Delos 25: Racconto racconto di

Lanfranco Fabriani

frammento di una vita

vissuta nell'ora del lupo

Ricordo bene questo racconto. Lanfranco me lo mandò qualche anno fa, quando stavo curando per Stampa Alternativa l'antologia di fs italiana "Fantasia", e avevo deciso di interpellare anche lui, soprattutto per merito di un suo bellissimo racconto che era uscito sulla fanzine "The Time Machine" e che ricordavo per freschezza di stile e impeto narrativo. Lanfranco aderì con entusiasmo alla mia richiesta e mi fece pervenire questo racconto, il cui titolo mi restò impresso. Per "Fantasia" decisi di non accettarlo, non perché non fosse un buon racconto, anzi (altrimenti non avrei deciso di presentarlo ai lettori di Delos, adesso) ma semplicemente perché nella mia personale graduatoria delle preferenze del materiale che stavo selezionando non era tra i primi venti, che poi effettivamente uscirono sull'antologia. Più che altro, spiegai allora a Lanfranco, per il modo scontato in cui termina il racconto. Questa critica è valida tutt'ora, seppure, dopo averlo riletto, in modo meno determinante. Devo confessare che mi era rimasto un leggero rimpianto per questo racconto, e oggi sono felice di poterlo pubblicare, seppure in un contenitore assai diverso com'è Delos.

-- Franco Forte

Non avrei mai immaginato che un uomo potesse essere contagioso, non nel senso di una malattia, badate bene, ma della sua stessa personalità. Se qualcuno mi avesse raccontato di essere stato contagiato da un uomo, ne avrei riso, oppure, se avessi avuto il sentore di non essere di fronte a uno scherzo, ne avrei ordinato il ricovero in manicomio. Come si può essere stupidi...
Maledetto! E' questo il termine che meglio descrive la situazione; come lamento per la mia condizione di dannato, di paria, e come imprecazione nei confronti dell'uomo che mi ha spezzato l'esistenza ponendomi grottescamente a cavallo di due vite, tra una in cui avevo qualcosa in cui credere, o quanto meno in cui avevo pianificato ogni mio gesto, e una di cui ancora non ho assorbito gli ideali e di cui forse non riuscirò mai ad assorbirli.
L'incompiutezza del mutamento è ancora più tragica del mutamento stesso.
Ciò della cui giustezza ieri ero convinto, oggi non mi causa che incertezza e indifferenza, per non dire disprezzo, ma ancora non ho nulla di nuovo con cui sostituirlo. Ancora non esiste una mappa che delimiti il territorio, un pezzo di carta su cui vi sia scritto cosa è giusto e cosa è sbagliato, e a volte ho il sospetto che forse, se mai questo nuovo codice esisterà, su di esso vi saranno solo poche righe. Una mappa bianca con rade linee tratteggiate vagamente per indicare delle ipotetiche piste carovaniere. Troppo lungo e lento è il processo di ripulitura dalle scorie di una passata esistenza. E questa nuova ha tutta l'aria di un'esistenza priva di punti fermi.
Ciò è tanto vero che ancora oggi non riesco a dare un giudizio definitivo sugli eventi che portarono al mio tracollo e sulla figura di quel Virgilio, a lui questa immagine sarebbe piaciuta, che mi accompagnò all'Inferno per abbandonarmici senza indicazioni su come uscirne.
Ma credo sia indubbio che se dentro non fossi stato pieno esclusivamente di parole ventose, la personalità e le idee di quel pazzo bastardo non avrebbero potuto infettarmi, quanto meno non con la forza disgregante di un cancro impazzito che ebbero.
Ricordo fin troppo bene quella mattina: mi ero svegliato molto presto, ancora di notte, di cattivo umore. Oggi potrei ironicamente parlare di un sentimento della catastrofe, ma sarebbe solo un'ironia disperata. Una smorfia grottesca come una maschera di carnevale messa per coprire un dolore sordo.
Senza riuscire ad addormentarmi nuovamente avevo passato lunghe ore alla finestra, guardando la pioggia inquinata sverniciare i filobus parcheggiati nel viale, mentre il pallore di un'alba verdastra si estendeva fagocitando la MegaRoma da quindici milioni di abitanti, illuminandola sempre più cupamente con la sfumatura di marcio che meritava.
