Ma come si fa a raccontare la storia della fantascienza?

A differenza del giallo, del western o della storia di spionaggio, non si definisce per un'ambientazione o una trama ricorrente. E' un genere, ma li può contenere tutti. E ha sempre praticato la contaminazione (pensiamo all'Ottocento inglese, a riviste dell'era pulp come Weird Tales e Unknown, ad autori d'oggi come, in Italia, Valerio Evangelisti e Nicoletta Vallorani).

Ha un mercato specializzato, ma non viene sempre pubblicata con quell'etichetta: c'è una fantascienza delle riviste (in America, prima pulp e poi digest) e una fantascienza dei best-seller, una fantascienza delle collane di libri e una fantascienza "alta" (di autori solitamente associati con altri generi o altri settori del mercato culturale).

Non basta la descrizione (fantascienza è quella cosa che sta in quel certo scaffale), ci vuole la definizione (come funziona, come distinguere un libro, una volta aperto). Ma una volta data la definizione, spesso i critici incontrano sorprese: si va indietro nel tempo, si scoprono autori e sottogeneri inattesi, e una miriade di tradizioni nazionali. Insomma, le cose sono complicate: le storie della fantascienza sono tante.

Tante storie, che hanno forse in comune solo il fatto che, nel corso degli anni, la fantascienza non è quasi mai stata cultura "rispettabile" e "importante". Soprattutto, non lo è stato il suo pubblico. E una missione impossibile ma indispensabile sarebbe proprio quella di ricostruire una storia del suo pubblico, dei suoi lettori. Potremmo partire dalla storia del mercato.

Pensiamo all'epoca delle utopie, sogni sempre dissidenti e a volte perseguitati, che hanno dietro di sé la cultura popolare medievale del Paese di Cuccagna. Pensiamo alla letteratura inglese intorno al 1800; si comincia a estendere l'alfabetizzazione e il mercato della letteratura "popolare" (quello del gotico e del sentimentale, ma anche di Frankenstein di Mary Shelley) nasce insieme al romanzo moderno: in fondo, il romanzo stesso nasce come genere popolare. Pensiamo all'epoca vittoriana, di cui ha scritto Darko Suvin; insieme a nuove riviste, nasce un mercato di libri rilegati più economici dei three-decker in tre volumi in cui viene pubblicata la letteratura mirata a un pubblico più "serio": il mercato che diffonde Verne e che produce tanti romanzi fantastici-avventurosi e utopici, che sono il brodo di coltura che prepara la strada a Wells. In America, pensiamo al dime-novel (il romanzo da pochi centesimi) che prolifera all'inizio del Novecento, e poi ai pulp (le riviste di formato grande, stampate su carta più economica), prima "generalisti" poi specializzati.

Nelle storie della fantascienza, i pulp incontrano spesso un triste destino. Con quelle riviste (con Amazing che dal 1926 è la prima rivista specializzata in "scientifiction", con Science Wonder Stories che nel 1929 le dà il nome "science fiction") il genere ottiene una definitiva identità. Allo stesso tempo, è con esse che si identifica il "ghetto", il marchio di perpetua ignominia da parte del mondo letterario "rispettabile", da cui tanti sentiranno il bisogno di liberarsi. La fantascienza avvicina alla lettura e alla scrittura nuovi settori di pubblico: ma questa non è per tutti una cosa da salutare con approvazione. Uno fra tanti, Brian W. Aldiss distingue, in Trillion Year Spree (1986), fra una "SF alta" inglese ed europea, quella degli scientific romance di Wells o delle distopie di Orwell e Huxley, letta da una "borghesia intelligente"; e una "SF bassa" americana, letta da un "pubblico più semplice", emerso "dal milione di immigranti" arrivati ogni anno negli Usa dal Vecchio Mondo, per cui i "pulp offrivano una possibilità immediata di facile fuga a basso costo dalle dure realtà della vita". Ricordiamo che, a giudicare da quanto dicono biografi come Damon Knight e Sam Moskowitz, anche molte delle figure principali delle riviste americane di quegli anni hanno un retroterra familiare tutt'altro che benestante.