Tea C. Blanc è lo pseudonimo di una scrittrice comasca, che vive tra la città lariana e la Svizzera. Ricercatrice bibliografica e antiquario, scrive racconti e articoli per diverse riviste digitali e cartacee. Collabora regolarmente con il Giornale POP, Andromeda, Cose da altri mondi e suoi saggi sono apparsi anche sulla rivista Lost Tales – Andromeda curata da Alessandro Iascy.

Nel 2018 ha pubblicato un racconto di genere fantastico Villa e giardino in vendita per le edizioni Dell’Angelo e, quest’anno, alcune brevi storie e articoli sulla rivista trimestrale Nova, oltre a un testo edito nell’antologia Racconti a tempo (Il Rabdomante).

Con Tea parliamo della sua attività di scrittrice e del romanzo d’esordio Mondotempo. Storia archeoinformatica (Watson Edizioni, collana Andromeda, € 16,00, presto anche in ebook), opera narrativa che scardina i generi letterari e spazia tra esoterismo e notevoli spunti fantascientifici.

Come ti sei avvicinata alla scrittura e quando hai deciso di intraprendere questa attività? 

Scrivo da sempre, da quando ho avuto padronanza dell’alfabeto. Dell’età prescolastica ho ricordi molto nebulosi, cominciano ad arrivare nel momento in cui inizio a leggere e scrivere. Ripensandoci adesso, grazie alla tua domanda, mi viene in mente che con ogni probabilità la mia facoltà di memorizzazione sia cominciata con l’apprendimento delle lettere e dei numeri.

Ho scelto però un lavoro che mi ha assorbito più del tempo a disposizione, e quindi non ho mai potuto scrivere in modo sistematico. La cosa mi è sempre pesata e mi causava un nemmeno tanto sottile “senso di malessere”, prontamente rintuzzato ogni volta che si presentava. Rimediavo con la poesia, scrivendo liriche che memorizzavo e continuavo a “scrivere” mentalmente nei ritagli di tempo, per esempio guidando, oppure in quelle faccende ordinarie chiamate tempi morti come per esempio l’attesa a un appuntamento o lo stendere i panni. Pur non essendo poeta, la poesia mi è servita molto per imparare a scrivere perché è una meditazione profonda su ogni singola parola. Quando sono approdata all’haiku, infatti, ho trovato la mia dimensione.

Nel momento in cui le cose si sono evolute in modo tale da lasciarmi del tempo, l’atto naturale che più mi è venuto è stato quello di cominciare a scrivere racconti e articoli, piccoli saggi, divertissement, scorrerie letterarie.

Una cosa, però, non avevo mai scritto: pezzi giornalistici. Un articolo giornalistico si scrive con un’ottica, obiettivi e un linguaggio diversi da qualsiasi altra forma letteraria. Il banco di prova è stato la rivista digitale Giornale Pop di Sauro Pennacchioli, un giornalista professionista oltre che sceneggiatore dal vasto curriculum. Con lui mi sono misurata in un terreno che non avevo ancora sperimentato, a volte “litigandoci” quando difendevo posizioni che sarebbero andate bene per altre locazioni ma non per una piattaforma di carattere giornalistico, più spesso imparando. È stata e continua a essere sempre una ricca esperienza, fonte rinnovante per molti versi, anche da un punto di vista logistico. Saper condurre una rivista non è un’impresa facile.

Non appena si è aperto il giusto varco temporale, ho iniziato a scrivere il primo romanzo, a cui ne è seguito un secondo ancora non pubblicato. Ora sto lavorando alla stesura di un saggio in cui il protagonista è stato una figura chiave nel panorama fantascientifico, e non solo in quello. Durante alcune ricerche mi sono imbattuta in un suo inedito, sconosciuto, che vorrei portare alla luce.

Quali opere ami come lettrice e quali ti hanno formata come autrice, con particolare riguardo al genere fantastico e fantascientifico? 

Alla letteratura fantascientifica mi sono avvicinata relativamente da poco. L’estrazione culturale da cui provengo non includeva aperture verso il fantascientifico, o quantomeno verso il fantascientifico che non fosse “santificato”. Quindi, all’origine, più che alla letteratura fantascientifica c’è stato da sempre un mio personale avvicinamento a quella fantastica, in ogni sua declinazione.

