Anna F. Dal Dan è stata, negli anni '90, la traduttrice di riferimento per le maggiori space opera del periodo, da Lois McMaster Bujold a Iain M. Banks: dobbiamo ringraziare lei se ancora leggiamo (magari recuperandole su qualche bancarella) quelle opere fondamentali per capire in che direzione va la space opera odierna.

Ora con Senza un cemento di sangue regala all'Italia quella che forse è la prima space opera nostrana dal respiro internazionale, un romanzo in cui l'autrice mette a frutto tutta la sua esperienza e la sua passione per il genere.

Lo fa costruendo uno scenario smisurato, che si estende per secoli (forse millenni) e lungo rotte interplanetarie lontanissime dal nostro pianeta: 

Trovarono il pianeta adatto appena al di qua del confine dell’inabitabile, i Say, dove la trama di stelle si dirada e la vita umana torna possibile, fuori dal dominio infuocato del buco nero che consuma la Galassia e che gli esploratori del tempo chiamavano familiarmente e con un tocco di scaramanzia il Vecchio Porco. Lo trovarono dalla parte opposta rispetto alla Terra, ma erano gente per cui tutto ciò che è opposto alla Terra non poteva essere che buono: il tradimento bruciava ancora, a quei tempi.

Non era in nessun senso in posizione centrale: non rispetto alla Galassia, non rispetto al territorio allora controllato dagli uomini e dalle donne della Riconquista, né – anche se non lo potevano sapere – sarebbe mai stato centrale al territorio dell’Impero. Perfino nella sua provincia, che in questi tempi di decadenza era solo una provincia della Federazione di Tyros, uno Stato fra gli altri, il pianeta che gli esploratori della Cirte avevano chiamato Il Centro si trova spostato da un lato. Era tuttora il pianeta abitato più vicino al confine del Core. (Capitolo 4 – Il Centro dell'Universo)

La trama prende le mosse nel periodo di decadenza del Centro, sottomesso alla tirannia del regime tyrosiano e agitato dalle rivolte dei Pianeti Esterni. Cinque anni dopo una sanguinosa rivoluzione che ha quasi rovesciato il tiranno di Tyros, Jas Laney, ciò che resta degli insorti è qualche migliaio di ragazzi poco più che ventenni dispersi per la Galassia, riuniti in sparuti gruppi i cui contatti sono molto rischiosi e tenuti insieme dalla clandestina Radio Dikea.

È a questo punto che facciamo la conoscenza dei nostri protagonisti: Thuien Twony, la giovane ribelle dalla pelle nerissima e gli occhi arancioni che è quasi riuscita ad uccidere Laney e il suo braccio destro, Creyna; Nikla Kimaxi, brillante matematico e infiltrato nella Stazione ARRAS, snodo fondamentale per il traffico tyrosiano; lo stesso Hayderad Creyna, tornato dalla morte e deciso a uccidere Twony per vendicare i suoi compagni Say e l'onore del Centro e della Cirte. A loro si affiancano una serie di comprimari e comparse tutti caratterizzati con la medesima cura.

Difficile riassumere in poche righe le vicende narrate in qualche centinaio di pagine, perché l'autrice chiede tanto al lettore, procede per ellissi, sottintesi, non concede nulla all'infodump, e solo procedendo caparbiamente nella lettura comincia a chiarirsi il disegno di quello che, più che un affresco, definirei un mosaico. Io ho cominciato a capirci qualcosa dal quarto capitolo (intitolato Il Centro dell'Universo e posizionato, non per caso, al centro del romanzo) e da lì in poi tutte le tessere sono andate gradualmente al loro posto.

Non potendo sintetizzare la trama, dirò invece che il romanzo mi ha colpito – cambiando metafora – per la profondità di campo: procedendo nella lettura vengono a fuoco sempre più elementi della storia di questo universo, lasciando intendere un lavoro di worldbuilding che non ha nulla da invidiare alle più blasonate opere anglosassoni.

E poi i personaggi: non ci sono buoni e cattivi – alternando i punti di vista dei protagonisti veniamo a conoscenza delle ragioni di ciascuno, colonizzatori traditi, rivoluzionari sconfitti, spietati torturatori, ognuno spinto dalle sue idee e dalla sua morale, che in condizioni estreme spinge ad atti violenti e disumani:

Solo che ora, mentre [Twony] cercava la sua vittima con una certa urgenza fra le pareti di finto ottone del modulo, Ara era troppo presente, troppo vicino, Ara e lo sguardo sgomento che aveva avuto quando in quella sciagurata estate di Chashanna di tanti anni prima gli aveva detto che aveva varcato quella frontiera, che aveva perso la sua innocenza, che l’aveva tradito, lui e se stessa e il comune vincolo dell’umanità che lega tutti i viventi. Che aveva ucciso un uomo, che non era pentita e l’avrebbe fatto ancora. (Capitolo 4)

Tra questi, Creyna è il personaggio che spicca con maggiore potenza sulla scena del romanzo con il suo fascino terrificante e una morale del Grande Inquisitore che non concede la morte alle sue vittime finché, sotto indicibili torture, non arriveranno a rinnegare ciò che sono stati e abbracciare la giustizia del loro torturatore.

Finalista al Premio Urania nel 2000, si narra che il romanzo fosse stato giudicato troppo duro e cupo per il pubblico italiano; personalmente ho il sospetto che abbia influito anche la difficoltà iniziale, considerando la media degli Urania dell'epoca, molto più potabili e scorrevoli nella lettura; ma è indubbio che Senza un cemento di sangue lasci il segno anche per le lunghe scene di tortura, mutilazione, stragi di innocenti, che certamente non avranno giovato nella scelta.

