di

Anna F. Dal Dan

Lois McMaster Bujold:

analisi di un fenomeno

Ci sono grandi autori fra gli scrittori dell'ultimo decennio? Probabilmente sì, anche se la loro luce non brilla ancora come quella dei grandi nomi degli anni passati. Fra i migliori candidati a essere ricordata fra gli scrittori di questo fine secolo c'è comunque, di certo, Lois McMaster Bujold, una delle autrici che hanno riscosso maggior successo, scrivendo una fantascienza tutto sommato tradizionale. Anna Dal Dan la segue da parecchio tempo e ce ne parla.

1. una storia di successo

La carriera di Lois McMaster Bujold si svolge, da diversi anni ormai, sotto il segno di un incredibile successo di pubblico. Basta fare un elenco dei premi Hugo ricevuti per rendersi conto della sua popolarità (i premi Hugo sono assegnati, come si sa, dagli iscritti alla Convention Mondiale di Fantascienza, e sono quindi un attestato indiscutibile di favore della comunità fantascientifica): nel 1989 per la novella Mountains of Mourning (poi inclusa in Borders of Infinity); nel 1990 per The Vor Game (Il gioco dei Vor); nel 1992 per Barrayar; nel 1994 per Mirror Dance. A questi si aggiungono due Nebula, per Falling Free (Gravità Zero) e ancora per Mountains of Mourning; inoltre, un cospicuo numero di nomination, e la sfilza ancora più impressionante di comparse nella classifica della popolarità di Locus: tutte le sue novelle e i suoi romanzi, a partire dal primo, Shards of Honor, sono comparsi entro i primi venti posti (e spesso entro i primi cinque), nella classifica delle opere più popolari dell'anno secondo i lettori della celeberrima e importantissima fanzine Locus.

A cosa è dovuta questa straordinaria popolarità?

Una prima risposta, che può anche sembrare ovvia e banale, sta nella loro assoluta, meravigliosa leggibilità. Esiste nella lingua inglese un termine molto efficace: unputdownable, impossibile da metter giù. Che si trovi di fronte al succedersi vorticoso degli avvenimenti come in, per esempio, Il Gioco dei Vor, o al progresso lineare di una grande storia d'amore, come in Shards of Honor o Barrayar, il lettore non ha scampo: entrato con un salto gioioso nell'universo creato dalla fantasia dell'autrice, non riuscirà a uscirne se non con l'ultima pagina, e non vedrà l'ora di rientrarci.

Ma non siamo, con questo, più vicini allo scoprire il segreto dell'attrattiva della Bujold. Se fosse tutto qui, il suo sarebbe un successo in termini di copie vendute, ma difficilmente si tradurrebbe in tanti premi, in tanta stima, in tanto affetto di pubblico.

2. fantascienza e guerra

Qualche indizio si può forse ricavare dal confronto con altre opere appartenenti allo stesso filone, quanto meno nella percezione del pubblico; quello che viene indicato in maniera grossolana come "fantascienza militare" o "fantascienza d'azione".

Inserire l'opera della Bujold entro questa cornice rappresenta, in un certo senso, una forzatura. Come ci ha detto lei stessa, i suoi non sono propriamente romanzi di fantascienza militare ma storie basate su un forte personaggio centrale (Miles Vorkosigan) che, per una serie di ragioni storiche più o meno accidentali, è personalmente ossessionato dalla propria carriera militare.

Tuttavia, se è stata presa la decisione editoriale di vendere le sue opere sotto questa etichetta, e non sotto altre che pure sarebbe stato possibile applicare (space opera, fantascienza avventurosa, perfino fantascienza "rosa" - Visto che il primo romanzo che ha scritto è stato Shards of Honor, la storia dell'incontro fra Cordelia e Aral Vorkosigan, i genitori di Miles.) una ragione certamente c'è, ed è molto semplice: il sottogenere "fantascienza militare" esiste, è fiorente, esercita un forte richiamo sul pubblico. Occupa, insomma, una specie di nicchia ecologica nella quale l'opera della Bujold non solo ha potuto fiorire, ma ha avuto uno straordinario successo evolutivo, un po' come un predatore molto flessibile che viene introdotto in un ambiente fino ad allora pacifico e tranquillo.

