Lo straniero arrivò a Roccaforte di martedì, mentre imbruniva.

Indossava una tuta antiradiazioni logora e antiquata, il filtro per l’aria che gli copriva la faccia doveva essere più vecchio di me. Tutto infagottato com’era, per un attimo non mi sembrò nemmeno un essere umano.

Si fermò a qualche metro dalla casa abbandonata in cui io montavo la guardia. Notai che si muoveva con una stanchezza sofferta: guardò nella mia direzione e subito capii che mi aveva visto, anche se non sapevo come. Alzò entrambe le braccia sopra la testa, come volesse arrendersi.

- Dove sono? – chiese, con una voce roca e graffiante. Sembrava non dare importanza al vecchio fucile da caccia che gli puntavo contro da un buco che una volta era stato una finestra.

- Chi sei? Che cosa vuoi? – urlai di rimando io. Le mie mani tremavano, più per l’eccitazione che per la paura penso.

Lasciò cadere al suolo lo zaino militare che portava sulla schiena. Sospirò e si raddrizzò, con lentezza. Non era comunque molto alto. La sua sagoma minuta si stagliava contro il cielo, rosso al tramonto ancora di più di quanto era stato per tutto il giorno.

Mi fissò e io mi nascosi dietro il muro, stringendo più forte il fucile.

- Stai calma, non ho intenzione di farti del male. – Mi affacciai e vidi che allargava le braccia, con un movimento stanco. – Non potrei farlo, anche se lo volessi. Ma non voglio farlo.

- Chi sei? Che cosa vuoi? – ripetei io, sempre a voce alta.

- Rifugio – rispose. – Per me e per i miei. E sapere dove sono.

Per i suoi? Mi guardai attorno ma non vidi altri. – Sei a Roccaforte – gli spiegai comunque. – Sulla strada tra Asti e Alba.

Lui annuì, come se avessi confermato i suoi calcoli. – Bambina, puoi chiamare qualcuno che possa decidere se ospitarci?

Come aveva fatto a capire la mia età? Si sgranchì le braccia poi sedette sullo zaino, in attesa.

- Quali altri?

Scrollò le spalle. – Venite fuori, forza! – ordinò in tono stanco.

Tre bambini sbucarono, uno dietro l’altro, da un’altra casa diroccata. Erano più piccoli di me e indossavano tute ancora più vecchie e sbrindellate. Trascinavano i piedi, come se non avessero proprio voglia di camminare. Si piazzarono un metro dietro lo straniero, senza dire una parola.

- Sono tuoi figli?

- No.

- Che ci fanno con te?

Non rispose ma continuò a fissarmi. – Hai intenzione di farci passare qui tutta la notte?

No, quello era escluso. Sentii l’eccitazione dentro di me crescere. – Non ti muovere!

- E dove vuoi che vada?

Corsi a chiamare la Sindaca e tornammo in qualche minuto. Avevo il fiato corto ed ero sudata, bollivo nella tua antiradiazioni con il caldo dell’esterno ed ero spaventata. Avevo l’idea che non li avrei più trovati e che avrei fatto una pessima figura. Invece erano ancora lì: lo straniero seduto per terra, con le gambe incrociate, e i bambini in piedi dietro.

- Sono tuoi figli? – chiese la Sindaca appena fummo abbastanza vicine. Anche lei imbracciava il fucile da caccia.

- Ha detto di no.

- Lascia parlare lui.

Lo straniero scosse la testa. – Hai l’autorità per decidere se potete ospitarmi o devi chiamare ancora altri? – La sua voce era ancora più bassa, solo un sussurro.

- Sono la Sindaca di Roccaforte. Decido io. Che cosa volete? – Lei invece era squillante come una sirena.

- Rifugio. Per una notte.

La Sindaca fissò il quartetto. Sembrava incerta, e questo era strano. – Da dove venite?

L’altro agitò la mano in aria in modo vago. – Da nord. E andiamo a sud.

- Così non va, uomo. Non prendermi per il culo. – E gli puntò contro il fucile. Anch’io alzai subito il mio.

Lo straniero allargò le braccia. – Senti, se vuoi ospitarci ti racconterò tutto quello che vuoi. Se non vuoi dimmelo subito, prendo la mia roba e me ne vado. Decidi.

Spalancai la bocca per lo stupore. Nessuno parlava alla Sindaca in questo modo. Nessuno. Si fissarono per qualche istante. Digli di sì, digli di sì! Desideravo disperatamente qualcosa di nuovo!

