Damon Lindelof è uno dei creatori e dei produttori esecutivi di Lost, la serie più amata e odiata della serialità televisiva degli ultimi vent'anni, e anche della più recente The Leftovers – Svaniti nel nulla (The Leftovers), creata insieme a Tom Perrotta, autore quest'ultimo del romanzo da cui il telefilm è tratto. La storia di The Leftovers – giunta alla terza stagione e considerata da molti critici un piccolo capolavoro a livello di scrittura, di recitazione e anche di messa in scena – narra di un evento clamoroso: il 2% della popolazione mondiale scompare improvvisamente, senza spiegazioni, il mondo fatica a fare i conti con ciò che è successo. Tre anni più tardi, Kevin Garvey, padre di due figli e capo della polizia in una piccola città nei sobborghi di New York, cerca di mantenere una parvenza di normalità mentre il mondo intorno a lui, e in particolare la comunità di Mapleton, è fuori controllo. Come se non avesse abbastanza problemi da affrontare, Garvey deve anche venire a capo dei problemi della sua famiglia, nessuno dei cui membri è rimasto coinvolto nel misterioso “rapimento”.

Ed è proprio di queste due serie, Lost e The Leftovers che vogliamo parlare e della visione di Damon Lindelof , co-creatore di entrambe, tenendo presente che quanto seguirà fa parte di riflessioni personali e impressioni, del tutto soggettive e non dotate del sigillo dell'Unica Verità. E per quanto non ci siano rivelazioni fondamentali comunque piazziamo qui uno [SPOILER ALERT],

La reazione che mi ha suscitato la visione dell'episodio pilota delle due serie è stata quella di trovarmi in un lucido incubo, uno di quei sogni ben strutturati dove non solo sei vittima di una inquietante disgrazia (l'aereo sul quale stai viaggiando precipita, le persone care attorno a te scompaiono senza alcuna spiegazione plausibile), ma presagisci nelle viscere che l'incubo proseguirà sempre peggio.

E come in un sogno i piani di narrazione si separano, raddoppiandosi, triplicandosi, procedendo per flashback e flasforward (Lost) oppure la vicenda iniziata in un luogo si sposta improvvisamente in un altro e poi un altro ancora (The Leftovers).

Uniamo a questo la recitazione, la regia e la fotografia di entrambe le serie (che per quanto molto diverse sono però accomunate da una grande cura e professionalità) e il senso straniante di onirico malessere viene rafforzato.

I due colpevoli: Damon Lindelof e Carlton Cuse
I due colpevoli: Damon Lindelof e Carlton Cuse

Una volta entrato in questa modalità di visione mi sono lasciato guidare proseguendo nella visione stagione dopo stagione episodio dopo episodio sospendendo l'incredulità, meravigliandomi delle vicende e, magari, sperando in una conclusione chiarificatrice.

Ma così non è stato.

Nessuna delle due serie si conclude con spiegoni o chiare soluzioni delle linee narrative tanto che anche per The Leftovers Lindelof ha avuto bisogno di affermare chiaramente in una intervista rilasciata al New York Times che la realtà vista nel finale di serie è LA realtà anche se le narrazioni riferite dai protagonisti in merito alla proprie vicende potrebbero non essere LA verità.

Ancora una volta come in un sogno.

L'esperienza onirica, è comunemente affermato, serve a prendere contatto con i piani più profondi del nostro io, ad affrontare ed elaborare i conflitti che ci complicano l'esistenza, dal semplice alterco con un collega di lavoro fino alle paure più fondanti dell'essere umano, una fra tutte: la morte.

A questo punto mi sono detto: Ecco dove mi trovo io spettatore, mentre guardo Lost o Leftovers, sono nel sogno di Lindelof che cerca di affrontare e dare un senso alla morte e all'aldilà.

Che queste serie trattino dell' “afterlife” l'ha ammesso anche lo stesso Lindelof nella succitata intervista rilasciata al New York Times.

Partendo da questo momento di franca onestà mi sento allora di dire che gran parte della frustrazione e, perché no, della rabbia suscitata in me dal finale di Lost (molto meno da quello di The Leftovers) è in gran parte immotivata.