Quella mattina riuscii a litigare persino prima di colazione con Marta, all'epoca ancora la mia ambiziosa moglie, che viveva tutta protesa nello spingermi alla carriera. Quindi, quando smise di piovere e suonarono le sirene del cessato allarme, fui contento di telefonare per l'auto di servizio. Felice di non essere costretto a rimanere tutta la mattina in casa a sopportare le acrimoniose lezioni della mia spinosa metà su come diventare comandante del Corpo, per non parlare delle sue recriminazioni su tutte le speranze che aveva riposte in una mia carriera più rapida. Certo, volevo fare carriera: diventare comandante del corpo dei Vigili Urbani o quanto meno occupare una poltrona lì vicino era la mia meta, e le premesse c'erano tutte: famiglia, amicizie influenti, il carrozzone politico giusto, ma non ero disposto ad accettare lezioni da nessuno sul come farlo.
Maledetta sfiga! Fosse durato l'allarme inquinamento, se l'indicatore appeso fuori della finestra sigillata avesse segnato una punta significativa, avrei passato la mattinata in casa, avrei sopportato a fatica la mia deliziosa mogliettina, forse l'avrei uccisa ma non sarei andato incontro al mio destino e forse oggi sarei veramente il comandante del Corpo, o quanto meno sarei a un passo dall'arrivarci. Se si è ben ammanicati si può ammazzare la propria moglie e arrivare ugualmente al comando, ma non si arriva neanche vicini a esso quando si ha perso ogni interesse a farlo.
Percorremmo viali affollati di gente che andava al lavoro. Alcuni sguardi invidiosi seguirono la mia auto di servizio a batteria, a tenuta stagna anti inquinamento.
Correvano, per rimanere all'aria aperta il meno possibile. Uomini di poca fede, non si era neanche in stato di pre-allarme grigio, e quindi per tutta la mattinata non erano previsti né addensamenti di agenti inquinanti, né piogge acide, il cielo era coperto e questo rendeva trascurabili gli effetti della voragine dell'ozono.
Non vogliono capirlo che quando non si è per lo meno in stato di preallarme viola non c'è alcun pericolo. Glielo si può spiegare in tutti i toni: sorridendo e parlando pacatamente come un padre di famiglia o urlando con le vene del collo gonfie, ma non ti daranno retta, pronti a non voler correre rischi in una situazione di non pericolo, ma a lasciarci la pelle in uno stato di massima allerta in base al famoso principio del "non può toccare a me".
Tangheri. Ecco, avete visto? Ci sono ricascato e ho nuovamente espresso il mio giudizio al presente come se fosse ancora valido.
In ufficio non c'era gran che da fare, la solita routine: la preparazione dei turni delle squadre di intervento e la siglatura dei rapporti, in attesa che arrivasse il rendiconto delle vittime dell'ultimo allarme pioggia.
Si trattava del normale tran tran di tutti i giorni, la santa procedura standard, che incasellando ogni evento in una trama di riferimenti e azioni note lo svilisce e lo annulla nella sua individualità, preparandolo per una classificazione statistica con la stessa cura con cui un becchino prepara un cadavere per la bara.
Statistica, la parola magica: se dici "un incidente", devi spiegare come, dove, quando e quanti figli aveva la vittima, ma se parli di "tredici virgola ottantacinque incidenti al mese" nessuno ti chiederà il nome o il cognome.
Niente lasciava supporre che quel giorno dovesse accadere qualcosa di speciale che la procedura standard non sarebbe riuscita a inglobare nella sua densa melma vischiosa. Erano anni che non accadeva nulla di speciale e che la procedura standard regnava sovrana sulla mia vita, tenendomi in un bozzolo caldo che mi proteggeva dal dover prendere decisioni autonome. Dopotutto, le decisioni autonome sono proprio quelle che, quando sono sbagliate, fregano qualsiasi ordinata carriera costruita con pazienza e meticolosità. Ma all'epoca tutto si riduceva al computare gli intossicati durante un allarme e nell'invio delle citazioni e delle contravvenzioni per gli incoscienti trovati senza maschera antigas e/o l'impermeabile antiacido: perché magari erano usciti sì, ma dovevano arrivare solo fino all'angolo per comperare un pacchetto di sigarette (e dopo essersi procurati un cancro al polmone per conto loro, poi avevano la faccia di bronzo di lamentarsi dell'inquinamento). Come se un'improvvisa pioggia acida non prevista non possa scarnificare un uomo da qui all'angolo, o uno scarico gassoso da una fognatura non a tenuta stagna non riesca a stecchire in due metri e ventotto centimetri ottanta chili e cinque ettogrammi d'uomo.