– Va bene, venite. – Abbassò il fucile. – Vai avanti tu, Gloria. Io chiudo la fila.

Lo straniero si rialzò, con gran fatica. Mi chiesi da quanto tempo era in cammino. Si rimise il pesante zaino sulle spalle e mi guardò. – Andiamo?

Io partii di buon passo, attraversando con rapidità le vie strette e abbandonate di Roccaforte. Mi sentivo il cuore rumoreggiare assordante per l’eccitazione. Il sole si stava sempre più abbassando all’orizzonte, e proiettavamo ombre lunghissime sulla strada di pietre aguzze. Il caldo come sempre micidiale e nemmeno un alito di vento. Il cielo si arrossava e io mi chiesi per l’ennesima volta come doveva essere quando il cielo era azzurro e il sole all’aperto non uccideva.

- Vai piano, bambina. – Sentii ansimare alle mie spalle.

Non ci mettemmo comunque molto ad arrivare al Castello, in cima alla collina. Il Castello era la casa di tutti, lassù, e dominava l’abitato abbandonato di Roccaforte. Risaliva a secoli prima, mille anni addirittura sosteneva la Sindaca. Sin da sempre aveva protetto i roccesi e ora continuava a farlo. Le grandi sale ospitavano tutte le famiglie del paese e le spesse mura le proteggevano dalle radiazioni e dal caldo soffocante dell’esterno.

Lo straniero si fermò proprio ai piedi del grande scalone che portava all’ingresso. Si portò le mani ai fianchi e alzò lo sguardo. – Non male questo posto.

- Entrate! – li incitò la Sindaca.

Salii la scalinata in marmo, superai i due leoncini scolpiti che facevano la guardia ed entrai nel salone. Dentro c’era già un po’ di gente che voleva guardare i nuovi arrivati. Erano anni che non arriva qualcuno da fuori. Ci fissavano e io mi sentii fiera di essere al centro dell’attenzione. Nei loro occhi mi sembrava di vedere curiosità, paura ed eccitazione ma magari era solo la mia immaginazione. Tacevano tutti, in attesa della Sindaca.

- Laura, prendi il fucile di Gloria e sostituiscila. – Furono le sue prime parole. Laura non ne fu molto contenta ma obbedì. Mi strappò quasi il fucile, si sistemò il filtro per l’aria, lanciò uno sguardo omicida e se ne andò.

- Non è colpa mia! – sillabai io, ma dubito che mi abbia sentito.

Lo straniero lasciò di nuovo cadere lo zaino a terra e si tolse il filtro dal viso. La sua pelle era del colore del cuoio ed era solcata da tante rughe, spesse e vecchie, come non ne avevo mai viste. Portava i capelli tagliati cortissimi, il naso era schiacciato e le sue labbra erano quasi invisibili. Mi colpirono gli occhi, tanto chiari da parere trasparenti.

- Sei una donna! – esclamai.

- Sei un’acuta osservatrice, Gloria – mi rispose lei, con un sorriso sghembo. Il filtro non le copriva più la bocca ma la sua voce era ancora bassa e roca, come se qualcosa le avesse scorticato le corde vocali. Si guardò attorno. – Siete quasi tutte donne, qui. Donne e bambini.

- Gli uomini sono al lavoro, nelle serre – rispose la Sindaca. Si era tolta anche lei il filtro. Il suo volto paffuto e pallido mi sembrò flaccido confrontato con quello scabro della straniera. Con una mano si levò i capelli biondo-grigio dalla fronte.

- E comandi tu, non un uomo.

- Gli uomini hanno fatto abbastanza danni. Ora è il nostro turno.

La straniera chiuse gli occhi e annuì. Intanto i bambini si erano scoperti il volto. Avevano tutti i capelli rasati e il volto scavato, gli occhi stretti che guizzavano da una parte all’altra. Sembravano famelici. Non riuscivo a capire se erano maschi o femmine.

- Come ti chiami?

La straniera sobbalzò, come se quella domanda l’avesse presa di sorpresa. Dovette riflettere qualche secondo prima di rispondere. – Cormi.

La Sindaca aggrottò la fronte. – E che razza di nome è?

- Il mio. – Di nuovo il sorriso sghembo. Sembrava dire che con tutto ciò che aveva visto le nostre domande erano soltanto ingenue.

- Starete con me questa notte. – Scrollò le spalle. – E voi potete anche andarvene! Non c’è niente da vedere! Non vi voglio più vedere questa sera!

