Proviamo a guardare ciascun episodio della serie antologica Black Mirror ideata e sceneggiata da Charlie Brooker come proof of concept di radicali svolte industriali e sociali introdotte nel nostro mondo da specifiche novità tecniche e tecnologiche. Il mondo di Black Mirror è molto lontano da noiose questioni di genere (fantascienza sì, fantascienza no) spesso cucinate e ricucinate ad uso e consumo dei network tv (non tutti per la verità) che hanno bisogno di vendere e pianificare in maniera ordinata. Le scenografie non sono per niente futuribili e gli effetti speciali si riducono semplicemente al rendere chiaro il rapporto tra l’uomo e le macchine. L’autore Charlie Brooker ha chiarito in modo semplice il ruolo della tecnologia così raccontata: «non è il villain, è il fondale, il MacGuffin che consente il verificarsi del caos umano». Questa serie sembra anche lontana da precise coordinate cronologiche: passato, presente e futuro si fondono in frizzanti scenari etici legati a tecnologie oggi emergenti. Nel cuore di quasi tutti gli episodi di Black Mirror, troviamo dispositivi che mediano il rapporto tra il qui e l’altrove, tra il presente e il passato: reti sociali virtuali, messaggistica telematica, memorie digitalizzate, culture della simulazione. In pratica è una antologia di esercizi di immaginazione sociologica applicata alla tecnologia che oggi possiamo intuire. Proviamo ad esplorare cinque innovazioni che plasmano scenari socialmente ed eticamente esplosivi alla maniera di Black Mirror.

Innovazione numero uno: la gamification. Non è proprio una novità ma sta diventando un approccio apparentemente vincente a molti problemi di comunicazione o di trasmissione di conoscenze. Nata come trovata di marketing per fidelizzare i clienti dei supermercati il concetto di gamification si lega sin da subito al concetto di punteggio, all’accumulo di crediti finalizzati ad una (dubbia) ricompensa procrastinata in un tempo non ben definito. Con i quiz e i talent show la civiltà televisiva ha esaltato il successo per accumulo di punteggio. La competizione e il progresso punto dopo punto appassiona lo spettatore e lo lega agli esiti dell’eroe di turno. Poi la logica è entrata nei reality show dando ad intendere che fosse possibile applicare a ogni piega della vita un giudizio quantificabile, un numero preciso ovvero la misurabilità di ogni cosa. Facile vedere nei plot di Black Mirror tracce della nostra contemporaneità.

In “15 milioni di celebrità” (episodio 1x02), l’ossessione per l’intrattenimento porta ad una società distopica in cui tutti devono pedalare su cyclette per generare energia o esibirsi in talent show al fine di guadagnare punti e avere diritto ad un intrattenimento “migliore” e con meno pubblicità. La gamification incontra il personal branding assegnando indici precisi all’eleggibilità sociale di un individuo con tutti i drammi che derivano dalle improvvise fluttuazioni. Quel tempo passato a pedalare guardando programmi di dubbia qualità ricorda molto il tempo che trascorriamo tutti con il capo chino sui monitor dei nostri smartphone. Ecco l’episodio 3x01 “Nosedive – Caduta libera” dove viene immaginata una società in cui il successo sociale è tutto basato sul piacersi e sul farsi piacere tramite un onnipresente social network. Siamo alla teorizzazione di una classifica delle persone che ricorda il “page rank” assegnato dai motori di ricerca alle pagine web.

Le scorciatoie per crescere sembrano rischiose: l’era dei selfie, dei reality e dei talent sono il trionfo di un modo di essere che spinge a esporsi, a diventare intrattenitori. Salvo poi scoprire che la massa finisce con l’essere spaventosamente omologata, timorosa di prendere rischi e di perdere punti. Insomma incapace di tuffarsi. Il titolo “Nosedive” suggerisce appunto l’immagine di un aereo in picchiata. La società del self spettacolarizzato incoraggia un genere di svago sempre pronto a puntare il dito sul diverso, sul freak, sul disadattato sociale. In una tale mediocrità Black Mirror ci mostra spesso che lo “strano” è destinato ad emergere, anche senza meriti particolari se non quello di avere il coraggio di distinguersi.

Innovazione numero due: i droni. Le interfacce e le innovazioni hanno di solito lo scopo di far sentire l’uomo in controllo dell’ambiente fisico. Immaginiamo uno scenario in cui le api siano estinte. La gigantesca flotta di api-drone descritte in “Hated in the Nation” (episodio 3x06) sostituisce egregiamente gli insetti nel compito di impollinare. Salvo poi rendersi conto che apparati governativi deviati utilizzano segretamente i piccoli biomeccanoidi a fini di sorveglianza di massa. Per giunta le api artificiali possono anche essere hackerate e diventare un terrificante strumento di morte in grado di assassinare specifici individui.