Anni prima, quando ero un giovane ufficiale e la situazione non si era ancora consolidata, le proteste erano all'ordine del giorno, e per convincere la gente a girare con la maschera antigas quasi non bastavano le pesanti multe o gli internamenti: disobbedienza civile la chiamavano. Ma ormai... solo procedura standard: dai un ordine e nessuno obbedirà, dallo tutte le mattine e ripetilo per trecentosessantacinque giorni all'anno e a uno a uno, in mancanza di una "loro" procedura standard, si stuferanno di non obbedire. Gli uomini possono stufarsi, una Pubblica Amministrazione no.
Questi erano anni tristi, noiosi, in cui non dovevo fare altro che delle ramanzine a gruppi di ragazzini che avevano posato la sacca della maschera in terra per poter giocare a pallone. Ma tanto erano vicini... discorso dell'uomo di 80 chili.
All'epoca la mia preoccupazione maggiore era il riuscire a sopravvivere tra una moglie ambiziosa e una segretaria-amante in vena di matrimonio. Come se avessi avuto voglia di fottermi la carriera con uno scandalo e un divorzio, oppure con un divorzio scandaloso.
Comunque tutto questo non c'entra se non marginalmente nella storia. L'elemento fondamentale, il dannato catalizzatore, fu lui.
Lo vidi per la prima volta, sia pure di sfuggita, nella stanza interrogatori. Male in arnese ma al tempo stesso fiero. A una prima occhiata sembrava un vagabondo, e questa impressione veniva rafforzata da un secondo sguardo, ma al tempo stesso risaltava l'anormalità della sua pulizia: i vestiti erano in pessime condizioni, eppure si notava lo sforzo per tenerli puliti, anche a costo di consumarli maggiormente. Tra lui, seduto con la schiena dritta e il mento alto, e i due vigili che lo interrogavano scocciati pensando al tempo che stavano sottraendo ai cruciverba, non c'era da decidere chi fosse superiore all'altro. Chiesi a un graduato fuori della stanza chi fosse.
- Mah, un povero scemo, lo abbiamo incontrato subito dopo un allarme senza maschera, e stiamo cercando di appurare chi sia e da dove venga.
Andai in ufficio e feci appena in tempo a leggere alcuni rapporti, poi Liliana, la mia segretaria bionda, pettoruta e disponibile, mi annunciò al dittafono, con voce dolce e soffocantemente amorosa, che c'era un vigile che voleva vedermi.
Lo feci passare, era uno dei due che avevo visto alle prese con il vagabondo.
- Cosa c'è?
- Si tratta di uno straccione che abbiamo fermato questa mattina. Non riusciamo a farci ascoltare. Oltretutto è la terza volta che viene pescato e abbiamo scoperto che si tratta di un ex professore universitario. Che facciamo, ne ordiniamo il ricovero in istituto?
- Un professore universitario? Be', prima fatemici parlare.
E quello fu il primo sbaglio. E' facile internare un numero statistico, ma con una persona è più difficile, quanto meno senza prima averla ascoltata. Oggi mi chiedo se quell'errore non sia derivato da una mia inadeguatezza nel mio ruolo già sin da allora.
Dopo qualche minuto lo avevo davanti alla mia scrivania, i due vigili erano stati sin troppo solerti nel levarselo di torno scaricandolo a me, e stavo scorrendo il suo fascicolo. Dopo tutto, alla terza volta in cui si viene pescati a commettere un reato, un fascicolo non lo si nega a nessuno.
Cominciai a fargli le solite domande di routine, incuriosito. Non poteva essere un caso che fosse stato fermato tre volte, questo doveva essere un vero e proprio caso di disobbedienza civile.
