Finalmente una fiction sulla cultura hacker senza scene con cowboy della tastiera

che picchiettano sulla barra spaziatrice per tre secondi e poi dicono: «Siamo dentro». Mr. Robot è un solido thriller psicologico intriso di visioni distopiche. Tra complottismo fantapolitico e infotainment sul concetto di ingegneria sociale, Sam Esmail crea e sviluppa con coraggio una serie tv (prodotta dal canale via cavo USA Network) che cerca di fare concorrenza sul terreno del cybercrime a più blasonati e ricchi colossi dell’intrattenimento televisivo statunitense quali la CBS. Quest’ultimo network sta producendo i due più affermati (e anche molto più pubblicizzati) concorrenti diretti di Mr. Robot ovvero Person of interest (ideato da Johnatan Nolan) e Scorpion (sviluppato da Nick Santora). Ma Mr. Robot si distingue per lo sguardo diverso, più disincantato sulle cyber-culture: certo più cupo ma anche più sarcastico e visionario. Privo di dialoghi banali o sbocchi prevedibili e tristemente edulcorati dalle esigenze commerciali dei grandi network generalisti, Mr. Robot si avvicina di più alla futurologia e all’espressività un po’ punk di telefilm come Utopia o Black Mirror. Diciamolo subito: niente effetti speciali o fantasie su avveniristici gadget tecnologici.

In Mr. Robot c’è una piccola scena che è tutto un programma: due hacker se la ridono mentre guardano alla TV il film Hackers (Iain Softley, 1995): «Strutture delle directory come in Tron, virus animati che cantano e ballano, stronzate hollywoodiane…». Privo di quelle improbabili animazioni che rappresentano virus e malware sotto forma di vermoni digitali coloratissimi che ruotano su monitor a 80 pollici, lontano anni luce dal modello “CSI qualcosa”, Mr. Robot potrebbe disorientare chi è del tutto a digiuno di cultura digitale. Ma, amici diversamente informatici, una scena con un gruppo di cervelloni dotati di occhiali neri da nerd che osserva con preoccupazione un vermone virtuale che si srotola nel cyberspazio… è una roba che va bene per descrivere un virus intestinale non un business tutto sommato rispettabile come la sicurezza informatica. Meglio approfittare della situazione per imparare qualcosa piuttosto che lamentarsi dei soliti genietti del computer che sanno tutto loro o dei nostri figli adolescenti che conoscono tutti i trucchi per prosciugarci il conto in banca. Con Mr. Robot finalmente si puntano i riflettori sulle tecniche dell’ingegneria sociale (quella che Kevin Mitnick descrive come l'arte dell'inganno e dell'intrusione) riducendo al minimo improbabili animazioni computerizzate che spettacolarizzano, semplificano e, in fondo in fondo, fanno solo disinformazione.

Un momento. Cosa? Si parla di cyberspazio e cyberterrorismo senza simulacri di superpoliziotti o supercriminali o mostri in computer grafica che si rincorrono o si prendono a mazzate? Eh già. Mr. Robot riesce ad essere una fiction energica e appassionante pur riducendo al minimo il sensazionalismo visivo.

«Viviamo tempi molto interessanti»: lo dice così, apparentemente senza motivo quello svitato di Mr. Robot (il sovversivo anarchico interpretato da Christian Slater) distendendosi bello comodo sul suo sedile nella metropolitana di New York. A proposito di Chrisitan Slater: chi si ricorda il suo amico per la pelle e motivatore per la crescita personale nel mitico Una vita al massimo? Val Kilmer che faceva Elvis Presley. Agli occhi spiritati di Elliot Alderson (il protagonista della serie interpretato da un inquietante Rami Malek) Mr. Robot si presenta come un barbone sciroccato. Ma in fondo il tizio incontrato per caso in metropolitana non ha tutti i torti. Sì, viviamo in tempi molto interessanti. Tempi in cui le reti digitali hanno sostanzialmente abbattuto il senso del luogo fisico aprendo a nuove possibili mobilità tra le classi sociali, tra le culture. Con la forza virale del www, le fratture immaginate da Mr. Robot possono diventare tanto utopie quanto distopie.