Lo scenario etico viene già da tempo portato alla ribalta dagli aerei droni dell’esercito americano che sono in grado di portare la morte ovunque nel mondo. Scendendo ad un livello più vicino al nostro quotidiano, la tecnologia che permette di distinguere oggetti o piante (come ad esempio fiori) da persone esiste già. Quindi possiamo facilmente immaginare piccoli droni impegnati a trasportare piccoli oggetti (non necessariamente dosi di veleno o nitroglicerina). Se è vero che per molti anni non sarà facile sostituire i corrieri per le consegne a domicilio, è pur vero che i magazzinieri hanno i giorni contati. Basta vedere i progressi che stanno facendo i robot antropomorfi della Boston Dynamics per intenderci. Un banalissimo visualizzatore di codici QR posizionati adeguatamente può essere in grado di impartire comandi a un drone senza alcun bisogno di appesantire l’automa con capacità cognitive particolarmente sofisticate.

Insomma è solo una questione di miniaturizzazione e di coordinamento tra lo spazio a disposizione e le capacità di computing. Ma a parte queste scelte oggi abbiamo già tutto. Purtroppo i recenti sviluppi della “internet delle cose” stanno chiarendo che tutto quello che è collegabile e comandabile tramite il web è fatalmente passibile di manomissione hacker. Occhio alla cyber security dunque.

Innovazione numero tre: la realtà aumentata. Oggi la realtà aumentata si aggiunge ai possibili campi di applicazione delle nostre protesi cognitive. Un layer di informazioni si sovrappone a ciò che vediamo rinforzando il nostro controllo sull’ambiente. Qualsiasi tipo di informazione sia possibile trasmettere via web o richiamare da una memoria di massa. In diversi episodi Black Mirror lavora sul versante delle caratteristiche di prodotto: elettronica di consumo in grado di portare con naturalezza la realtà aumentata nel nostro quotidiano. Nel design di queste tecnologie immaginarie gli autori si pongono problemi ergonomici e in parte anche estetici. Chi indosserebbe mai un vistoso caschetto per poter beneficiare dei doni della realtà aumentata? Persino gli occhiali Spectacles di Snapchat (leggerissimi, in grado di effettuare riprese audio-video e oggi commercializzati a un prezzo piuttosto basso) possono risultare inadeguati a causa del vistoso obiettivo che segnala la (seppur minuscola) videocam, promessa di invasione di privacy.

Black Mirror propone le sue lenti a contatto comandate tramite il pensiero. Totalmente invisibili dall’esterno, possono registrare e trasmettere ciò che vede l’utente sovrapponendo informazioni a piacere in una miscela vertiginosa di suoni, testi e immagini. Negli episodi 1x03 (“The Entire History of You – Ricordi pericolosi”), 3x00 (“White Christmas”), 3x01 (“Nosedive – Caduta libera”) e 3x05 (“Men Against Fire – Gli uomini e il fuoco”) le modalità di visione potenziata sono progetti industriali che hanno evidentemente superato l’adolescenza della sostenibilità economica e sono accettati da tutti. Viene anzi stigmatizzato chi non ne è provvisto: sono fuori dal gioco vetero- umanisti, nostalgici e chi ha qualcosa da nascondere.

Oggi la diffusione di questa visione potenziata affronta problemi relativi alla miniaturizzazione fisica e al modo di impartire i comandi. Sul primo fronte la strada sembra essere quella di eliminare ingombri spostando la potenza di calcolo dal visore al cloud o, più probabilmente, dal visore ad un dispositivo vicino come ad esempio uno smartphone. Quanto all’interfaccia, il famigerato DARPA (dipartimento della Difesa USA) lavora da tempo a un modem corticale connesso direttamente a quella parte di cervello preposta all’elaborazione delle immagini. Sebbene le trasmissioni neurali siano già una realtà, la loro implementazione su larga scala appare ancora lontana. Nel medio termine sembra più probabile l’utilizzo di comandi vocali.

Innovazione numero quattro: la smart home. Sotto forma di intelligenza artificiale, l’utopia tecnologica bussa alla porta per entrare nelle faccende domestiche. Greta (episodio 3x00, “White Christmas”) decide di modernizzare la sua casa affidandosi agli ultimi ritrovati in fatto di domotica e informatica. Quale governante meglio di una replica di se stessi? Per creare questa replica Greta deve farsi impiantare un chip nel cervello così da memorizzare e digitalizzare tutti i suoi gusti e le sue abitudini per poi travasarle in una intelligenza artificiale. La smart home è come una festa di compleanno del cliente in cui gli invitati sono “big data”, consumismo e automazione. Tutti insieme a ballare e cantare per renderci la vita migliore.

Sulle prime Greta 2.0 è ritrosa, non accetta l’idea di essere un simulacro. Non vuole lavorare. Il programmatore della ditta che ha creato il sistema la costringe allora a vivere in totale inattività per un periodo di tempo inconcepibilmente lungo. Basta girare avanti e indietro la manopola del tempo ed ecco che per la simulazione software passano interi decenni in pochi secondi. A questo punto non è forse meglio mettersi al lavoro e far funzionare questa gioiosa macchina della domotica? Qui lo sceneggiatore Charlie Brooker riesce ad attingere al meglio delle sue risorse in quanto a sadismo arrivando a porsi questa domanda: come si tortura una coscienza artificiale?