Le origini del sottogenere "fantascienza militare" si possono rintracciare ne La Battaglia di Dorking, 1871, di George Chesney, nel quale un esercito tedesco invade la Gran Bretagna con una tale facilità che l'opera suscitò, al suo apparire, shock e polemica. Il rumore e la sensazione furono così forti che La Battaglia di Dorking si trascinò dietro una serie di opere di stampo simile, tutte intese come avvertimenti e moniti patriottici: "la popolarità di questo genere di letteratura", secondo Brian Stableford, "contribuì a generare l'enorme entusiasmo che accompagnò gli abitanti della Gran Bretagna alla guerra contro la Germania, quando questa infine giunse davvero" (Dalla voce "War", in: The Encyclopedia of Science Fiction, a cura di John Clute e Peter Nicholls.). Questa impronta di incitamento patriottico non verrà mai completamente meno, ma anzi accompagnerà il connubio "fantascienza e guerra", come vedremo, fino ai giorni nostri. Questa componente sciovinista o anche solo di fanatismo nazionalista è quasi completamente assente dai romanzi della Bujold, e quando compare lo fa per bocca di personaggi negativi, accompagnata dalle canzonature dei protagonisti.

Non che l'elemento speculativo mancasse completamente da opere come The Great War of 189-: A Forecast, 1893, di P.H. Colomb o Danger! di Arthur Conan Doyle; tuttavia si limitava a prudenti considerazioni su piccoli avanzamenti tecnologici e sulle modificazioni che questi avrebbero comportato in termini di tattica e strategia. (Modificazioni che, a quanto pare, gli alti comandi del secolo scorso non furono altrettanto pronti ad anticipare).

Dopo la prima guerra mondiale, la produzione inglese manifestò una certa comprensibile tendenza al pessimismo, rappresentando la guerra come fine della civiltà (in netto contrasto con il trionfalismo che aveva preceduto il grande conflitto); non altrettanto avvenne negli Stati Uniti, dove l'esperienza della Grande Guerra era stata meno immediata e devastante. Bisognerà aspettare lo scoppio della prima bomba atomica perché si manifesti, anche nella narrativa americana, questa tendenza a vedere nella guerra l'ultima e finale stazione della razza umana, generando un cospicuo filone di romanzi apocalittici.

Questa tendenza al pessimismo non era comunque egemone; anzi, la tradizione pulp ha continuato a celebrare a lungo e allegramente festosi massacri di alieni orrendi e quindi anche manifestamente cattivi. Edmond Hamilton, la cui saga del Lupo dei Cieli è, peraltro, ancora oggi molto godibile, e ai quali mercenari galattici (con a capo un Di Lullo originario di Brindisi!) forse i Dendarii devono qualcosa, si era meritato in quegli anni il soprannome di "World Wrecker", il Distruttore di Mondi. Sotto l'influenza della fantascienza più coscienziosa e speculativa che Campbell tanto stava facendo per creare (e su cui tornermo più avanti), questa tradizione assunse un abito più rispettabile durante gli anni Cinquanta, con opere che si occupavano dell'etica e dell'evoluzione del militarismo nei secoli futuri, opere come Starship Trooper di Robert A. Heinlein, 1959 (Fanteria dello spazio, Mondadori), Genetic General di Gordon R. Dickson, 1960 (Generale genetico, Nord) e The Star Fox di Paul Anderson, 1965 (La volpe delle stelle, Nord). Erano gli anni della guerra di Corea, e l'intervento militare americano poteva venire visto come ispirato da un'etica di responsabilità ed altruismo. Ma con il Vietnam la moralità di un'azione militare diventa più ambigua, l'intervento in una guerra altrui meno desiderabile (è in questi anni, fra l'altro, che Gene Roddenberry inserisce nella sua creatura, Star Trek, il principio di non interferenza nello sviluppo di società aliene, la famosa Prima Direttiva). Il mondo della fantascienza si polarizza, si schiera, si divide. La narrativa antimilitarista, che era sempre esistita (si pensi a un Eric Frank Russell, che già pubblicava nei primi anni Cinquanta), diventa feroce, amara e di successo. Compaiono opere decisamente contro, come Guerra Eterna (The Forever War, 1972) di Joe Haldeman, che riprende e ripete gran parte degli elementi di Fanteria dello Spazio cambiando però loro radicalmente di segno, o Il Signore della Svastica (The Iron Dream, 1972) di Norman Spinrad, un libro che si finge scritto da un Adolf Hitler il cui progetto di conquistare il potere è fallito e si è sublimato nel diventare uno scrittore di fantascienza, e che porta fino a un livello di esagerazione grottesca ( per quanto spaventosamente credibile) gli elementi di brutalità, feticismo e razzismo presenti in tanta fantascienza avventurosa. Contemporaneamente, e parallelamente, il filone filomilitarista diventa sempre più convinto e a tratti stridente, oltre che prolifico, con le opere di David Drake (Hammer's Slammer, 1979), Joel Rosenberg (Non per la Gloria, Not for Glory, 1988), le antologie annuali There Will Be War curate da Jerry Pournelle e John F. Carr e The Future At War da Reginal Brentnor, oltre che a serie come quella di Berserker di Fred Saberhagen e della Man-Kzin War di Larry Niven ed altri.