Ma sbagliai nuovamente: ero incuriosito e feci un errore da novellino, lasciai che fosse lui a condurre la conversazione. Qualunque ufficiale, anche un deficiente appena uscito dalla scuola sa che bisogna limitarsi a porre domande precise e circoscritte pretendendo risposte altrettanto precise e circoscritte, e che bisogna assolutamente impedire al fermato di divagare o di avere l'impressione di essere lui a condurre il colloquio.
Invece sbagliai, lo lasciai fare e dopo qualche minuto ero già sulla difensiva, come se fossi io a dover giustificare me stesso, il governo, la legge e la stessa natura del mondo industrializzato.
- Lo sa? - disse dopo una mezz'ora. - C'era stato persino un momento in cui l'ecologia sembrava un tema di moda, sembrava anche che qualche piccolo problema venisse risolto, poi arrivarono i tempi di crisi e quindi non si parlò più di ecologia e ambiente e lotta all'inquinamento. La lotta all'inquinamento metteva in crisi alcuni posti di lavoro, e allora si cominciò a barattare l'ecologia con il mantenimento di uno sviluppo bacato, e chi se ne fregava del buco dell'ozono o dell'effetto serra o del tasso di anidride solforosa nelle città, quelli erano problemi adatti ai nostri nipoti. E così abbiamo cominciato ad abdicare ai nostri diritti, a un cielo pulito, alla salute, un pezzo alla volta. Ma è sempre così, anche per la libertà, un pezzo alla volta, cominciano a toglierti un diritto che sembra quasi trascurabile, tanto da non farci caso, poi un altro, poi un altro ancora e nel giro di qualche anno ci si ritrova in piena dittatura, ma a quel punto tutto sembra perfettamente regolare perché ci abituiamo facilmente e nel giro di qualche mese sembra che non abbiamo mai vissuto in una situazione diversa.
E' così facile abbindolarci, e ora... Ci guardi, sembra quasi che l'umanità sia sempre stata questa, grigia e scolorita, malaticcia. Sono quaranta anni che non vedo più un cielo azzurro, e sono convinto che lei non l'abbia mai visto. Scommetto persino che c'è qualcuno che non sa che quaranta anni fa il cielo era azzurro e che le maschere antigas erano esclusivamente apparati militari. E tutto questo in nome del progresso! Dello sviluppo mondiale! Dell'occupazione! Maledetti mentecatti!
"Sappiamo tutti leggere ma viviamo come se non fossero esistiti 2000 anni di storia e poesia. Viviamo contro la natura e moriamo, lentamente o rapidamente, uccisi dai nostri veleni. Dalle pestilenze da noi stessi create. Duemila anni di medicine per rincorrere sempre nuove malattie, molte delle quali persino generate dall'eccesso di medicine. Gli animali muoiono, noi ci uccidiamo."
Spostai le mie carte infastidito. - Lei è libero di credere in ciò che vuole, ma io ho una legge da applicare e da far applicare. E questa legge dice che lei deve avere una maschera antigas, e che dovrà indossarla tutte le volte che ci sarà un allarme o che il nastrino cucito sulla giacca o le strisce verdi dipinte sui muri delle case diverranno gialle.
Quasi a dimostrazione di ciò, le sirene esterne iniziarono a ululare, ma compresi subito che non si trattava di tutte quelle di MegaRoma, il chiasso sarebbe stato assordante. Doveva essere un allarme locale, forse a livello di quartiere.
Andai alla finestra. In strada i cittadini avevano già indossato le maschere e stavano riprendendo le loro attività.
Mi rigirai a fronteggiare il provocatore, ma lui mi restituì uno sguardo sereno. - Se questo è un uomo, un essere obbligato dalla sua follia a vivere con una maschera antigas e le cartine di tornasole appiccicate sui vestiti, allora io non sono e non voglio essere un uomo. Quindi la legge non si applica a me, come stavo dicendo ai suoi vigili. La legge è fatta dagli uomini per gli uomini. C'è forse l'obbligo della maschera antigas per i cani e i gatti? No, anche perché grazie a noi sono quasi spariti.