A Sam Esmail devono stare proprio simpatici gli outsider che vengono dal basso. Il protagonista Elliot Alderson è un giovane programmatore sociopatico e moderatamente drogato che vive in un quartiere malfamato e odia l’azienda in cui lavora. In primo piano il suo disagio psicologico, sullo sfondo un'epica lotta tra le forze del male e quelle del bene. Da una parte l'odioso strapotere economico della multinazionale E-Corp (E sta per Evil?) con tanto di boriosi e arroganti dirigenti. Dall'altra la Fsociety, un piccolo gruppo di hacker più o meno etici che incarnano le istanze dell'attivismo Anonymous. Sembra quasi una visione del mondo in cui vivremo nel prossimo futuro in cui tutto ma proprio tutto delle relazioni sociali ed economiche è tracciabile digitalmente. Ooops, ma non ci siamo già dentro? In Mr. Robot la manipolazione del dato elettronico e la capacità di crackare codici informatici sembrano essere, di fatto i pilastri su cui fondare intrighi, affari, potere, la Storia del genere umano forse.

Prendiamo il capo di Elliot, Gideon Goddard, proprietario della Allsafe Cybersecurity: dovrebbe saperla lunga in fatto di sicurezza e di informatica eppure ci appare come un poveretto, in commercio da tanti anni e costantemente assediato dai debiti. Sempre sull’orlo del fallimento, lui come tutti coloro che non fanno parte di quell’uno per cento dell’uno per cento. E allora riesce decisamente facile fare il tifo per la Fsociety e per gli anonimi con la maschera da umarell che stanno preparando la rivoluzione. Vogliono distruggere le banche dati dell’alta finanza allo scopo di operare la più grande redistribuzione di ricchezza della Storia.

Perché no? Di fiction sull'apocalisse al gusto zombi ne abbiamo a volontà. Cataclismi e virus vari abbiamo già dato. Ancora spazio per invasioni aliene? No grazie. Ben venga allora una bella apocalisse dell'alta finanza con tanto di reset globale delle tracce digitali di ogni debito. Da notare che il default per tutti proprio ci mancava. Sarà un caso? Forse no, se pensiamo a quanto possa apparire terrificante questa evenienza agli occhi dell’uomo contemporaneo. Ogni giorno siamo dati in pasto a quegli sconcertanti bollettini sulla (mancata) crescita economica che ci tengono avviluppati nel buio di un tunnel eterno, mostrandoci ogni tanto una ricattatoria lucina sul fondo. Un’uscita dal tunnel che forse non ci sarà mai a pensarla con il circo mediatico tradizionale.

Ma per l’impresa degli hacker di Mr. Robot, novelli Robin Hood pop, non ci sono facili scorciatoie. Imboccano con coraggio labirinti psicologici che nella trama ricordano Fight Club (David Fincher dal romanzo omonimo di Chuck Palahniuk) e nelle atmosfere visionarie fanno pensare a Eyes Wide Shut (libera rilettura di Stanley Kubrick del romanzo Doppio sogno di Arthur Schnitzler) o al Brian De Palma di Vestito per uccidere. Ecco il vero plus della serie: lo stile. Le luci, i colori, un certo modo di inquadrare, gli inaspettati silenziosi campi lunghi, le situazioni che invitano insistentemente a un dialogo con l’underground della coscienza. Campi lunghi e medi un po' misteriosi tendono a decentrare i protagonisti mettendoli spesso ai margini dell'inquadratura.

Il fascino della superficie stilistica non deve ingannare: qui si cerca di affondare con più precisione che mai il bisturi in un discorso sul potere. Mr. Robot si rivolge principalmente a persone che conoscono la storia dei regimi del Novecento e che hanno vissuto il post 911 e il datagate informandosi e cercando di capire le reali implicazioni della sorveglianza di massa. In fondo Mr. Robot è un prodotto unico perché ci offre una visione plausibile di quella dimensione parallela alla nostra che dimora dentro i computer e che, transitando attraverso i cervelli, plasma il destino delle nostre relazioni, il senso del nostro essere umani. Ecco come Mr. Robot attiene al fantastico: come in uno stato di ipnosi, racconta il problematico rapporto tra l’individuo contemporaneo e l’invisibile, quasi mistico mondo delle macchine.

