A settembre, dopo il diploma, prendemmo a fare scorribande sulla costa amalfitana. Estinguevamo le riserve alcoliche di tutti i locali che ci capitavano a tiro, tanto che una sera mi beccò la polizia e mi sospese la patente per guida in stato di ebbrezza. Fortunatamente in quel periodo c'era con noi Loïc e, siccome aveva la patente, lo nominammo autista ufficiale. Loïc era un cugino francese di Anselmo. Il padre aveva una clinica privata a Parigi e voleva per forza che il figlio diventasse medico. Loïc, dopo un litigio furibondo, aveva preso dei soldi al padre e se ne era andato. Da settembre girava per l'Europa senza dare notizie di sé ai genitori. Era un bravo ragazzo; ne avemmo prova dopo qualche settimana che era con noi. Fui chiamato dal pensionato perché mia nonna era agitata e invocava il nome di mio padre. Pregai Loïc di accompagnarmi, visto che non avevo la patente. Quando arrivammo, riuscii a calmare mia nonna e ad agitare Loïc. Gli dissi dell'Alzheimer e lui rimase turbato e sconvolto. Quella stessa sera, ci lasciò un generoso residuo di erba che aveva preso in Olanda e se ne tornò a casa. Aveva deciso di studiare per diventare medico.

Tre giorni dopo, la vita di tutti noi cambiò per sempre.

Ero in salone, steso vicino a un divano dal quale penzolava una gamba di Lisa, il cui dolce piedino mi sfiorava il viso. Era mattina presto; avevamo appena preso sonno. All'improvviso mi sentii strattonare da Matteo, capelli più arruffati del solito, espressione così terrorizzata che pensai di avere un incubo.

- Devi venire a casa mia. Subito!

Mi trascinò sul motorino che ancora dormivo. Arrivati da lui mi spinse nel suo sgabuzzino elettronico, chiuse la porta a chiave e con mani tremanti mi indicò dei circuiti su un tavolo. Si aggiustava di continuo il ciuffo sulla cicatrice, spingendolo indietro con violenti colpi della mano, da farsi male. Sudava e balbettava.

- Mi serve un'interfaccia sul PC per manovrare i canali - gesticolava, - qualche migliaio di canali. No! Forse centinaia di migliaia. Insomma, vanno codificati a trentadue bit.

- Ma vanno codificati cosa?

- Sono canali, non so quanti, non ancora, non precisamente. Senza PC non si possono regolare, sono troppi. Mi devi fare un'interfaccia.

- Ma sono canali di cosa?

- Emettono. Emettono onde che... - agitava le mani all'altezza della testa.

- Che?

- Qui! - Si colpì una tempia con l'indice teso, come per trapanarsi il cranio. - Arrivano qui! Senza passare per i sensi. - Le labbra gli si contrassero in un risolino tremulo.

Vidi un interruttore rosso sul tavolo. Due fili partivano da lì per finire in uno dei circuiti. Mi avvicinai per accenderlo. Matteo scattò, un esuberante ondeggiamento gli animò i ciuffi rossi. - Nooo! Non farlo! - Si colpì di nuovo la fronte per spostare i capelli. Sbatteva gli occhi in modo asincrono e frenetico.

Portai il dito all'interruttore. - Perché no?

- No, no - agitava le mani verso l'interruttore come un mago da fumetti nel momento dell'abracadabra. - Non devi farlo!

- Ma va'!

E accesi l'interruttore.

Non parlavano. Sono sicuro. Nessuno di loro diceva nulla. Né emanavano niente di proprio. Però tutti, e cazzo, dico davvero tutti gli oggetti intorno presero ad avere un significato diverso. Il giravite esisteva per trafiggermi le pupille, la finestra per scavalcarne il davanzale e precipitare di sotto. Quando inorridito caddi sulle ginocchia, mi scorsi le mani, e seppi che servivano per strapparmi gli occhi dalla fronte. Un pesante trasformatore sul ripiano aspettava da sempre di fracassarmi il cranio; la sua stessa esistenza era finalizzata unicamente a quell'obiettivo.