- Questo è vivere, l'unico vivere che abbiamo a nostra disposizione, se lei così facendo non si sente uomo, sono affari suoi. Ma lei è iscritto all'anagrafe, e nonostante tutti i suoi giochetti verbali per quanto riguarda la legge lei è un uomo, e quindi soggetto alle leggi degli uomini per gli uomini. Se vuole impiccarsi può farlo, se vuole lanciarsi sotto un tram è liberissimo, ma deve farlo con la maschera antigas legata alla coscia. Se vuole uccidersi sono affari suoi, ma se muore di inquinamento è colpa nostra, del nostro mondo, e io sono qui apposta per impedirle di morire di inquinamento. Il resto sono fatti esclusivamente suoi.
Presi un modulo e cominciai a riempirlo. - Questo è un ordine di ricovero in clinica per il suo atteggiamento antisociale. Vedrà che lì la convinceranno a essere meno schizzinoso. Si tratta di una quindicina di giorni, li consideri alla stregua di una vacanza pagata.
Stolidamente pensavo che sarebbe finita lì, generalmente finisce sempre lì, ma in questo caso le cose non si svolsero affatto in tal modo. Me lo ritrovai davanti il mese dopo, e poi ancora il mese successivo e poi nuovamente quello appresso, ormai sembrava che tutto il corpo sapesse delle nostre chiacchierate. Dovunque venisse fermato, nel giro di qualche ora finivo per ritrovarmelo davanti la scrivania, pronto a ricominciare la sua tiritera su quanto erano stati paradisiaci i tempi passati, e come ormai avessimo fatto l'abitudine persino all'inferno, pronti a spingerci verso confini sempre più abietti.

Nel dormiveglia sentii lo squillo del telefono e la voce impastata di sonno di Marta rispondere. Poi lei mi diede di gomito brutalmente dicendomi: - E' per te.
Presi la cornetta e accesi la luce. Avevo sempre resistito strenuamente ai tentativi di Marta di far installare il videotelefono anche in camera da letto. - Sono Anselmi, cosa c'è?
- Un allarme gas, signore, c'è stato un morto.
Guardai l'orologio, le tre. - E io che c'entro? Non sapete sbrigarvela da soli? Debbo venire a tenervi la manina?
- Al comando mi hanno detto che lei lo conosceva, è un ex docente universitario che lei ha interrogato più volte. - Improvvisamente sveglio strinsi la cornetta come se volessi stritolarla.
- Mandatemi la macchina, arrivo subito.
Durante il tragitto ripensai alle varie discussioni che avevamo avuto, e soprattutto alle ultime volte, quando smesso di recriminare aveva iniziato a raccontarmi della sua vita prima del tracollo del nostro mondo, di ciò che ricordava, dei pomodori e del profumo delle rose.
Infilata la maschera antigas e l'impermeabile antiacido scesi dalla vettura e seguii il vigile che mi attendeva attraverso un dedalo di corridoi talmente angusti che in caso di incendio il fuggifuggi si sarebbe trasformato in un massacro. Arrivammo sulla scena del delitto e mi affacciai dalla soglia.
Definire quello sgabuzzino dell'inferno un alloggio, era un mero atto di follia, o una menzogna come solo uno speculatore edilizio o un funzionario della sovrintendenza alle case popolari ampiamente rifornito di mazzette avrebbero potuto proferire.
Sotto le lastre di cemento, senza neanche essere costretti a rimanere in silenzio o abbassare la voce, si poteva udire lo scorrere dell'acqua mortale del Tevere. Quei buchi erano stati ricavati tirando su tre pareti di mattoni a malapena cementati tra loro contro l'arco di calcestruzzo del ponte quando il fiume era stato interrato, trasformandolo da fogna a cielo aperto a fogna coperta. Il soffitto era pericolosamente incurvato dal peso del piano soprastante. Chi aveva costruito quelle trappole per topi meritava di essere preso e gettato nel fiume, dove le sue ossa si sarebbero dissolte con uno sbuffo di fumo velenoso.
Nella "stanza" c'era solo una brandina priva di coperte e pochi libri accuratamente depositati in un angolo, ingialliti dal tempo e rovinati dalle esalazioni acide. Le pagine erano divenute fragili come quei fiori conservati schiacciati tra le pagine di un dizionario.