Elliot è il Superman alieno, il tramite messianico che avvicina agli umani quel trascendente fatto di bit e informazioni. Ha anche il costume da supereroe che può alternare velocemente a quello dell’impiegato: sotto la felpa con cappuccio indossa quella camicia tanto raccomandata dal suo capo. Doppia personalità superomistica. Ma quali sono i superpoteri di Elliot? Anzitutto riesce a leggere nel pensiero. Non letteralmente, ovvio. Si chiama "reverse engineering" dei pensieri altrui. Proprio i suoi grossi problemi di socialità gli conferiscono quel distacco che gli permette di leggere e soppesare relazioni e traffici con oggettività "aliena". Vero e proprio supereroe della raccolta di informazioni e di dettagli apparentemente insignificanti per i comuni mortali, Elliot riesce a penetrare qualsiasi segreto, qualsiasi privacy. Forse la molle che lo spinge è la (temporanea e illusoria) sensazione di avere il controllo su tutto e di poter fare del bene alle persone a cui tiene.

La voce off di Elliot e i suoi occhi sgranati pieni di paranoie e di elucubrazioni,

mettono tutto in discussione. Le intrusioni sono a mezzo informatico certo ma prima viene l’ingegneria sociale che mira a riempire il vuoto di ciò che non si vede attaccando le informazioni in maniera obliqua e non necessariamente con un computer. Qui si parla di telepatia dunque, ma una telepatia del tutto realistica e scientificamente plausibile. Quando Elliot affronta il proprietario dell'internet caffè e comincia a rinfacciargli tutti i retroscena illegali e immorali che ha scoperto (scavando per benino nei suoi dati), sembra proprio quella l'idea: un alieno dotato di uno sguardo capace di penetrare la superficie delle cose.

Ma Elliot non guarda dall’alto le miserie del mondo. Messia empatico, quando visualizza il “codice sorgente” di una persona mette a confronto la maschera pubblica con le fantasie più intime nascoste dentro al dispositivo. Elliot o disprezza e cerca di punire o simpatizza e cerca di aiutare: comunque disagio. Elliot è l’amore? «Trovare qualcuno con cui poter essere se stesso? Che stronzata.» Moderno Edgar Allan Poe, Elliot non convive piacevolmente con il suo sguardo ai raggi X e la sua vita è segnata da uno stato depressivo spirituale mitigato lievemente solo dagli incoraggiamenti della sua psicanalista e dalla morfina.

«Dobbiamo hackerare me stesso»: dice Elliot. Non solo supereroe delle intrusioni informatiche: anche paladino delle identità frammentate, campione degli smemorati con la testa nel computer. I dischetti che masterizza ricordano tanto i vetrini di Dexter: non si sa bene se e quanto siano utili, ma di sicuro non servono nel momento del bisogno. Ad un certo punto Elliot cerca di capire cosa sta succedendo ed è costretto ad “hackerare se stesso”. In cerca di quella password dimenticata che apriva la propria identità, prova a ripercorrere gli step logici del suo pensiero srotolando quei pochi frammenti di memoria (cortissimi o lunghissimi, mai della lunghezza giusta) di cui dispone, dialogando con i computer, negoziando con la cloud digitale in cerca di tracce. Ma tutta questa analisi a che serve? L’uomo medio direbbe: a niente. Ecco perché Elliot è un eroe: perché si pone delle domande. Un po’ come il Winston Smith del 1984 di George Orwell (romanzo seminale che dal 1949 a oggi non ha mai smesso di essere attuale). Ma qui le domande non sono più sulla natura politica del Grande Fratello: sappiamo con certezza che la sorveglianza di massa esiste ed è funzionale alle istanze del capitale. Ma le domande che si pone Elliot sono più importanti: «Io esisto? Qual è il mio vero volto? E quale il mio scopo nella vita?».

La sala giochi a Coney Island, luogo dove si riunisce il gruppo di Fsociety, è un tentativo di contatto con gli altri. Un modo, seppur precario, di prendere coscienza e cercare un equilibrio. Il fatto è che Elliot non riesce nemmeno a controllare i propri pensieri. «Trova il tuo demone» gli dicono le visioni. Un demone è un software che si autoesegue e/o continua il suo lavoro in background (occupando quindi una parte della memoria RAM) senza che vi siano interazioni da parte dell'utente. Di solito ha una funzione diagnostica o di monitoraggio più o meno benevolo. Altre volte è semplicemente un tarlo insensato che divora tutta la RAM. Una sorta di retropensiero primordiale che agisce indisturbato finché l’utente della macchina non ne prende coscienza e lo spegne se non ne ha bisogno. Saper dire con precisione qual'è il proprio demone sembra già un bel passo avanti.

In conclusione Mr. Robot è un techno thriller di classe, forse pietra angolare di una nuova mitologia capace di parlare il linguaggio delle macchine e dei big data e di raccontare la psicologia degli uomini che vivono a così stretto contatto con le macchine.