Di fronte a due schieramenti così chiari, e così polarizzati, ci si rende conto subito che non è possibile assegnare la Bujold né all'uno né all'altro campo. Non solo non compare nella sua opera alcun compiacimento per la violenza o lo sterminio, non solo gli ideali in nome dei quali Miles si batte non sono mai ideali di incondizionato amore per la nazione o per la bandiera; ma mancano del pari elementi di critica dell'apparato militare o politico in sé: Miles è un bastian contrario, ma non è mai un ribelle. Vive anche in modo tragico l'esperienza della guerra, ma non diventa mai un pacifista, né l'intento dell'autrice è mai quello di trasmettere ai propri lettori un messaggio di antimilitarismo e pacifismo. E non perché questi siano ideali che la Bujold personalmente respinge (questo non possiamo dirlo, solo sulla scorta della lettura dei suoi romanzi), ma semplicemente perché anche se eserciti e gradi e battaglie occupano un posto di rilievo in molti dei suoi romanzi, essi semplicemente non sono mai al centro tematico del libro. Nei libri della Bujold la guerra accade, ma non è di guerra che essi parlano.

E' chiarissimo a questo punto che Lois McMaster Bujold, per quanto spesso venga inserita fra gli scrittori di fantascienza militare, è lontanissima sia dalle posizioni critiche e caustiche di Norman Spinrad e dal realismo crudo e antimilitarista di Haldeman, quanto dalle posizioni aggressivamente militariste di un Pournelle o di un Saberhagen. Non sorprende affatto che, venduta come "fantascienza militare", la sua produzione abbia brillato per profondità, umanità, assenza di fanatismo. La fantascienza militare si confronta, in un modo o nell'altro, con le ombre del passato: facendone presagi di un'apocalisse futura, condannandone le propaggini nel presente, oppure negando che di ombre si tratti ma lodandone solo gli aspetti positivi di eroismo e liberazione. Ma la Bujold non ha mai avuto intenzione di parlare del passato. Non è la paura della Bomba o il ricordo del Vietnam che fa sì che Miles aspiri a una carriera militare, ma preoccupazioni del tutto diverse (che speriamo di chiarire in seguito).

Inoltre, la Bujold possiede una dote rara e preziosissima: in una parola, l'umorismo. Non è solo questo a fare di lei un caso a parte, ma certo l'approccio ironico, lo spirito a volte caustico dei suoi personaggi, il loro affrontare anche le situazioni più drammatiche con una battuta sulle labbra, le loro qualità di giocolieri e prestigiatori con cui spesso si salvano la vita, sono a tal punto una parte integrante non solo del suo stile, ma del suo modo di raccontare, da spegnere sul nascere qualunque tentazione predicatoria, in un senso o nell'altro. La Bujold non ha prediche da fare, non ha ideologie da propagandare, non ha verità da rivelare né profezie da annunciare né morali da imporre. (Il che non vuol dire, come chiariremo più avanti, che non possieda convinzioni forti che emergono dai suoi libri, ma sempre senza l'arroganza di chi deve diffondere un Messaggio). La verità e la profezia sono importanti. Ma i libri della Bujold fanno ridere.