Credo che il primo approccio fantascientifico non sia stato letterario, ma cinematografico: ho un ricordo di bambina in cui una sera diedero alla televisione un film che mi aprì voragini di domande. Ero già una donna, e quindi solo molti anni dopo, quando scoprii che quel film era la versione tratta da un’opera letteraria. Il film era stato girato da François Truffaut e portava lo stesso titolo che l’autore del romanzo da cui proveniva, Ray Bradbury, gli aveva dato: Farenheit 451. Un classico. Ray Bradbury è senz’altro tra gli autori che si sono insinuati nel tempo, e naturalmente non l’unico.

Non sarò molto originale nella lista e non dirò nulla di nuovo ai forti lettori di letteratura fantascientifica, infatti invidio a questi ultimi la profonda conoscenza in merito proveniente da una vita di letture a tema; d’altra parte mi rendo conto ancora una volta che nella maggior parte dei casi, come per esempio nel settore antiquario, è il collezionista a conoscere a fondo un argomento. Di solito conosce quello specifico tema e poco altro, ma lo conosce nei minimi dettagli. L’addetto ai lavori, invece, deve apprendere le linee generali di tutto.

Il Ciclo delle Fondazioni di Isaac Asimov, i suoi romanzi e i racconti, i suoi saggi; la tetralogia di Odissea nello spazio di Arthur C. Clarke e tante, tante altre sue opere; gli spettacolari racconti di James Graham Ballard, e non solo; Richard Matheson; Aldous Huxley in prosa e in saggistica. Questi sono alcuni dei primi autori a cui mi sono accostata. Quando ho incontrato Samuel Ray Delany c’è stato uno sconvolgimento: “Ah, ma allora è anche così!” mi son detta. Dopo non è stato più lo stesso, forse perché son partita con Dhalgren. Doris Lessing.

E prima di questo ci sono stati tanti altri autori che con una fantascienza strettamente denominata forse non c’entrano nulla, ma il cui immaginario fantastico ha dato luogo a capolavori: Jorge Luis Borges, Dino Buzzati, Guido Morselli e Anna Maria Ortese, Oscar Wilde, Michail A. Bulgakov, Franz Kafka.

E prima ancora i precursori: Jules Verne, Samuel Butler, Edward Bellamy, Edgar Allan Poe, i futuristi… Ma è una lista inutile perché, per ogni nome, faccio torto profondo ad almeno cento che ho letto.

In realtà, dal momento che parli di formazione, non posso non pensare ai meravigliosi libri letti che con il fantastico nulla hanno a che fare o con la montagna di saggistica che mi sono passata, orientata su discipline diverse.

Sei molto attiva su siti e riviste di fantascienza, come Andromeda e Cose da altri mondi. Quando è nata la tua passione per la science fiction?

A parte momenti episodici nel tempo in cui mi poteva capitare di leggere qualcosa di attinente, a un certo punto si è verificato un intenso rigetto nei confronti del passato: una sorta di sviluppo interiore, come mi auguro sempre accada nella vita di tutti, che porta a cambiare. Più che cambiare, forse affinare il tiro descrive meglio: era necessario modificare la prospettiva per continuare a restare in un equilibrio oggettivo con la mia realtà e la realtà che sta là fuori. Ormai anche accreditati studiosi e scienziati in ambito fisico quantistico hanno convenuto che è l’individuo, la sua coscienza, a dare corpo alla realtà e a formularne la costruzione, intendendo con questo che la realtà è come la pensiamo. Sradicando per altro l’idea che la morte sia fine di tutto. Ma di questo ci sono tradizioni antiche che ne parlano, solo che la mentalità occidentale, per il percorso storico e culturale che ha avuto, ha bisogno di teorie scientifiche comprovate per arrivare a comprenderlo.

Ammesso che si tenga buono questo, appare evidente che gli esseri umani, qualunque sia la cultura a cui appartengono, vagano dentro una realtà fatta di consensi comuni che non descrivono la realtà, ma sono solo mappe di orientamento collettive. Se il consenso comune stabilisce che l’erba debba essere di colore verde, ci sarà una realtà di erba verde. Il problema inizia quando l’individuo, la sua coscienza, accetta che l’erba sia verde pur vedendola di un colore diverso, e ci crede.

Quando una volta ho scritto che la folla si esprime in modo elementare e in termini di convinzioni personali (mentre l’essere umano cerca), intendo la deriva di un consenso fittizio di cui non si ha coscienza, o si è dimenticato che è fittizio, e lo si propugna come realtà. Che non è. Questa realtà fittizia pensata dalla folla, e scaturita da una mera convenzione ma data per buona, è potenzialmente pericolosa perché crea bolle di incoscienza che possono portare a movimenti collettivi acefali e criminali. Pericolosi perché nel momento in cui gli equilibri sono persi possono creare atrocità o l’omicidio, ma il singolo individuo appartenente alla folla non se ne sente il diretto responsabile, cioè rimuove il contributo che ha fornito al prodotto sfociato dalla folla. È la vecchia storia di chi è il colpevole: il mandante o l’esecutore?

