All'interno la luce era sufficiente a svelare alla prima occhiata le condizioni dei due cadaveri con addosso la divisa scura della polizia serba. Berti produsse una sorta di lamento e istintivamente si portò la mano destra davanti al viso, scontrando il bocchettone della maschera anti-gas. Il flash della macchina fotografica di Ravic sovraespose per una frazione di secondo l'orrore, facendo riverberare i corpi divorati dalla cancrena, balenando sui denti scoperti e sulla carne decomposta. Boulez ringhiò dentro la maschera, si guardò intorno e si girò dall'altra parte.

Ravic fece qualche primo piano alle teste e alle mani. ‹ Guarda, ‹ aveva disse sottovoce come se stesse parlando da solo, ‹ guarda lo stato dei tessuti, sembrano qui da più di una settimana. Non ammazzati ieri. Una settimana fa. Un mese fa.

‹ È la stessa cosa che è successa a quelli di Dakovica? ‹ domandò Berti, guardando anch'egli da un'altra parte. ‹ E all'americano?

La luce del flash scavò ancora tra le carni, disegnandovi addosso un fitto reticolo di grinze putride. Sì, è la stessa cosa. Otto serbi a Dakovica, in un presidio come quello. Prima, altri tre dalle parti di Srbica. E quattro albanesi a Polje. E poi i tre olandesi. E l'americano. Tutti nelle stesse condizioni, morti ammazzati o morti suicidi: cadaveri, contaminati da una cancrena batterica, che si erano decomposti sino a scheletrizzare in meno di quarantotto ore.

‹ Sarà colpa dell'uranio impoverito. Sì, insomma, delle armi usate dalla NATO. ‹ Parve che Berti stesse per mettersi a piangere. Se lo avesse fatto, tra un singhiozzo e l'altro, probabilmente avrebbe trovato il tempo di dire che voleva tornare a Genova, che voleva rimettersi a guardare la Samp in tivvù e scopare con la sua ragazza.

Anche lui, però, era in trappola, bloccato al centro di quel deserto di morte in espansione.

Erano trascorse poche ore, ma aveva ancora impressi nella memoria i volti dei cadaveri. Stava rischiando grosso a girare per il mercato di Pec in borghese, perché Corrandi, dopo l'exploit di quella mattina al presidio serbo, aveva deciso che Ravic stava diventando troppo scomodo. Da parte sua, Ravic considerava l'atteggiamento di Corrandi comprensibile: c'erano già fin troppi problemi senza che se ne creassero di nuovi, e qualsiasi indagine sembrasse in qualche modo collegata alle armi impiegate dalle NATO durante i raid veniva puntualmente scoraggiata dall'alto. Però Ravic non pensava all'uranio impoverito, o almeno aveva smesso di farlo. Era andato al mercato per seguire un'altra traccia. Quella del film dei serbi.

La città, comunque, nemmeno lo degnava di un'occhiata. Le ombre dense sulle case, i bambini magri come conigli spellati, le donne in lutto con rughe scavate dalle lacrime, nessuno prestava attenzione al mezzo serbo e mezzo albanese.

Aveva trascorso qualche ora in albergo, prima, e s'era addormentato, vestito, sul letto duro come una tavola. E, una volta ancora, aveva sognato la cancrena. Svegliandosi s'era accorto che non era scomparsa. La veglia non era più in grado di cancellarla: era l'oceano in cui la sua angoscia affiorava come la prua di una nave che stava inabissandosi. La vedeva anche adesso. Nella foschia cinerea, tra i colori scialbi, putrefatti, simili alla pelle fradicia di un cadavere.

La vide anche sul volto di Fishta che, con le mani in tasca, il naso rosso per il freddo e una sigaretta pendula tra le labbra, lo stava aspettando davanti a un bar in rovina, come pattuito.

Girava voce che esistesse un video girato da alcuni soldati serbi. Uno dei tanti snuff-movie, come li avrebbe chiamati qualcuno, che dopo la guerra avevano cominciato ad essere trafficati fra Serbia e Albania, pronti per il mercato europeo. Qualche giorno addietro, Ravic aveva domandato a Fishta e questi, coi suoi gioielli d'oro e l'acconciatura anni ottanta, si era rivelato la persona giusta per fargli avere il video. Perché Fishta procurava tutto quello che i soldati della forza di pace desideravano: puttane, droga, qualsiasi cosa.