Per poter entrare dovetti far uscire tutti gli altri. Oltre alla brandina c'era appena lo spazio perché un uomo potesse rimanere in piedi senza dover tenere la testa china. Infilai la maschera antigas per filtrare i miasmi venefici del fiume che salivano attraverso le connessioni del pavimento, neanche a tenuta. Questa volta, se avesse voluto perdere tempo inutilmente, vi sarebbe stato da scrivere qualcosa sul rapporto, benché esso non avrebbe trovato alcun burocratucolo che avesse la voglia di leggerlo e meno che mai quella di prendere provvedimenti.
Al di sopra della brandina c'era una vecchia fotografia incorniciata. Una ragazza ridente, come quelle di una volta; anche se sbiadita, la foto lasciava intuire una carnagione rosea e una pelle morbida, liscia e vellutata, molto lontana dalla nostra gommosa epidermide grigia e dura. Ciò che si vedeva del corpo era florido con il seno pieno, e non assomigliava neanche lontanamente a una delle nostre rachitiche ragazze grigiastre nutrite di schifezze immonde e ipersviluppo mondiale.
La ragazza, attorniata da fiori su un balcone coperto da un pergolato, guardava in basso verso il fotografo. Malgrado la carta ingiallita, si vedeva persino un pezzo di cielo che ancora riusciva misteriosamente a conservare una tonalità azzurra! Quell'azzurro che non avevo mai visto, ormai cancellato persino dalle vecchie pellicole cinematografiche che si è preferito non ripristinare, sperando che la gente lo dimenticasse velocemente.
Sotto la foto c'era la maschera antigas che avevo consegnato all'idiota; con un certo sforzo era stata inchiodata al muro trapassando la durissima gomma nera, e nella cavità facciale, a mo' di vaso, era stato deposto un fiore rinsecchito.
Un fiore? Tornai a guardare: sì, un fiore. Una minuscola e striminzita margherita: l'unico fiore, tanto duro e insensibile, così simile a un uomo, che abbia qualche possibilità di sopravvivere in questo mondo velenoso meticolosamente pianificato e costruito dall'uomo per proprio uso e consumo e dannazione.
Ma anche le margherite, nonostante questa loro quasi invincibilità, sono pressoché sparite, visto che non esiste nulla che possa ergersi a fronteggiare con successo gli sfoghi nevrotici della volontà di distruzione dell'uomo. Chissà dove quel vecchio pazzo era andato a pescare quel fiore da offrire alla ragazza della foto.
Salii sulla brandina per arrivare a prendere la foto, ma quando la staccai dal muro qualcosa svolazzò un poco nella stanza prima di finire in terra.
Lo salvai dal tacco di uno stolido vigile fermo sulla soglia. Era un vecchissimo ritaglio di giornale senza data, reso quasi marrone dall'usura del tempo e dai miasmi.
La storia di una ragazza deceduta per una fuga di sostanze tossiche da uno stabilimento chimico. All'epoca l'evento doveva essere stato talmente insolito che il cronista aveva pensato bene di spargere retorica e commozione a buon mercato a piene mani. Ben due mezze colonne di vocaboli altamente lacrimogeni; non aveva saltato uno dei luoghi comuni: la vicinanza del matrimonio con un giovane professore universitario, il corredo già pronto, lo strazio dei genitori e il dolore composto di quanti la conoscevano; tutte quelle stronzate che oggi i giornalisti saltano a piè pari, dedicando all'avvenimento non più di due righe e limitandosi a riportare i nomi contenuti nelle veline informative che il mio ufficio emette quotidianamente.
Tolsi la foto dalla cornice, la piegai e me la misi in tasca. Guardai ancora una volta la margherita rinsecchita nella maschera antigas e uscii.

- Tutto qua? - potrebbe chiedersi stupito qualche cinico tra voi.
Non me ne sorprenderei, per anni ho fatto professione di cinismo applicando quasi tutta la mia scienza in esso, so bene quindi cosa possa fare. Ma so anche che la corazza del cinismo, che così bene riesce a proteggere l'essere dall'assalto del mondo, è in realtà un temibile parassita che fagocita e digerisce esso stesso l'essere che dovrebbe difendere, e dopo poco rimane solo una corazza vuota, senza più il mollusco interno.
Tutto qua, e scusatemi tanto, forse sarò uno scemo sentimentale ma è un tutto qua che a me sembra più che sufficiente.