Per esempio, la tacita e indiscriminata adesione a quel fenomeno contemporaneo a cui stiamo assistendo, chiamato globalizzazione, ha potenzialità molto pericolose perché sta creando folle enormi votate a consensi comuni di cui si è persa coscienza e che celano la realtà, oltre a non promuovere una ricerca personale (ci metto dentro anche la letteratura); un fenomeno preoccupante perché è facilmente manipolabile. È sufficiente che qualcuno sappia tirare i fili di una folla per muoverla, l’unica speranza è che questo qualcuno abbia intenti benefici, anche se ovviamente si presenta come una soluzione tutt’altro che desiderabile.

Ora, le letterature fantastica e fantascientifica di finzione si prestano alla descrizione di questo difficile interscambio e delle sue implicazioni perché permettono di partire da ipotesi, spesso impossibili o irreali (almeno per il consenso comune), rendendole plausibili, e mostrando in tal modo che cosa potrebbe succedere se. Creano metafore potenti perché provengono da visioni personali. Suscitano domande. Cercano.

Anche le visioni personali cambiano, perché nel corso della vita c’è evoluzione e quello che si presenta all’inizio come materia rozza nel tempo assume forme più definite ed elegantemente sfaccettate. Nel momento in cui si è verificata l’impellenza di modificare la mia vecchia visione ho cominciato a interessarmi in modo sistematico alla fantascienza. È probabile che prima di quel momento non fosse stato necessario.

Mondotempo è il tuo primo romanzo. Com’è originata l’idea che ne è alla base e quali difficoltà hai incontrato nella stesura del testo? 

È stato un processo lungo alla cui base si sono mosse diverse necessità, sia di contenuto che di forma. Troppe necessità, a dire il vero, col rischio di “andare fuori tema” ogni volta che ne affrontavo una o di prevaricare su una a discapito di un’altra o, peggio ancora, entrare in contraddizione. Una cosa avevo ben chiara: che il romanzo avrebbe dovuto essere comprensibile a chiunque, non importa se non avesse afferrato tutto. Per ottenere questo avevo bisogno di introdurre più chiavi di lettura, che andassero a soddisfare più tipologie di lettori: per esempio il fantascientista, il filosofo, lo psicologo, l’antropologo, lo scienziato nel senso di lettore le cui competenze sono scientifiche, l’addetto ai lavori nella fattispecie di teorico della letteratura o comunque chi si interessa dell’aspetto tecnico letterario, etc. etc. etc. e non ultimo il lettore che non legge “genere”.

Sulla forma c’è un discorso pregresso da cui è partito tutto e su cui dovrò dilungarmi un poco per evidenziarlo, perché sono dell’idea che in un romanzo (che non vuole essere sperimentale) non si possa fare lezione di teoria (né di filosofia o di qualsiasi altro motivo portante). Quella deve stare in altro loco e affiorare nella finzione senza che il lettore se ne accorga, perché diversamente se ne distruggono l’incanto della storia e la sua impalcatura immaginaria. E così spero sia con questo romanzo.

Che la forma narrativa del romanzo sia in costante evoluzione è innegabile e giusto, anzi doveroso, ma che la commistione saggistica arrivi al punto da interrompere la finzione e reciderla mi appare più come una furbata per allungare il numero di battute che non un elegante colpo di penna per lettori intellettuali. Se proprio questi lunghi capitoli non inerenti devono esserci, perché non fare delle belle appendici a fine volume che i lettori possano saltare con felicità evitandosi lunghe sessioni di lettura da cui se ne esce non frustrati, ma frustati? Forse uno dei pochi esempi relativamente contemporanei in cui un autore abbia saputo con-fondere finzione e filosofia (per citare un leitmotiv) e trarne una storia avvincente, commovente, profondamente umana e sorprendentemente filosofica è quella di Robert M. Pirsig e del suo viaggio in motocicletta. Ma resta un caso letterario, non una scuola di scrittura. Fatto il miracolo, il resto è emulazione.

