Come spiegare l’essere umano al nostro amico alieno? Quello magari non è nemmeno antropomorfo. Viene da “laggiù da qualche parte” (come direbbe il capitano Kirk) e si rapporta a noi come a “unità-carbonio”. Come fargli capire il nostro modo di pensare? La prima e più scontata presentazione che viene in mente è un condensato di dati e informazioni.

«Ecco amico da un’altra galassia, vieni a sentire la mia collezione di dischi. Poi, con il tuo intelletto superiore, succhiati questi godzilliardi di terabyte composti da tutti tutti i nostri libri e tutte tutte le nostre emissioni audiovisive, dal discorso di Hitler ai giochi olimpici del 1936 in poi». Ma l’alieno avrebbe un quadro riduttivo: sarebbe un susseguirsi di guerre, intrighi, idee e principi affermati e poi puntualmente traditi. Sarebbero un “cosa” e un “quando” buttati lì. Spesso nelle rappresentazioni narrative quando si parla di essere umano non si fa che mettere in evidenza la sua peculiare capacità di provare sentimenti complessi, contraddittori, da lasciare indefiniti perché ineffabili. In ultima analisi spesso si dichiara l’incapacità di rappresentare l’umano in un racconto. E oggi il rapporto intenso tra l’uomo e le macchine rende tutto più complicato, difficile da visualizzare.

Solo recentemente con una manciata si serie tv europee (come ad esempio la svedese Real Humans la britannica Utopia) si sta ricominciando a fare fantascienza “pensante” partendo da una critica del presente delle reti sociali e delle tecnologie per comunicare. Black Mirror, senza dare l’impressione di volerlo, si offre ad un ipotetico alieno proprio come quintessenziale assaggio di umanità contemporanea. Senza volerlo: perché argutamente la serie antologica ideata e sceneggiata da Charlie Brooker intende cogliere la complessità e l’essenza dell’umano senza descriverla o rivestirla troppo di metafore ma alludendo, lasciando che sia lo spettatore a unire i puntini tra cose e idee.

Ad esempio come raccontare il nostro (conflittuale) rapporto con il passato quando la nostra agenda e i nostri pensieri sono elementi del vissuto sempre più spesso mediati da tecnologie digitali? Nell’episodio 1x03 (“The Entire History of You – Ricordi pericolosi”) una coppia fa sesso mentre osserva le migliori performance avute in passato. La “tecnologia” biologica della memoria umana viene sostituita e potenziata da occhi bionici e memorie digitali collegate direttamente al cervello. Uno streaming simile ai ricordi ma molto più preciso. Nell’episodio 2x01 (“Be right back – Torna da me”) una donna costruisce un simulacro del proprio marito defunto a partire dalle fotografie e dai post condivisi sui social media. Attenzione: nel piacere del momento il tuffo nel “best of” incoraggia una disposizione a rimuginare, a reinterpretare, a soppesare nella propria moviola mentale ogni minimo dettaglio di una relazione. In ultima analisi il continuo movimento avanti e indietro con la manopola del tempo conferisce una parvenza di controllo ma in pratica rende tutto più pesante.

Lo sguardo cinico di Charlie Brooker è disincantato ma mai neutrale. Ricorda Ai confini della realtà e la sua disposizione a finire spesso pericolosamente ai limiti di un feroce moralismo. Prendiamo Cooper Redfield, l'appassionato di videogiochi in “Playtest – Giochi pericolosi” (episodio 3x02): è solo un giovane che vorrebbe costruirsi il futuro andando alla scoperta del mondo ma che finisce con il farsi condizionare da una passato evidentemente troppo pesante. Cooper è una persona come tante: ha tanti interessi e ama viaggiare. La sua passione per i videogiochi rappresenta proprio il desiderio umano di trascendere i confini materiali, di simulare e immaginare nuove realtà. Il violento taglio che chiude la sua avventura è intriso di moralismo alla Rod Serling: in fin dei conti è proprio una telefonata della sua adorata mammina a chiudere i giochi. Bloccato tra passato e futuro, l'uomo contemporaneo non riesce mai a vivere con pienezza il proprio tempo. Le tecnologie digitali non aiutano, anzi complicano le cose perché aumentano le probabilità di distogliere dall'emozione del momento. Ma diciamocela tutta: non è certo colpa della tecnologia. La colpa è tutta dell’essere umano e delle sue logiche prevaricatorie. La morale dei finali di Black Mirror non è mai luddista e non invoca pedissequamente regole e leggi: punta semmai il dito verso le logiche di mercato che, anche in presenza di regole, non si farebbero scrupolo di aggirarle. Lo sappiamo che il mondo della tecnologia funziona così, ma non ci importa e continuiamo per la nostra strada. Più che metafore questi racconti sembrano documentari per il nostro amico alieno. Ammesso fosse ancora interessato agli esseri umani…

