il senso dell'incontro con una diversità quasi incommensurabile:

Il marziano non era proprio un uccello. Non gli somigliava neppure, tranne a una primissima occhiata. Certo, aveva un becco, e qualche appendice piumata, ma il becco non era proprio un becco. Era un po' flessibile; si vedeva la punta che si piegava lentamente da un lato all'altro; era quasi come un incrocio fra un becco e una proboscide. Aveva piedi e cose - mani, dovremmo chiamarle - con quattro dita, e un corpo piccolo e più o meno rotondo, e un collo lungo con una testa piccola - e quel becco.

Il gap della comunicazione interplanetaria viene, gradualmente, ridotto (ancora, attraverso la mediazione di un sapere scientifico comune nell'universo), e lo scambio si rivela fruttuoso per entrambi.

Se Gallun e Weinbaum mantengono un atteggiamento fiducioso nei confronti della possibilità di una espansione dominata dalla ragione, ben presto arrivano le versioni disincantate della mitologia della Frontiera. Presto, ben presto, ci si rende conto che si sta parlando di un'America che per molti si sta allontanando dal "sogno" che sosteneva quella fiducia.