Nel 2010 avevo partecipato a un dibattito per lo più tra scrittori su un libro uscito in quell’anno. Lo scrittore statunitense David Shields aveva pubblicato Fame di realtà. Un manifesto (Reality Hunger. A manifesto; Knopf, febbraio 2010). Da noi, in Italia, era uscito nello stesso anno per Fazi Editore con prefazione di Stefano Salis e traduzione di Marco Rossari.

Il testo fece scalpore nell’ambiente letterario e ottenne grande risonanza in patria (gli Stati Uniti), intellettuali di grosso calibro si schierarono oppure no a favore del manifesto. Stefano Salis lo definì addirittura “una delle opere più importanti di teoria letteraria pubblicate negli ultimi anni”.

Per dirla in breve con le inevitabili omissioni si tratta di un libro costituito da 618 citazioni, la quasi totalità delle quali provengono da autori diversi per forma letteraria, disciplina di competenza e tempi, legate in modo da costituire un filo argomentativo consequenziale. Il tutto senza indicare la provenienza delle citazioni, per cui il lettore non ha la minima idea di chi abbia detto o scritto né quando e in quale contesto. Nelle intenzioni dell’autore il volume avrebbe dovuto uscire senza un’appendice indicativa della provenienza dei testi utilizzati, ma lo studio legale dell’editore Random House aveva vivamente sconsigliato l’autore di farlo e quindi l’appendice era stata pubblicata, per altro incompleta perché l’autore stesso non ricordava la provenienza di tutte le citazioni. Mi sembra, però, che l’escamotage non gli impedì di collezionare un po’ di denunce.

L’obiettivo di Shields è dichiarare il trionfo del copia e incolla e del plagio, affermando: “Di chi sono le parole? Di chi è la musica e tutto il resto della nostra cultura? È nostra, di tutti, anche se per ora non tutti lo sanno. Non si può imporre un diritto d’autore alla realtà.”. Dato per buono, mi viene in mente che quando vado dal fornaio dovrei dire: “Di chi è il pane? Di chi la farina? È nostra, di tutti, anche se per ora non tutti lo sanno. Non si può imporre un prezzo alla realtà.”. Rifletto che quel fornaio si è alzato a notte fonda per infornare il pane, ha utilizzato energia elettrica per movimentare i macchinari che si è acquistato, ha assunto collaboratori per servirlo al banco. Pago il dovuto ed esco. Forse, a differenza dell’autore di Fame di realtà, io vivo nella “realtà della fame”, non so, però il buon senso mi dice qualcosa di diverso dal suo enunciato di teoria letteraria. Oltretutto, per bisogno di chiarezza, ai tempi avevo acquistato una copia del suo testo e a rigor di logica la prima domanda a nascere è: perché mi è stato fatto pagare? Se davvero le parole sono di tutti avrebbe dovuto essere distribuito in forma gratuita. A chi saranno andati i proventi? Tutti all’editore? Non ho ritenuto di dovermi informare.

Un altro motivo di fondo dell’autore verte sulla forma letteraria del romanzo: deve evolversi o è diventata inservibile ai bisogni contemporanei? Qui entrano in gioco varie provocazioni che non sto a enumerare, ma il succo rimane la contestazione al romanzo, alla sua forma, al suo status presente. Con l’invito agli autori a produrre qualcosa che stia al passo con i tempi. Insomma, su questo punto niente di nuovo.

A questa realtà che implicitamente descrive la situazione letteraria statunitense, nello stesso anno seguì un altro libro che i giornali definirono la risposta europea a David Shields e alla sua teoria: L’inferno del romanzo. Riflessioni sulla postletteratura (L’enfer du roman. Réflexions sur la postlittérature; Gallimard, 2010), scritto da un autore francese, Richard Millet. Non so se Millet avesse voluto per davvero rispondere a Shields con questa sua pubblicazione (non mi sembra di avere rintracciato un riferimento diretto, all’epoca, quando lo lessi), però uscì nel settembre del 2010, a distanza di pochi mesi dall’altro; tra l’altro pubblicato con il sostegno del Ministero della Cultura francese. In Italia venne dato alle stampe nel 2011 da Transeuropa, con nota prefatrice di Carlo Carabba. Si tratta di 555 frammenti provenienti dalla mente dell’autore, che via via mettono a nudo la situazione del romanzo, della letteratura, da un punto di vista non anglofono. È un fatto che Millet parli con disgusto di globalizzazione anglofona; di come osservi che il romanzo (per cui nutre amore) sia diventato uno “strumento di promozione, se non di dominio sociale”, chiamandolo “romanzo internazionale o postletteratura”. Ogni suo frammento è una verità corrosiva, una miniera di informazioni, un’analisi letteraria senza riserve. Naturalmente ha avuto parecchi detrattori.