Infatti chi davvero può arrogarsi il diritto di dare una risposta definitiva e vera riguardo l'aldilà?

Perfino tutti i riferimenti religiosi e i culti veri o inventati che possiamo trovare nelle due serie riguardano solo l'utilità di un credo e dei suoi rituali in questa vita che viviamo, con un chiaro messaggio: se la tua religione ti aiuta a vivere meglio va bene, ma se ti impone solo una serie di restrizioni immotivate forse non è cosa buona.

Nessuno di questi culti, infatti, riesce a dare una risposta definitiva alla domanda: “cosa c'è dopo la morte?” com'è giusto che sia, secondo me.

Il tempo è, poi, uno dei cofattori della morte. Senza il trascorrere del tempo non ci sarebbero la vecchiaia e la fine della vita, non si incapperebbe nel giorno fatale dell'incidente aereo o della sparizione del 2% della popolazione mondiale. E anche sul tempo Lindelof gioca con il sogno. Il tempo delle sue serie non è lineare, è fatto di andirivieni, insieme anche alla spazialità dell'azione, presentata talvolta da molteplici punti di vista in modo da rimanere nel loop di “quel giorno” in un modo che mescola l'approccio di Groundhog Day con Rashomon e/o Vantage Point.

E rimanendo sempre nel sogno, ci sono anche persone dotate di particolari facoltà, come quelle di guarire le ferite fisiche e psichiche degli altri o addirittura di tornare dalla morte, come Kevin il personaggio interpretato da Justin Theroux in The Leftovers.

Sempre che “l'altra dimensione” nella quale Kevin si ritrova ad interpretare un suo gemello killer internazionale o addirittura il presidente degli USA sia l'aldilà.

Infine a completare il senso di un sogno inquieto si palesa la sensazione che il mondo stesso sia sull'orlo dell'apocalisse, una sensazione comune sia a The Leftovers che a Lost, raggiungendo il culmine della paura della morte: l'estinzione del genere umano, la Fine del Mondo.

Non si tratta più, quindi, della narrazione di una storia, ma dell'utilizzo del mezzo narrativo per riflettere ed elaborare a livello più o meno conscio le problematiche esistenziali di cui abbiamo parlato fino ad ora.

In questa ottica le due serie fanno parte del nuovo panorama seriale televisivo, quello aperto nel 1990 da Twin Peaks (fatti ovviamente i debiti paragoni con un maestro come David Lynch, per carità), dove lo spettatore viene coinvolto e legato a livello inconscio / viscerale attraverso la fidelizzazione delle vicende dei personaggi che però non verranno necessariamente risolte o spiegate del tutto.

Sappiamo che tutti gli innovatori, gli apripista di un nuovo genere inevitabilmente creano divisione e pagano in prima persona, questo è successo anche a Lindelof, che ha dovuto sparire dai social in considerazione dello spamming relativo alla rabbia di quanti (me compreso, ma non l'ho mai stalkerato, giuro) non hanno digerito il finale di Lost.

Questo non gli ha impedito di mettere mano ad una serie altrettanto problematica come The Leftovers, e ribadisco che parlo solo di serie, evitando i film in cui è stato coinvolto come sceneggiatore (che per noi appassionati di fantascienza possono risultare ancora di più fonte di disappunto).

Lindelof è sicuramente a proprio agio su una narrazione più articolata come quella della serie televisiva e dunque non potrebbe trovarsi in un momento migliore del mercato (tra Tv e piattaforme c'è una bulimia di serie mai vista prima) ma mi piacerebbe se almeno una volta si misurasse su una serie meno onirica e più narrativamente coerente per vedere che tipo di lavoro sa fare.

Non so se questo accadrà mai, comunque nel frattempo vi propongo di adottare il sistema Lindelof Alert ovvero sapere che se lui è coinvolto come showrunner probabilmente ci troveremo ancora nei suoi sogni e nel suo inconscio, cosa che potremo scegliere di accettare o meno a seconda della nostra momentanea esigenza di entertainement.

Per una avvincente storia che non abbia bisogno di spiegazioni o che ci lasci a bocca aperta senza dover necessariamente trattare argomenti metafisici ci rivolgeremo ad altri come ad esempio Jonathan Nolan e Lisa Joy ed il loro Westworld.