Avevo diciotto anni e una brutta sbronza triste quando guidai per la prima volta. Ero alla festa di diploma a casa mia a Posillipo. I compagni di classe erano tutto, per me. Avevamo la scorciatoia, una cosa che capivamo solo noi. Ce l'eravamo tenuta stretta per cinque anni, e l'ultimo non avevamo fatto altro che dirci che non l'avremmo persa con la fine del liceo.

Quella sera, però, non mi sembrava possibile.

Barcollavo in salone davanti al megaschermo con il demo che sei mesi prima mi aveva portato al primo posto al sParty*4e in Danimarca, un freddo che le ossa ancora se lo ricordavano. Una roba stratosferica, di solito, ma adesso le spire tridimensionali uscivano dallo schermo e mi avviluppavano, e la musica non riusciva a frenare l'ondata di nausea. Un ronzio nelle orecchie mi faceva chiedere cosa cazzo ci fosse in quella cartina avvolta da Pietro.

Nessuno di noi era su di morale, ma mi era arrivata la patente quella stessa mattina, e quando Patrizia e Rossella mi sfilarono il portafoglio di tasca per prenderla, capii che volevano vedere come guidavo.

Quel gesto cambiò la serata.

All'inizio andavo piano, ero impacciato; scendemmo a Mergellina che inchiodavo il piede sul freno a ogni macchina che incrociavo.

Lentamente, però, ci presi gusto. Quelli di noi che venivano in motorino mi giravano intorno da tutti i lati, in macchina alzavano lo stereo a tutto volume e si sporgevano dai finestrini. Era una cosa nuova per noi; io ero il primo con la patente. Quando Patrizia prese a farmi il solletico e vidi Pietro scolarsi una bottiglia di vodka, iniziai a pensare. Scrutai i miei amici. Sfilai la bottiglia dalle mani di Pietro e ingollai della vodka tra le risate dei ragazzi; dissero che facevo benzina. Mi sentii entrare in sintonia con l'auto e la strada, anzi con tutto il creato. E di lì a poco capii: avevamo la scorciatoia, il fatto che il liceo fosse finito non contava niente.

Mi sgorgò una bella risata, poi sgommai. Tirai le marce fino ad arrivare a cento all'ora. Zigzagai tra le poche auto della notte. Raggiunsi i centoquaranta. Quando via Caracciolo finì, tirai dritto: via Partenope, via Acton, via Marina. Seguivo la strada senza fermarmi, uscivo dalle curve quasi su due ruote, e quando c'era un rettilineo tiravo al massimo, suggevo vodka, poi passavo alla marcia superiore. E più bevevo, più sentivo che eravamo solo all'inizio; non sapevo di cosa, ma questo non importava. E non immaginavo certo c'entrasse Matteo con i suoi esperimenti elettronici.

I ragazzi si preoccuparono: Giorgio mi supplicò di rallentare, Rossella strillò che voleva scendere. Ma ormai sapevo che quella notte non ci sarebbe accaduto niente di male; lo sentivo.

Accelerai ancora, presi la tangenziale volando a qualche centimetro da terra per la velocità con cui affrontai un rialzo all'imbocco. All'apice del terrore dei ragazzi alzai una mano e dissi: - Tranquilli, è tutto a posto! - E mi lanciai in un delirio di spericolatezze sulla tangenziale.

Si calmarono all'istante.

Quella era la scorciatoia: se uno di noi diceva una cosa, gli altri lo capivano.

A parte Angela, Evelina, Rossella, Anna, Patrizia, Maria, Lisa e Francesca, la mia ossessione principale erano i computer. Era il mio modo di bilanciare l'incantevole fascino dell'enigmatico con la stucchevole funzionalità dell'intelligibile.

Anche Romeo se la cavava con il codice, e Matteo avrebbe potuto essere un programmatore eccezionale, ma lui era fagocitato dalla passione per l'elettronica. Passava ore interminabili a inseguire un sogno che noi potevamo appena intuire. Aveva una sorella sordomuta di due anni più piccola di lui. Poco prima dell'inizio del liceo era rimasto coinvolto con la famiglia in un incidente stradale al rientro dalle ferie. Il padre era morto, la sorella era rimasta cieca.