Quando mi trovo di fronte a due poli antitetici, normalmente cerco un punto di unione che sappia individuare le ragioni delle parti per trovare una mia risposta che includa e superi entrambe le posizioni. L’anno dopo, nel 2011, uscì in Italia un notevole saggio di un italiano, Guido Mazzoni (credo che in questo momento insegni al dipartimento di Filologia e Letterature antiche e moderne dell’Università di Siena) dal titolo Teoria del romanzo, dove con un’analisi seria, lucida e accurata, fa una storia del romanzo per pervenire, infine, alla narrativa moderna e a una sua teoria. Anche qui ho trovato spunti molto interessanti.

Per rispondere alla domanda, su questi tre testi in particolare si è innescato un processo interiore da cui ha preso origine la struttura narrativa di Mondotempo, che non rispecchia le teorie formulate nei tre testi sopra, ma è la mia personale risposta alle domande aperte di oggi. E l’ho fatto dall’interno, cioè attraverso la stessa forma del romanzo.

Leggendo online alcune recensioni del tuo libro, ho notato una certa difficoltà a inquadrarlo in un genere o sottogenere preciso: sembra sfuggire a qualsiasi classificazione. Come lo definiresti?

Ho pensato di definirlo direttamente nel sottotitolo: storia archeoinformatica.

Quindi devo dedurre postinformatico? Il tuo conio, “ultradistopico”, è veritiero. Ultra, termine latino, significa “oltre”.

La storia è ambientata in un lontano futuro e in una società evoluta alla ricerca delle proprie radici collocabili in un evento catastrofico di cui si sa poco o nulla. Senza rivelare troppi dettagli, puoi parlarci un po’ della trama?

L’azione prende avvio da due figure, un nonno e il nipote, in cui l’adulto si apre al piccolo per raccontare storie del passato. Da lui veniamo a sapere che la moglie Iperborea, Bea per i familiari, è a capo di una struttura di ricerca in cui si analizzano antichi reperti informatici per scoprire da che cosa o da chi si è originata la società molto vicina a un livello ideale, o comunque fortemente avanzata, in cui si trovano a vivere.

Proprio in quei giorni si verifica la scoperta di un antico archivio digitale che tutti sperano sia, se non proprio decisivo, almeno importante. Da qui il nucleo centrale del romanzo si sposta sulla lettura dei documenti da parte di altri due protagonisti, assistenti di Iperborea, e che costituisce una storia dentro la storia.

Il romanzo è costellato da una lunga serie di citazioni. Mi riferisco, in particolare, alla Cronaca dell’Akasha dell’esoterista Rudolf Steiner, che citi nell’epigrafe e nel titolo del secondo capitolo. Che ruolo riveste il padre dell’antroposofia nello sviluppo dell’opera?

Basilare. La citazione di apertura chiarisce subito quale tema della sua teoria sviscererà il romanzo, cioè quello sviluppato in Cronaca dell’Akasha, una teoria sconvolgente da qualsiasi punto di vista la si osservi, fantasioso, denigratorio, scettico o consenziente. A ribadirlo è ancora il titolo del reperto 3, e lo sono i nomi dei personaggi che si muovono nel presente, riprendendo le ere o per derivazione il loro concetto.

In realtà, la Cronaca di Rudolf Steiner è più essoterica che esoterica, dove per essoterico si intende qualcosa di esterno, rivelato anche a chi iniziato non è. Il concetto dei Registri Akashici, comunque, parrebbe ben più antico e comune a culture geograficamente diverse.

Rudolf Steiner è stato il fondatore dell’antroposofia, una derivazione della teosofia, cioè un complesso di filosofie che si sono snodate in un lungo periodo che va dal quindicesimo al ventunesimo secolo. Tanto per intenderci, da Jacob Bohme a Emanuel Swedenborg, solo per citarne un paio, per arrivare alla riformulazione di Eléna Petróvna von Hahn, meglio conosciuta come Madame Blavatsky, nella seconda metà dell’Ottocento (e che però l’esoterista René Guénon stigmatizza come “teosofismo” per distinguerla dalle precedenti dottrine di stampo neoplatonico o religioso).

Steiner ha dato anche applicazioni empiriche alla sua filosofia, per esempio è stato il propugnatore della cosiddetta “agricoltura biodinamica”, oggi considerata una pseudoscienza, ma la Demeter International ne detiene il marchio e in alcuni Paesi le è stato riconosciuto. In Europa non credo ancora.

