Da quando in Italia fu importata - dagli Stati Uniti - la moderna science fiction, si pose per i nostri autori o aspiranti tali la questione del modello cui riferirsi. O meglio, la questione di riuscire a scrivere una "fantascienza" (secondo il neologismo poi coniato da Giorgio Monicelli) che potesse sufficientemente competere con quella americana, e quindi acquistasse "credibilità" presso il mercato dei lettori.

Riassumerò, nel mio intervento, alcune tappe di questo processo di adesione/reinvenzione in rapporto al modello Usa, processo che si rivelò subito molto problematico e che, di fatto, non è mai stato risolto, se dopo 50 anni stiamo ancora a parlarne e a interrogarci.

Stabiliamo convenzionalmente una data precisa, quella della nascita di Urania: 1952. In principio, "fu il Verbo (Usa)". Ed ecco già il primo incaglio. Perché mai il riferimento principe doveva essere la sf americana? Non aveva forse l'Italia una sua non trascurabile né banale tradizione di narrativa fantastica e anche fantascientifica? Sulla questione, negli ultimi decenni sono usciti vari volumi: ci fu, da fine Ottocento ai primi decenni del Novecento, una quantità sommersa di scrittori, talora anche noti e di vaglia, che si cimentarono nel romanzo e soprattutto nel racconto fantastico, o anche proto-fantascientifico, sulla scia dei vari Verne e Wells. Non si trattava solo di un fenomeno "colto". L'antologia Le aeronavi dei Savoia (ed. Nord, 2001), curata da de Turris, ha portato alla luce la punta d'un iceberg composto da una quantità di opere scritte dal 1891 al 1952 (ma concentrate essenzialmente fino agli anni Trenta), dovute alla penna di autori non sempre sconosciuti o di serie B, peraltro godibili, attestanti l'esistenza di un filone proto-fantascientifico, poi caduto nell'oblio.

Il punto è: come mai una tale produzione non si coagulò in qualcosa (riviste periodiche, soprattutto) di ampia diffusione, che costituisse salde radici per futuri sviluppi? Negli Usa fu in questo modo che dai pulp avventurosi del primo Novecento si passò nel 1926, senza soluzione di continuità, ai pulp fantascientifici di Hugo Gernsback.

Non è questa la sede per indagini specialistiche, ma posso esprimere una mia opinione. Fino ai primi anni '50, l'Italia aveva vissuto praticamente una estensione dell'Ottocento, con il 48% dell'intera forza lavoro occupata nell'agricoltura. Tranne sacche nell'operoso nord il nostro era un paese contadino, anzi rurale, anche quanto a mentalità e cultura, e l'avvio di un vero sviluppo industriale prendeva piede solo in quegli anni del dopoguerra. Si partiva quasi da zero, nel senso che mancava tutta la struttura tecnologica, di ricerca nei laboratori, nelle università, esistente negli Usa; e non era nostro lo spirito pionieristico dei "costruttori di astronavi nel garage"; mentre negli States si viveva già a contatto con il futuro, utopico o distopico che fosse (esperimenti missilistici e spaziali, atomici, diffusione dei nuovi media come la tv, e così via). Da noi, in definitiva, non ci fu una prima linea affacciata sui miti tecnologici nascenti, l'humus che altrove fecondò la fantasia e la genialità di scrittori, e sostenne - grazie a un mercato di storie popolari già attivissimo - le pubblicazioni di science fiction. Noi scontavamo poi il famigerato divario tra le "due culture": mi limito a citare i nomi di Croce, e di Gentile, con la sua riforma scolastica (che attenendosi a una filosofia idealistica relegava le materie scientifiche e tecniche, considerate inferiori, in una sorta di girone infernale, privilegiando le materie umanistiche). E prima ancora - nell'Ottocento - c'era stato l'avvento di un Romanticismo subìto come sradicamento culturale, metabolizzato quindi soprattutto come slancio politico di libertà dall'oppressore, non come ricerca e valorizzazione di radici, miti, folkore, e quindi avvicinamento al "fantastico" (anche ai livelli della cultura alta). Originava - credo - dalla sommatoria di questi e altri motivi il "buco nero" che assorbì i tentativi fantascientifici nostrani del primo Novecento e, dopo la seconda guerra mondiale, ce ne fece addirittura perdere la memoria storica. Quella nostra proto-sf, pur interessante, si muoveva chiaramente in un ambito stilistico e formale di "avventura scientifica ottocentesca", laddove Urania presentava una fantascienza differente, direi "destabilizzante". La cesura ormai c'era stata. Un salto troppo grande per colmarlo, per rattoppare agevolmente il tempo (e la tecnologia) perduti.