La piccola folla rimase per qualche istante incerta, poi pian piano si sciolse.

Quando rimanemmo soli anche la Sindaca abbandonò il grande salone, seguita da Cormi e dai bambini. Io li seguivo a mia volta. Attraversammo una serie di piccole stanze finché non ci fermammo davanti al camino in pietra. Cormi guardò con ammirazione il grande lampadario di cristallo che pendeva alto dal soffitto.

- L’energia elettrica non c’è più ovviamente – commentò la Sindaca. La straniera annuì. – Però per fortuna questi vecchi castelli sono pieni di camini.

- Con che cosa alimentate il fuoco?

La Sindaca gettò lo sguardo verso un angolo più buio degli altri: un paio di tavolini e vecchie sedie fatte a pezzi, una catasta di libri alta quasi come me e almeno una decina di grandi quadri, ritratti di re e nobili. – Ci sono ancora parecchie stanze piene di questa roba.

Cormi tacque per qualche istante. Fece sedere i bambini. – E quando finirà?

- Ci penseremo allora – rispose la Sindaca. Cercò di sorridere, ma mi sembrò che mostrasse i denti. – Il presente è difficile, non abbiamo tempo di preoccuparci del futuro. – Prese due pezzi di legno di una sedia e cominciò a darsi da fare per accendere il fuoco. – Gloria, vai a prendere un secchio d’acqua. Offriremo un piatto di minestra calda ai nostri ospiti.

La guardai disperata. Non volevo perdermi una sola parola!

La straniera chinò il capo. – Ti ringrazio moltissimo per la tua ospitalità. – Mentre mi stavo allontanando chiese: – Avete acqua buona, qui?

- Sì, abbiamo un pozzo antico, molto profondo.

- La maggior parte dei fiumi che abbiamo guadato sono in secca. E l’acqua degli altri è contaminata. Potete darci un po’ di acqua da portare via? Così potrei risparmiare un po’ di pillole sanificanti. L’acqua sanificata ha un sapore disgustoso.

Un bambino (o era una bambina?) rise. La Sindaca li guardò. – Penso di sì. Però noi due dobbiamo parlare. È da un pezzo che non abbiamo notizie dal resto del mondo. Come vanno le cose al nord?

La straniera rialzò lo sguardo. – Uno schifo. Come ovunque. Come sempre.

L’altra si volse verso di me e io mi sentii subito in colpa. – Che fai ancora qui Gloria? Non ti avevo chiesto di prendermi un secchio d’acqua? Muoviti, forza!

Io filai via. Corsi più velocemente che potevo. Percorsi le sale del castello che si stavano scurendo, una dopo l’altra, poi scesi a due a due i gradoni della scalinata interna, attraversai il cortile e raggiunsi il pozzo. Per fortuna a quell’ora non c’erano altri bambini che prendevano acqua. Riempii velocemente uno dei grossi secchi e con due mani lo sollevai. Era pesantissimo e sentii i muscoli delle braccia che tiravano. Ero troppo curiosa di sapere novità, per cui ce la misi tutta per tornare presto.

- Eccomi – ansimai, sudata fradicia.

Erano tutti per terra intorno al fuoco. Non dovevo essermi persa molto: accanto al camino c’erano sei bicchieri, piatti fondi con i cucchiai, in una piccola sporta il necessario per cucinare un brodo di verdure e una pagnotta di tre giorni fa che ci avrebbe tolto la fame. Anche la Sindaca doveva essere appena tornata dalla cantina.

- Grazie alle serre abbiamo verdure fresche – stava spiegando. – Quando furono costruite, vent’anni fa, le dotarono di una schermatura antiradiazioni. All’epoca queste cose le sapevano fare. È molto complicato mantenerle funzionanti oggi. Ci pensano gli uomini.

La straniera annuì. Si guardò attorno. – Aspettiamo qualcuno? – Intendeva un uomo, capii dopo qualche secondo.

- No – rispose seccamente l’altra, mentre versava l’acqua nella pentola e cominciava a preparare il brodo. Il resto dell’acqua finì nei bicchieri. La straniera e i bambini la bevettero con avidità. Quando ebbero finito sul viso di Cormi lampeggiò ancora, per un attimo, quel suo strano sorriso.

- Che buona! – esclamò un bambino, e gli altri risero.