Mondotempo è un “mondo di donne” forti e capaci di affrontare la vita e le sue sfide. Tra tutte Biro Sonica, l’hacker su cui si concentrano le indagini archivistiche dei ricercatori archeoinformatici del PRIA (Palazzo di Ricerca Informatica Antica). Vuoi parlarci un po’ di lei? 

Biro è figlia del suo tempo. Lo comprende e ne conosce gli amari e futuri sviluppi. Si muove dentro la sua epoca con circospezione perché combattere apertamente significherebbe mettere in pericolo la vita altrui, perciò deve escogitare dei termini di lotta che alla controparte risultino inafferrabili e, al contempo, non generino un conflitto etico con se stessa e la sua missione.

Sapere non significa avere in mano la soluzione, occorre un impegno attivo perché acquisti forma e non resti lettera morta. Lei si muove sapendo che perderà, ma che nella sconfitta si paleserà la vittoria. Lo può fare perché il suo sguardo sa abbracciare il ritmo dei cicli e lo cavalca.

Sul terzo numero della rivista Lost Tales – Andromeda è apparso un tuo articolo su Le pioniere della fantascienza: un lungo e ben argomentato saggio che ripercorre tutta la storia della fantascienza italiana al femminile. Come vedi il presente e il futuro delle scrittrici di science fiction?

Questa si presenta come una domanda delicata, la cui risposta potrebbe non piacere. Premesso che mi manca ancora molto da leggere per formarmi un parere equanime sullo stato della science fiction femminile odierna, e premesso che non ho mai letto un libro identificandolo a priori come scritto da un uomo piuttosto che da una donna ma sempre pensando all’autore come essere umano, per quel che ho letto ho trovato molta adesione a temi politicamente o socialmente pilotati (il che, per come la penso, è negativo per la letteratura; mi sembra più propaganda che letteratura). Oppure ho trovato registri narrativi gratuitamente aggressivi, volgari, bassi, pesanti, forse nell’intento di dare forza e potenza evocativa, ma non è emulando alcuni registri narrativi maschili che si fa una letteratura femminile – sempre che esista veramente – anzi, così facendo la si tradisce. La donna viaggia su una comprensione diversa della realtà, a un certo livello (il livello del maschile e del femminile), quindi dovrebbe esprimersi diversamente, non emulare.

Oppure ripenso ad alcuni racconti in cui il sesso è il tema dominante, e non riesco a non considerare quanto la linea narrativa manchi di profondità e sensibilità nei confronti di una tematica che, come donna, so che potrebbe essere sviscerata in modi ben più complessi che non descrivendo atti meccanici al limite della pornografia. Per assurdo ho trovato in scrittori di sesso maschile una comprensione della sessualità femminile superiore a quella descritta da molti scrittori di sesso femminile.

C’è un’infinità di mondi da raccontare, compressi da tempo immemorabile nel silenzio, ma al momento ho visto ancora poco di questi mondi. C’è qualcosa che non sta scattando, non so, pochissimo mi convince. Forse, proprio perché sono donna, concedo meno a una donna perché so quanta potenzialità ci sia nel mondo femminile e non le perdono la mediocrità o l’emulazione maschile, sapendo che potrebbe dare ben altro.

Se hai letto la serie di Canopus in Argos: Archivi di Doris May Lessing, posso fornire un baricentro. Lì ci sono l’Autore e l’Autrice. È straordinario come in questi romanzi Lessing sia riuscita a comporre un prisma di dinamiche e a fonderle: ha scritto opera di un genere superandolo; ha parlato all’umanità intera; ha interloquito con uomini e donne tramite un linguaggio comune a entrambi (per questo dico Autore); allo stesso tempo è riuscita a narrare includendo una visione femminile di complessa e squisita profondità centrandone il nucleo (per questo dico Autrice). Non è un caso se questi romanzi la esclusero dalla candidatura a Premio Nobel, che comunque le fu conferito nel 2007, e non è un caso se Lessing riteneva questi romanzi come la sua produzione più importante.

Sul futuro della science fiction femminile, un viaggio verso quel nucleo di cui ho detto poco fa potrebbe essere un buon punto di partenza per farsi la domanda giusta, perché nel nucleo non c’è sovrastruttura che tenga: esce la vera visione personale, l’unica realtà che può contare per uno scrittore, che sia di sesso maschile o femminile.