3. l'età d'oro della fantascienza

Viene spontaneo, a questo punto, chiedersi a cosa debba, la Bujold, questa benedetta innocenza dalle polarizzazioni ideologiche che affliggono la sua particolare nicchia di marketing editoriale. In una serie di note biografiche contenute in Dreamweaver's Dilemma, un libretto pubblicato in origine per la sua comparsa come Guest of Honor alla Boskone Convention nel 1996, dice fra l'altro:

"La fantascienza avventurosa è quello che mi sono trovata davanti quando ho cominciato a leggere, da adolescente. E' stato il mio imprinting. Fra le primissime cose che ho letto c'erano i racconti di Flandry [di Poul Anderson, N.d.T.], il primo Heinlein, Asimov (i gialli con R. Daneel Olivaw: Abissi D'Acciaio e Il Sole Nudo)... se v ogliamo parlare della tradizione del giallo fantascientifico, be', quelli sono stati i due romanzi di Asimov che mi sono piaciuti di più, molto più della Trilogia della Fondazione... insomma, i racconti che pubblicava Analog nei primi anni Sessanta, erano quelli la mia passione e la mia gioia.

Quando ho cominciato a scrivere era lo spririto di avventura di quegli anni, gli ultimi Cinquanta e i primi Sessanta, che cercavo di ricatturare, ciò che si scriveva prima dell'avvento della New Wave. La New Wave ha segnato per me una linea di confine; è stato proprio sulle soglie di quel periodo durante il quale la fantascienza si è fatta letteraria che ho smesso di leggerla. L'ho fatto per un sacco di ragioni diverse ma comunque sia, la fantascienza che mi è rimasta dentro è stata quella dei primi anni Sessanta e naturalmente dei Quaranta e Cinquanta, che si trovava ancora sugli scaffali da cui pescavo a quei tempi. Quindi si può dire che le mie radici si trovano in quel periodo.

Mi sono sfuggiti tutti gli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta perché in quel periodo stavo leggendo altre cose, le cose che mia madre aveva sempre pensato che avrei dovuto leggere invece della fantascienza. [...]

Per cui quando è cominciata a circolare quella letteratura pessimista e letteraria, io ho smesso di leggere. Non la amavo, e non cerco di riprodurla, di ricrearla, per una nuova generazione di lettori. Mi richiamo a qualcosa di più vecchio ma anche di più brillante, di più vivace, anche se inevitabilmente filtrato dalle esperienze della mia vita, che ha avuto delle svolte curiose e quindi ha portato anche la mia arte in direzioni curiose. Non si può, in tutta coscienza, ritornare allo stesso livello di innocenza che era possibile nel 1964."

Cosa c'era sugli scaffali in quegli anni? Cosa ispirava tanta passione, ed è in grado di evocare ancora tanta nostalgia? In poche parole, c'erano le intuizioni e la creatura, una rivista, dell'uomo che ha contribuito in maniera decisiva a fare della fantascienza ciò che adesso chiamiamo con questo nome: John W. Campbell jr., direttore di Astounding Science Fiction (poi Analog Science Fiction). Analog esiste tuttora (molti dei romanzi della Bujold infatti compaiono come serial proprio sulle sue pagine) e rappresenta ancora un bastione della fantascienza pura, la hard science fiction scevra da contaminazioni fantastiche. Ma nei suoi primi anni, da quando Campbell ne assunse la guida nel 1937, quando era a tutti gli effetti pratici l'unica rivista di fantascienza "seria" del settore (benché in confronto alla successiva New Wave la letteratura di Astounding potesse sembrare goffa e poco sofisticata, era comunque di molto superiore a quella che veniva pubblicata sulle pagine delle contemporanee riviste pulp), Astounding ha coltivato il talento di scrittori come Robert Heinlein, Isaac Asimov, Alfred Van Vogt, Poul Anderson, Eric Frank Russell. Era più di una rivista che ospitava narrativa: era un punto d'incontro per visionari, certo visionari che rappresentavano agli occhi del resto del mondo una minoranza di spostati (non che le cose siano poi cambiate di molto!) ma animati da un incrollabile entusiasmo per il futuro e da una fede profondamente ottimista, condivisa e sostenuta dagli esuberanti editoriali di Campbell, negli effetti benefici della scienza e della tecnologia.