Mi sedetti accanto alla straniera. Dal suo corpo veniva un odore che mi colpì. Tutti puzziamo, certo, e nemmeno ce ne accorgiamo più. Quella donna emanava però una specie di odore di bruciato, acre e forte. Pensai che fossero tutte le radiazioni che aveva assorbito vagabondando per il Piemonte.

Rimanemmo in silenzio per qualche minuto. Uno di quei silenzi pesanti, che più durano più è difficile spezzare. Lo feci io: – E il Governatore a Torino? C’è ancora? – La prima cosa che mi venne in mente. In realtà di lui mi interessava ben poco.

La straniera scosse la testa. – Adesso si chiama Giunta Esecutiva e non è più a Torino. Torino era troppo grande per sopravvivere, è andata in rovina. La sede della Giunta è nel castello di Rivoli, mi pare. – Si interruppe un attimo, come se un pensiero l’avesse raggiunta d’improvviso. – Così avevo sentito dire, almeno. In realtà la Giunta governa Rivoli o poco più. Il resto del Piemonte si governa da sé, come fate voi.

La Sindaca annuì. – Il modo migliore.

Mentre lei continuava a rimestare nella pentola, io chiesi ciò che volevo sapere fin dall’inizio: – Ma voi dove andate? Come mai non avete un posto dove stare?

Entrambe le donne mi fissarono, ma fu lo sguardo della straniera che mi colpì di più. Mi sembrava di essere trapassata da parte a parte dai suoi occhi trasparenti.

- Non ce l’abbiamo. – Io annuii, come se fosse ovvio. – Non ci sono posti dove stare. – Aggiunse lei con un sussurro.

Intanto l’altra stava versando la minestre nelle scodelle. Ne versò tre dita in ognuna e poi le consegnò, lasciandomi per ultima. Era la minestra tutta acqua, senza sapore e dal colore giallognola, che mi toccava tutte le sere. La Sindaca tagliò grosse fette dalla vecchia pagnotta e ce le consegnò, una per uno.

- Grazie per la tua ospitalità e il tuo cibo.

Lei annuì. I bambini di Cormi si gettarono sulla minestra come bestie fameliche, mulinando i cucchiai con un gran rumore. Io spezzai il pane in grossi bocconi. Era maledettamente duro. Osservai i pezzetti che si impregnavano di minestra, ammorbidendosi. Non avevo proprio fame.

- Che significa non ci sono posti dove stare?

La straniera posò il piatto sulle ginocchia e sospirò. Si voltò per guardarmi meglio. Eravamo vicini al camino, che riempiva di riflessi infuocati il suo volto scuro e rinsecchito di rughe.

- Che il nostro mondo è fottuto, bambina. Lo è da vent’anni. O forse anche da prima, ma vent’anni fa è diventato evidente. – Parlava lentamente, come se ogni parola fosse una sofferenza. – La crisi ecologica e le centrali nucleari, nemmeno mi ricordo cos’è successo prima. Di certo il nord Europa non è più abitabile. Troppa radioattività, nessuna risorsa. Non c’è futuro qui. – Si interruppe e guardò la Sindaca, che la stava fissando. L’ostilità che lessi nei suoi occhi mi colpì. – Anche voi dovreste andarvene. Non c’è futuro qui.

L’altra sbatté la scodella sul pavimento, con un rumore che rimbombò nella sala vuota. – Ora basta! Sono decenni che sento ripetere queste cose! Non ce la potete fare, non ce la potete fare… ma noi siamo ancora qui, ce l’abbiamo fatta e ce la faremo! Abbiamo lavorato duro noi, non scappiamo di fronte alle difficoltà!

Si era alzata in piedi. Ero spaventata: non l’avevo mai vista così. Cormi la fissò ma non le rispose. Si limitò a guardarla, mentre un sorriso impercettibile le passava sulle labbra.

- E tu che fai, non ti piace la minestra? Se non la mangi dalla a quei bambini morti di fame, a loro piace! – Mi aggredì. – Il cibo è cibo ed è sacro, cazzo!

Era la prima volta che la sentivo usare quella parola. Spaventata, mi ficcai in fretta due cucchiaiate di pane e minestra in bocca e cominciai a masticare, muovendo le mascelle con gran rumore per farla contenta. Lei grugnì, si scostò una ciocca di capelli dalla fronte e sedette di nuovo. Ravvivò il fuoco, riprese in mano la scodella e mangiò in silenzio per qualche istante. – Roccaforte è casa mia. La casa dei miei genitori e dei miei nonni, e così indietro fin quando si perde la memoria. Non ho intenzione di rinunciare a tutto questo, di arrendermi – concluse, agitando la mano che teneva il cucchiaio e spruzzando qualche goccia di minestra.

