C’è un racconto a cui ti senti più legato, magari perché scritto o pubblicato in un momento particolare della tua vita?

Certo. Anzi ce n’è più d’uno. Anzitutto (è ovvio) il primo lavoro pubblicato, Le nevi di Oghiz (1962): il primo racconto “non si scorda mai”. Poi Breve eternità felice di Vikkor Thalimon (1972), perché mi riporta al mio primo libro (indimenticabile anche questo), cioè l’antologia personale L’eternità e i mostri (“Galassia” n. 168), per la quale ebbi contatti con Vittorio Curtoni, poi divenuto amico carissimo. E successivamente, ancora, il lungo racconto Il pianeta dell’entropia (1978) richiestomi da Curtoni per “Robot” prima serie. Poi… beh, varie altre storie più volte ristampate come Tre per uno (1975) o L’angelo senza sogni (1986); alcuni racconti di “fantamore” nei quali c’è dell’autobiografia mascherata… e ovviamente il romanzo del premio Urania, scritto peraltro nel periodo peggiore della mia vita.

All’interno dell’antologia ci sono anche le storie del tuo ciclo sulla Storia Futura Libertaria tra cui spicca, a mio avviso, il romanzo breve di cui hai già detto, Il pianeta dell’entropia. Ci parli di com’è nato questo ciclo?

È nato… apparentemente per caso. A fine anni Settanta mi accorsi di aver scritto alcuni racconti che privilegiavano più espressamente tematiche politiche o sociali: non si trattava d’un mio progetto organico ma di storie a sé stanti. Nell’insieme però questi titoli mi pareva formassero i tasselli d’un insieme più vasto: la descrizione, variata per epoche e contesti, di progressi e arretramenti di personaggi che si attivavano, in modi differenti, per contribuire all’edificazione d’una società diversa. Non ho mai pianificato questo genere di storie, per cui esse non sono numerose. Al momento la Storia Futura Libertaria (che io chiamo SFL) si articola solo in sette racconti di lunghezza molto varia, un romanzo di circa cento pagine (Attentato all’Utopia) e l’inedito Il Quinto Principio. Le storie sono ambientate in epoche che vanno di volta in volta dai nostri giorni a diecimila anni nel futuro. Mi è particolarmente congeniale, anche come lettore, il filone della fantascienza che si focalizza sui temi della politica, del potere, della società.

È giusto affermare che al centro dei tuoi racconti c’è sempre una profonda riflessione sull’uomo e sulla società che lo circonda, anche quando la storia è ambientata su un pianeta lontano? Penso, ad esempio, a Breve eternità felice di Vikkor Thalimon.

È ciò che generalmente cerco di fare, anche al di fuori della predetta SFL… sperando di riuscirci. Ma non tutto ciò che scrivo è su questa linea. Certamente Breve eternità… voleva esprimere, nel 1972, il bisogno non reprimibile d’evasione dalla prigione (più che altro esistenziale) in cui mi sembrava che un po’ tutti – io per primo – finissimo prima o poi col ritrovarci. Ma L’essenza del futuro contiene anche altro, per esempio una sezione di fantastorie umoristiche.

In molti tuoi racconti è spesso presente un solido elemento scientifico: è stato difficile parlare, seppur in forma narrata, di scienza in un paese come l’Italia, che storicamente è sempre rimasto lontano dal pensiero scientifico?

Mah, per me non è stato particolarmente difficile narrarne, benché io concordi sulla assenza, nel nostro Paese – in generale – d’una seria mentalità scientifica. Dicevo non mi è stato difficile, anche perché quelle volte che ho messo in ballo più direttamente un elemento di scienza ho cercato ovviamente di documentarmi, di chiarire il più possibile il concetto al lettore, e poi di lasciare il tutto sullo sfondo per dedicarmi alla storia in sé. L’elemento scientifico, o meglio il suo influsso, m’interessa soprattutto come pretesto per raccontare da un punto di vista inusuale le vicende di un personaggio o di gruppi di persone; o a volte per dare maggiore verosimiglianza a un contesto futuribile insolito. D’altronde non avrei la preparazione scientifica (né probabilmente la voglia) per promuovere un tema scientifico-tecnologico a co-protagonista d’un mio racconto.