Lo sguardo cinico di Black Mirror è a metà tra le geometrie antropologiche di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick e il vivace gusto dell’assurdo di Ai confini della realtà creata da Rod Serling. Sono questi capolavori a fare da modello per Black Mirror alla ricerca di un tono, di una volontà di rappresentare emozioni suggerendole a partire da una lucida freddezza. Per fornire un quadro completo di “come pensa l’essere umano oggi” lo sceneggiatore e showrunner Charlie Brooker si muove raccontando empiricamente le interazioni uomo-macchina e i risultati di queste interazioni lasciando maliziosamente allo spettatore il compito (a volte ingrato) di ricostruire e immaginare l’ineffabile, il non rappresentabile che chiamiamo “umano”. In questo modo Black Mirror riesce a scontornare senza troppe cerimonie la complessità e le contraddizioni dei sentimenti umani.

Arrivato alla sua terza stagione ritroviamo Black Mirror potenziato dal nuovo modello distributivo targato Netflix. Cosa che suona come una promozione. Le potenzialità si cominciano a intuire soprattutto nell’eccezionale casting e nella raffinatissima scrittura dell’episodio 3x00 “White Christmas”, lo speciale che precede la terza stagione. Qui Charlie Brooker comincia a farsi più ambizioso sul piano estetico e comincia a collegare citazioni cinematografiche colte al suo discorso sul potere destabilizzante dei ricordi. In “White Christmas” cita addirittura il film Quarto potere di Orson Welles con la casetta innevata nella palla di vetro. Nel plot il ninnolo è contemporaneamente arma del delitto, luogo del delitto e teatro dell’interrogatorio in una fantasmagoria psichedelica di doppiogiochismo audiovisivo. Tirando le somme l’oggetto che teneva stretto tra le mani il cittadino Kane qui rappresenta molto bene la pericolosità delle tecnologie audiovisive secondo Black Mirror: un mondo fantastico incapsulato in un microcosmo finito e facile da controllare. Fila tutto liscio finché non si crepa il vetro.

In fondo su questo si basano gli episodi più riusciti di Black Mirror: dei loop narrativi che vorrebbero rappresentare l’onnipotente manipolazione della realtà (passata, presente e futura) tramite potenza e tecnologia. Ma tutte le situazioni messe in scena da Charlie Brooker finiscono sempre con l’omaggiare l’eterna insoddisfazione del cittadino Kane/Orson Welles, l’uomo che può tutto tranne ottenere ciò che desidera davvero: Rosebud, l’aura di un passato che non può tornare. Così è per Bing (1x02, “15 milioni di celebrità”) che grazie al suo show si è guadagnato un appartamento più spazioso ma ha perso la sua amata Abi. Stessa sofferenza per Liam (1x03, “The Entire History of You – Ricordi pericolosi”) che allontana moglie e figlia a causa della sua ossessione per i ricordi.

In Black Mirror, i ricordi non sono come le “lacrime nella pioggia” di Blade Runner: sono un carico esplosivo, spesso trasportato da intelligenze (?) artificiali, pronto a deflagrare nei modi più imprevedibili rivoltando come calzini le esistenze che si trovano nei paraggi. Insomma queste tecnologie sono un bene o un male? Lasciamo all’alieno il compito (ingrato) di collegare i puntini. Forse così sarà lui a spiegarci cosa è meglio per noi umani.