Il pubblico di allora non era pronto? Essendo allora parte di quel pubblico, dire di sì, lo eravamo, anzi, avevamo bisogno di un romanzo così tra un biplano del Vate e un cuoco d'astronave. Peccato che Urania non se ne sia accorta in tempo, perché uno dei limiti di Senza un cemento di sangue è quello di presentarsi come un romanzo di fine anni '90 in un panorama che ha conosciuto Ann Leckie, Aliette De Bodard, Richard K. Morgan; penso alle potenzialità di un upload mentale nell'universo di Anna Dal Dan, o alla possibile esplorazione di una civiltà come la Cirte, fondata dai primi coloni afroamericani che, in seguito all'abbandono da parte della Terra, hanno cancellato ogni tratto somatico che li collegasse al Pianeta Madre:

I Cirtiani avevano reagito con l’ammutinamento e il massacro dei loro ufficiali, e con secoli di lotte razziali. Ma ad un certo punto si erano spogliati della loro identità, della loro lingua, della loro religione, di tutto quello che li poteva dividere, e avevano finito per forgiare una coesione così forte, una società così compatta, da diventare la maggiore potenza economica e militare della Galassia. Avevano deliberatamente cancellato dal proprio genotipo ogni caratteristica fisica che potesse ricordare una razza. Erano diventati bianchi per eliminazione quanto possibile radicale del gene che codificava la melanina – e non senza rabbia. Si erano inventati una lingua artificiale. Avevano continuato a porgere rispetto formale alle religioni che si erano portati dalla Terra, ma ponendo sopra a tutto la loro fede in sé stessi. Erano partiti militari e lo erano tornati, ma in modo molto più radicale. Erano tutti uguali, simili a quelli che li avevano traditi; erano senza radici se non in quel suolo nuovo e arido; erano forti, e se nessuno di loro era libero, nemmeno nell’intimità della propria mente, era perché l’unione che aveva garantito la loro sopravvivenza doveva essere perfetta. Avevano abbracciato un sistema di controllo sociale di assoluta ferocia fisica. Erano forti e giusti, e molto pericolosi.

Amando la space opera soprattutto per i suoi contenuti antropologici, mi sarebbe piaciuto leggere di più di questa civiltà, ma mi auguro che ci saranno presto altre occasioni, anche se l'autrice ha ormai optato per la scrittura in inglese.

Un'ultima nota sullo stile, curato e ben dosato per ottenere ora effetti incalzanti, ora drammatici, ora scabrosi, con una predilezione per le figure della ripetizione: per l'anafora, l'anadiplosi, il poliptoto, le formule ternarie, che enfatizzano i momenti più significativi con un tono solenne e poetico. Retorico, come le canzoni di Shai Krailin Shiela, il poeta rivoluzionario ricordato nella sigla di Radio Dikea: 

Era una canzone semplice e anche piuttosto retorica, ma in fondo Shai era stato un uomo semplice e anche piuttosto retorico e Twony, che pure la retorica odiava, nel suo caso sentiva di poterla giustificare. Perché quando stanno per travolgere il governo rivoluzionario di cui hai fatto parte, hanno massacrato i tuoi sostenitori e distrutto le tue speranze, stanno marciando sulla capitale per venirti a prendere e passare per le armi con i tuoi compagni, per imporre con il sangue e con il terrore una svolta verso tutto ciò che deplori, insomma, forse un tantino di retorica te la puoi concedere. E se hai quel dolore e quella disperata speranza nella voce mite; se sei uno che non ha mai fatto o voluto male a nessuno e ha cercato fino all’ultimo di negoziare con i tuoi nemici; se vieni preso e i tuoi compatrioti ti spezzano a colpi di calcio di fucile le mani sulla balaustra di marmo del palazzo del governo dalla quale hanno appena scaraventato giù i tuoi compagni che laggiù sul selciato stanno finendo a calci, e poi ti chiedono come farai adesso a suonare; e se ti portano via verso un destino che solo i Say conoscono per certo ma che tutto il resto della Galassia immagina benissimo, un po’ di retorica ti viene perdonata. E succede che anni dopo gente che non ha neanche una goccia di sangue in comune con te ma molti altri motivi di sentirti vicino prende il tuo ultimo disperato invito all’universo a non piangere per te ma a continuare la lotta e ne fa la sigla delle proprie trasmissioni radio clandestine. La Radio Dikea. E i discendenti dei tuoi compatrioti, quelli che ti hanno spezzato le mani e torturato a morte, la mettono fuori legge e chiunque venga pescato ad ascoltarla passa dei seri, seri guai. Anche se veste l’uniforme di Tyros.

Senza un cemento di sangue è un'opera prima ricca di potenzialità, anche se non tutte sono espresse al meglio: ad esempio avrei apprezzato una maggiore centralità del problema matematico a cui si dedicano Creyna e Nikla, dietro cui intravedo un'interpretazione filosofica del romanzo: la realtà è una sola o è frutto delle molteplici letture che ne diamo – o imponiamo con la forza?

È un romanzo che trasuda amore per gli autori cari ad Anna Dal Dan, dalle Menti artificiali delle navi (qui messe al bando) di ispirazione banksiana al titolo dell'ultimo capitolo, Immunità diplomatica, che rimanda alla Bujold.

Insomma, un'opera che consiglio assolutamente di leggere, tenendo duro quando sembra troppo ostica, perché alla fine della lettura resta il desiderio di leggerne ancora. Speriamo solo di non dover aspettare altri diciassette anni.