Sono molti i videogiochi che hanno caratterizzato la fase di immediata espansione del settore. Quella fase, spesso denominata Età dell’Oro, in cui soprattutto gli arcade spopolavano nei bar e nelle sale giochi, e iniziavano a fare irruzione sui televisori domestici, proponendosi come forma alternativa di intrattenimento per i più giovani, ma non solo.

Fra questi giochi, Space Invaders occupa sicuramente un posto di rilievo assoluto, per la sua capacità di attraversare i decenni e influenzare la cultura non solo videoludica, tanto da essere stato definito l’emblema dei videogiochi.

Il concept del gioco nacque e venne sviluppato nel lontano Giappone alla fine del 1978 dalla Taito Corporation, azienda che fino agli anni sessanta si era specializzata nella produzione di juke box, ma che intuendo le potenzialità dei giochi da bar si buttò successivamente sui flipper e, negli anni settanta, approdò definitivamente nel settore dei coin-op arcade. Responsabile dello sviluppo fu Toshihiro Nishikado, giovane ingegnere che si era fatto le ossa sui giochi elettromeccanici, tra i quali Space Monsters, considerato l’antesignano degli arcade. Space Invaders fu la prima realizzazione di Nishikado nel campo degli arcade interamente digitali e, con la fortuna del principiante, fece subito il botto.

La dinamica del gioco, che oggi si definisce gameplay, è semplice ma al tempo stesso di devastante presa sui giocatori. Ci troviamo al comando di un cannone che possiamo muovere orizzontalmente dietro un baluardo composto da quattro muri. Orde di mostri alieni procedono ordinatamente verso di noi, con l’intenzione di farci a pezzi. Il nostro compito consiste nel distruggerli tutti, facendo attenzione a non farci colpire e dando un occhio alla grande astronave che ogni tanto passa nella parte alta dello schermo, abbattendo la quale si ottiene un bonus di punti. Sterminati tutti gli alieni, si passa al livello successivo, un po’ più difficile del precedente. Tutto qui.

La grafica era a dir poco spartana (Nishikado non riuscì a inserire nel gioco tutto ciò che voleva, data la risibile potenza dei processori di allora), i suoni rudimentali. Ma l’immediatezza del gioco, l’ambientazione fantascientifica per la quale il programmatore si era ispirato a La guerra dei mondi di Herbert George Wells, l’adrenalina che procurava il vedersi arrivare addosso sempre più velocemente intere file di extraterrestri, rese Space Invaders la macchina letteralmente più gettonata delle sale giochi, prima di arrivare nelle case sulla neonata console ATARI. Space Invaders fu la prima killer application della storia videoludica, dato che molti comprarono la console soltanto per poterci giocare.

Il successo commerciale rimase per molto tempo ineguagliato: 500 milioni di dollari di fatturato solo negli USA, miliardi in tutto il mondo e, addirittura, una carenza di monetine in Giappone che costrinse il governo a quadruplicarne la produzione. Innumerevoli furono i cloni prodotti da parecchie aziende dietro licenza, alcuni anche dalla stessa Taito. L’influenza sulle giovani generazioni di allora fu fonte di discordie familiari e di preoccupati allarmi di sociologi e psicologi sui possibili danni derivanti dal tempo passato davanti a un monitor, discussione viva tuttora. Su molti ragazzi ebbe un tale impatto da spingerli a diventare essi stessi programmatori, e alcuni di loro oggi sono game designer di grande successo.