La straniera sembrava indecisa se dire qualcosa. Poi cominciò, con un sussurro. – Lo rispetto, ma mi chiedo se hai valutato che farete quando le risorse saranno finite o che fare contro la radioattività. Sta ancora aumentando, sai? Ogni anno sempre più…

- Ma dove pensate di andare? – chiesi io, mentre la Sindaca continuava a scrutarla con ferocia. – Ci sono posti migliori?

La Sindaca si voltò verso di me e fece una smorfia. Anche Cormi mi guardò. Sulle sue labbra comparve un sorriso triste e ancora una volta mi sembrò che i suoi occhi chiari mi attraversassero.

- Qui al nord ci siamo presi le radiazioni delle centrali nucleari francesi, svizzere e slovene. A sud è diverso. A sud le autorità regionali funzionano ancora, dicono. Non c’è radioattività, si può vivere all’aperto. – Allargò le braccia. – Così dicono…

- E volete andare al sud a piedi? Tu e tre bambini?

- Ci proviamo. – Scrollò le spalle. Ancora quel sorriso. – Che altro possiamo fare?

- Cazzo! – esclamò la Sindaca. Le due donne si fissarono per qualche istante. Mi sembrava di vedere l’elettricità attraversare l’aria. – Io non abbandonerò il mio paese e la mia gente!

Cormi tacque per qualche istante, infine scrollò le spalle. – Ognuno è artefice del proprio destino.

Finimmo di mangiare lentamente, la Sindaca ritirò piatti e bicchieri e li mise via.

- Ti ringraziamo ancora per il tuo cibo.

- Potete riempire le vostre borracce dell’acqua del nostro pozzo. Ma dovete andare via all’alba, non oltre. – La straniera annuì, muovendo il capo con estrema lentezza. Fissava il pavimento. – Voi potete dormire qui. Io e Gloria andiamo a dormire in un’altra stanza.

Ci allontanammo mentre la straniera e i bambini tiravano fuori i sacchi a pelo dallo zaino di lei. Era quasi buio ora e quando è buio si dorme, questa è la regola. La Sindaca si preparò il letto di metallo con gesti rapidi e nervosi, mentre io facevo altrettanto, con più calma. Si infilò sotto le lenzuola senza dire una parola e sentii il suo respiro farsi lento e pesante. Si addormentò subito come sempre.

Io mi rigiravo nel letto. Non riuscivo a dormire. Continuavo a pensare a come doveva essere un mondo in cui il cielo era azzurro, si poteva stare all’aperto senza tuta antiradiazioni e l’aria e l’acqua non ti uccidevano. Un mondo simile a quello di qualche decennio prima. Simile a quello in cui erano cresciute Cormi e la Sindaca. La mia notte passò così, interminabile.

Quando mi sembrava che fosse quasi l’alba mi alzai. Mi allacciai gli scarponi, indossai la tuta antiradiazioni e presi il filtro.

- Che fai? – mi chiese la straniera. Stava tornando dal pozzo con le borracce piene.

- Vengo con voi. Vengo a sud.

Lei mi si piazzò di fronte. Non era molto più alta di me. Mi poggiò una mano pesante sulla spalla, mi fissò e ancora una volta i suoi occhi color ghiaccio mi misero a disagio. – Non puoi fare questo a tua madre. Non posso fare questo a tua madre. Non dopo che lei ha diviso il suo cibo con noi.

Io la guardai, sorpresa. Come aveva fatto a…

- Torna a letto, bambina. Non fuggire di nascosto da tua madre, come una ladra. Sarebbe indegno. Tra qualche anno, quando sarai adulta, se vorrai ancora farlo diglielo e spiegale le tue ragioni. Se lo merita. Solo se farai così sarà degno.

Io chinai il capo. Lei levò la mano dalla mia spalla e cominciò a svegliare i suoi bambini. Ormai il maledetto sole stava per sorgere.

Osservai per l’ultima volta il suo volto scurito dalla luce e dalle radiazioni, il corpo minuto che si muoveva con lentezza, esausto. Si caricò lo zaino sulla schiena, con un movimento faticoso che la fece gemere. Mi voltai e tornai a letto.

La straniera se ne andò all’alba. Io rimasi a Roccaforte.