Molti degli elementi che componevano lo "spirito" campbelliano si ritrovano (certo, modernizzati e rielaborati) nella scrittura della Bujold: la capacità di tratteggiare una storia futura convincente, che considera non solo gli aspetti di innovazione tecnologica ma le implicazioni sociali e politiche di tali tecnologie; il tono robustamente ottimista, positivo; la presenza di azione e avventura che però non vanno a scapito di una caratterizzazione convincente; soprattutto, la voglia e la capacità di credere nell'uomo, nella sua fondamentale onestà, competenza, capacità di prevalere su sfortuna e ignoranza per edificare un futuro migliore.

Dunque, ecco il segreto: Lois McMaster Bujold si ispira, si richiama, e riesce miracolosamente a riportare in vita una fantascienza più innocente, più ingenua, (anche se già più smaliziata di quella pulp che l'aveva preceduta) ma anche straordinariamente fresca e audace, capace di una fede incrollabile in se stessa, la fantascienza dell'Età d'Oro, di Heinlein, Asimov, Van Vogt, Leiber. Questo è il tempo, più brillante e più vivace, che ha nutrito l'immaginazione di Lois McMaster Bujold: il grande momento di Astounding, sotto la guida illuminata di John W. Campbell jr., l'epoca in cui gli scrittori di fantascienza, come i suoi lettori, erano giovani, ottimisti, e fiduciosi. L'età dell'innocenza, prima che tante speranze si rivelassero illusioni, prima del cinismo, del pessimismo, dell'angoscia; quando, come dice Douglas Adams, gli uomini erano veri uomini, le donne erano vere donne, e le piccole creature pelose di Alpha Centauri erano vere piccole creature pelose di Alpha Centauri.. Prima che diventasse necessario incensare o avversare la guerra - perché si era certi, allora, che la si sarebbe vinta.

Lois McMaster Bujold fa parte integrante di quella storia. E' significativo che tanti dei suoi romanzi ancora adesso compaiano per la prima volta a puntate su Analog. Benché non si possa, a rigore, definirla una scrittrice di fantascienza hard, rivive in lei in pieno lo spirito di Campbell: la fiducia incrollabile nella capacità dell'uomo di progredire, di conquistare con le sue forze maturità, indipendenza, autodeterminazione, e felicità.

Questo è probabilmente il segreto della sua grande popolarità: inoltre, la Bujold aggiunge una capacità di creare personaggi non solo convincenti ma di una irresistibile simpatia che pochi fra gli scrittori dell'Età d'Oro possedevano. Al centro dei loro interessi, infatti, stavano le idee più che le persone, e spesso (basti pensare ad Asimov) i personaggi non erano che bocche recitanti tali idee. I dialoghi della Bujold al contrario sono scintillanti, incredibilmente vivi e vivaci, capaci di infilare battute memorabili anche in momenti tragici senza per questo rovinarne l'atmosfera con l'introduzione gratuita di un tono da commedia. Nei libri della Bujold abitano persone reali, forse a volte un po' sopra le righe ma che di certo non possono lasciare indifferenti, e pensiamo non solo all'energia maniacale di Miles (In fondo Miles ha molto dello scrittore di fantascienza dell'Età d'Oro: una fiducia sconfinata nelle possibilità dell'immaginazione, la convinzione di fondo, molto Campbelliana, che ciò che si immagina abbia esistenza reale e possa cambiare il mondo. Con la sua fantasia Miles inventa e rende reale il suo alter ego, l'Ammiraglio Naismith, età diciassette anni, altezza uno e quarantcinque centimetri, ossa fragilissime, spina dorsale contorta... e lo fa trionfare su tutto e su tutti), ma alla personalità mercuriale di Aral Vorkosigan, al pragmatismo invincibile di Cordelia, perfino alla follia sadica di Ges Vorrutyer (al quale la Bujold pure fornisce alcune buone ragioni per l'eziologia dei suoi eccessi).

4. tradizionalismo progressista e conservatorismo paranoide

Ma come è possibile tornare così, da un momento all'altro, come scesi da una macchina del tempo, nell'Età d'Oro? Come lei stessa ha detto, non siamo più innocenti come nel 1964. Allora era possibile credere nelle magnifiche sorti e progressive della razza umana, nella Nuova Frontiera, nelle possibilità salvifiche della tecnologia, in tutte queste cose dolci e grandiose, e teneramente eroiche. E ora?