All'inizio cominciai a non dormire più la notte, rimanendo a fissare per ore quella fotografia ingiallita, chiedendomi cosa ci fossimo persi. Tra me e il "vecchio" non dovevano esserci più di venticinque anni di differenza, e io non avevo mai conosciuto una ragazza così. Tutte le mie esperienze si riducevano a qualche pallido riflesso di salute nei vecchi film, ma che avevo sempre creduto si trattasse di finzione. Improvvisamente, quelle che mi erano sembrate solo delle banalità, avevano assunto un significato nuovo.
A questo avevamo abdicato: a una pelle rosea, ai capelli luminosi e quasi scintillanti, ai fiori, alla gaiezza. Questa era l'eredità che avevamo dissipato giocando d'azzardo con il mondo.
A un mese dalla scoperta di quella foto con quel fiore rinsecchito, smisi di andare in ufficio. Mia moglie ci mise solo due settimane per capire che qualcosa non andava e dopo un poco convinto tentativo di farmi rinchiudere in clinica per riposare, non impiegò molto di più per squagliarsi all'orizzonte alla ricerca di qualcuno più ambizioso di me, e che non cadesse preda di attacchi di follia. E di questo non le sarò mai grato a sufficienza.
Liliana invece non lo capisce, ogni tanto mi si presenta in casa sperando che io sia improvvisamente rinsavito e che tutto possa ricominciare come prima, anzi meglio di prima, visto che ora sono divorziato, e cerca di aiutarmi, di riportarmi sulla giusta strada.
Capisce che "mi senta un po' scosso", ma dice che "mi devo scuotere da questo torpore" ma in realtà ho capito bene che la metto a disagio, il mio stato le fa quasi paura, non riesce a capire questa mia debolezza, questa mia nudità interiore.
Inizialmente veniva quasi ogni sera, lasciato il lavoro e il suo nuovo comandante che forse ha messo gli occhi sulla sua "bellezza" esattamente come avevo fatto io. Veniva per accudirmi come fossi un malato, poi ha iniziato a saltare prima un giorno, poi due. Ormai passa ogni tanto, come per controllare che la situazione non evolva a sua insaputa, così da essere pronta a raccogliere i miei cocci appena io dia segni di una ritrovata salute mentale.
Il fatto che abbia riposto nell'armadio la mia corazza di cinismo e non mi preoccupi di farmi vedere così, nudo e debole, con la guardia abbassata mentre me ne sto in soggiorno a contemplare una foto che lentamente svanisce, che io non abbia alcun pudore, per lei non è qualcosa di comprensibile.
Forse, tra qualche giorno stabilirà che oltre a non capirlo non è neanche disposta a sopportarlo e allora magari mi lascerà in pace. Non è questo il momento di mettersi ad allacciare o riallacciare rapporti sentimentali. E poi lei è grigia, come tutti noi, con sulla fronte i segni del peccato primigenio, e quando ogni tanto mi abbraccia, gettandomi le braccia al collo, non posso fare altro che confrontarla con una vecchia foto. Niente in lei indica la salute e il benessere, è grigia, come tutti noi, e non ricordo di averla mai vista ridere, ma neppure fare qualcosa più di un sorriso tirato; è bionda, come la ragazza nella foto, ma i suoi capelli sono smorti, opachi. E di lei, nel paragone con una fulgida dea del mito non rimane nulla.
E di fronte alla foto marroncina di una ragazza morta prima che nascessi, non potrei accontentarmi nuovamente di accarezzare la guancia indurita di una delle nostre zombie.
Io intanto me ne sto qua, non credo che andrò a finire sotto un ponte, non penso di essere in grado di rifiuti così estremi e definitivi.
I miei superiori dopo avermi dato un'occhiata hanno ritenuto che fosse preferibile che rimanessi a casa a riscuotere lo stipendio senza farmi vedere in giro. Non so quanto potrà durare, anche se penso che pur di evitare lo scandalo siano disposti a continuare a regalarmi lo stipendio all'infinito.
Come ho detto, non credo che andrò a finire sotto un ponte, ma senz'altro non ho nessuna voglia di continuare ad aiutarli per quanto riguarda il mantenimento dell'ordine.
Si trovino altri cinici induriti nel granito, ormai la mia procedura standard si è disgregata per sempre e non ho più parole che per il rimpianto di quanto non ho mai conosciuto.

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