Ora, come fa Miles, si tratta di dare corpo alle nostre fantasie, e di farle vincere su tutto e su tutti. Si tratta di riconquistare certezze, di ritrovare un centro, di ricostruire un mondo. In fondo la parte "ottimista" della fantascienza militare è una specie di degenerazione dello spirito dell'Età d'Oro: il concentrasi sul sogno, sull'eroismo, sulla fede, pensando che possano bastare a far avverare come per magia un futuro perfetto. Ma non è così.

Memory parla esattamente di questo. Di accantonare le fantasie, per quanto grandiose, e di costruire invece un mondo solido e pieno di senso. Limitarsi ai sogni di gloria, senza gettare le basi concrete per il futuro, ingorando i proprio limiti, in Memory non è più abbastanza. L'eroismo militare, in Memory, non basta più. Con Memory la Bujold tenta un'operazione audace e, per uno scrittore che con il proprio lavoro deve vivere, rischiosissima: quella di scrollarsi di dosso con decisione ammirevole la camicia di forza di un'etichetta, di una definizione di marketing ("fantascienza militare") che se all'origine era approssimativa alla fine è diventata del tutto gratuita. Con Memory, e accompagnata da una buona dose di coraggio, la Bujold inizia una nuova vita, prendendo una direzione completamente nuova. Ma che la sua direzione non fosse mai stata quella di Niven e Pournelle era, a chiunque avesse gli occhi per vedere, già molto evidente.

Non è un caso che questa "scrittrice di fantascienza militare" singolarmente umanista e spiritosamente gentile sia una donna, e una madre. Al centro del sistema etico che si afferma nei suoi libri, ci sono in fondo valori squisitamente femminili: la famiglia, la continuazione della specie, il dovere come sentimento non astratto ma personale, e nel contempo non egoistico ma civile. Nessuno dei suoi eroi sarebbe in grado di sacrificare una persona a un'ideale, eppure (o forse proprio per questo) sono tutti degli inguaribili idealisti. Quando Aral Vorkosigan sta pensando di accettare l'incarico di Reggente e tutti i pericoli che esso comporta e dice a Cordelia: "Non era certo questo il tipo di vita che ti aspettavi quando sei venuta qui," Cordelia risponde piuttosto bruscamente: "Non sono venuta per una vita. Sono venuta per te."

Quando Cordelia decide di affrontare, praticamente da sola, l'usurpatore Vordarian, lo fa non per la salvezza di Barrayar o per il destino dell'Universo ma per suo figlio, tenuto in ostaggio: per lei, le due cose sono intrinsecamente inseparabili. Quando Miles, alla fine, abbandona i suoi sogni di gloria, la prima cosa che desidera, il suo primo obiettivo, è la famiglia, la sua famiglia. Si badi bene che quello che rende straordinariamente moderna questa morale di valori familiari è quello che non sono. Non sono un richiamo pedissequo alla tradizione. Anzi, i sostenitori della tradizione sono tutti, nell'universo della Bujold, personaggi negativi: Vordarian, un onesto conservatore che precipita Barrayar in una guerra civile perché si contrappone al "radicale" Vorkosigan (in Barrayar); Piotr Vorkosigan, che rifiuta e cerca di uccidere il nipote per le sue infermità fisiche (ancora in Barrayar), il temibile principe Serg e il suo amico e sodale Ges Vorrutyer, trasparentemente sostenitori di un Impero assolutista (Shards of Honor); Ma Csurik, che in Mountains of Mourning si oppone in tutta la sua tetragona, oscurantista grandezza al progresso della sua gente di montagna verso tempi più umani, più gentili, più illuminati; perfino Ser Galen, che sulla carta sarebbe un rivoluzionario, conduce la sua guerriglia in nome di un ordine oligarchico abbattuto da Barrayar, non certo in nome di una rivoluzione liberale (Brothers in Arms). Nonostante il suo carattere superficialmente feudale Barrayar non è, infatti, un bastione dell'assolutismo e della chiusura al nuovo; piuttosto una entità politica che tenta di rifondare i rapporti sociali sulla base di una rete familistica di lealtà e obbligazioni personali. I Vor servono; non obbediscono. E' un'etica di responsabilità civile, non di sottomissione a un principio di autorità, che anima tutti i personaggi positivi dell'universo di Miles - a cominciare da Miles stesso, questo incoercibile insubordinato (che qualunque Imperatore autocratico degno di questo nome avrebbe già fatto giustiziare da un bel pezzo, amico d'infanzia o no...).

Abbiamo parlato di valori squisitamente femminili: si noti anche che quello che unisce e condanna tutti i personaggi negativi della Bujold non è solo l'attaccamento cieco e assoluto alla tradizione, ma più specificamente è il rifiuto del proprio dovere biologico di procreare e poi proteggere i propri discendenti; Vordarian rapisce e minaccia i bambini (la piccola Elena, Miles, l'ancora non nato Ivan, perfino Gregor); Piotr rifiuta e cerca di uccidere il nipote; Vorrutyer abbraccia come credo di vita il sadismo sessuale, l'esatto contrario dell'ideale di sessualità procreativa e fondatrice di una società migliore che anima Cordelia e Aral; Ma Csurik uccide la nipotina. Un futuro migliore è annunciato, in Barrayar, e in modo molto significativo, dal replicatore uterino: la tecnologia al servizio della maternità, la sotterranea rivoluzione di quel fondamento della vita barrayarana che sono le sue donne, che intendono continuare a mettere al mondo figli ma non più, come il precetto biblico di una tradizione austera vorrebbe, come maledizione, ma come promessa di un futuro più umano.

Questo centro fermissimo del sistema di valori della Bujold è ancorato a una altrettanto ferma fiducia nel futuro: la certezza che il mondo che la successiva generazione erediterà sarà migliore. Nell'universo della Bujold gli Imperatori sono disinteressati e competenti, i Primi Ministri onesti e lungimiranti, i burocrati efficienti e dediti con costante attenzione al governo del presente e a una intelligente preparazione del futuro. E le donne partoriscono senza dolore.

Cosa c'è di più fantascientifico di questo? Cos'altro è la fiducia nell'uomo, la fiducia nel progresso, se non questo?

Ecco cosa permette alla Bujold di tornare tanto felicemente al passato dorato e decreta il suo incontrastato successo. La fiducia, a dispetto di tutto, nel futuro, nelle capacità dell'uomo di migliorarsi, di rendere il proprio destino più facile, più gioioso, più libero, più umano e più materno, con l'aiuto della tecnologia e della propria impavida conoscenza, sconfiggendo le paure, i pregiudizi, le atrocità di una tradizione ignorante: quando dall'indice di Amazing Stories di Hugo Gernsback Verne sollevava la propria pietra tombale per guardare con un viso nobile e austero alle meraviglie del futuro, era probabilmente questo che aveva in mente. E' questo che cercano, e trovano, i tanti lettori di fantascienza nelle opere di Lois McMaster Bujold.

Bibliografia

L' onore dei Vor (Shards of honor, 1986), Cosmo Argento, Nord 1996, L. 22000

La spia dei Dendarii (Ethan of Athos, 1986), Cosmo Argento, Nord 1996, L. 22000

Gravità zero (Falling free, 1988), Cosmo Argento, Nord 1990 (Esaurito)

Il nemico dei Vor (Brothers in arm, 1989), Cosmo Argento, Nord 1994, L. 18000

L' eroe dei Vor (Borders of infinity, 1989), Cosmo Argento, Nord 1992, L. 18000

Il gioco dei Vor (The Vor game, 1990), Cosmo Oro, Nord 1992, L. 22000

Barrayar (Barrayar, 1991), Cosmo Oro, Nord 1993, L. 24000

I due Vorkosigan (Mirror dance, 1994), Cosmo Oro, Nord 1995, L. 24000

Vor (ciclo dei) (Raccolta, 1996), I grandi cicli della fantascienza, Nord 1996, (esaurito)

Cetaganda (Cetaganda, 1996), Cosmo Oro, Nord 1996, L. 22000

Memory (Memory, 1996), Cosmo Oro, Nord 1997, L. 24000

L'apprendista (The Warrior's Apprentice, 1986), Urania, Mondadori 1993

Terra di incantesimi (The Spirit Ring, 1992), Urania Fantasy, Mondadori 1994

Per gentile concessione dell'Editrice Nord.