Il gabinetto del dottor Calegari è un cosmo di armonia e follia. Ci sono le ampolle e i filtri, ma c’è anche la consapevolezza che non sono gli anni e neanche i giorni a farci vivere a lungo ma i fili che ci muovono, la loro resistenza. Il sonnambulo in grado di prevedere il futuro avvertì Calegari che sarebbe partito, come soldato, in guerra. Avrebbe varcato gli abissi temerari della prima guerra mondiale. Calegari fece un leggero sorriso. Non sarebbe mai andato in guerra, piuttosto il plotone d’esecuzione. Con uno stratagemma e con il suo potere ipnotico vestì il sonnambulo di una divisa militare e lo mandò sul fronte. Il sonnambulo rischiò molto. Aveva un fucile sgangherato mentre i suoi nemici erano armati fino ai denti. Quando un nemico si avvicinò alla sua trincea pensò di aver sbagliato le previsioni del futuro e cadde a terra come un peso morto, perdendo i sensi. Si risvegliò qualche minuto dopo, sorseggiando un po’ d’acqua dalla borraccia del soldato nemico in un’atmosfera di allucinazione.
– Grazie – disse con un filo di voce.
– Non sono un tuo nemico.
– Grazie – ripetette sorseggiando ancora una volta.
– Perché non mi hai ucciso? – aggiunse quasi sussurrando.
– Qualche minuto prima di entrare nella trincea, mi sono imbattuto in un tenente aggressivo e con i capelli dritti.
– Aveva un naso a patata?
– Sì.
Doveva essere il dottor Calegari, pensò il sonnambulo.
– L’ho ucciso. Non potevo fare altrimenti, mi avrebbe sparato.
– Ucciso?
– Sì. È per questo che non ti ho colpito. Ho ucciso una volta e non voglio farlo più.
Anche Calegari è partito per la guerra, pensò il sonnambulo. Non ho sbagliato il suo futuro, ragionò il sonnambulo, abile nello stillare dolcezze sulle sue amaritudini. La prima guerra mondiale era un inferno. I morti erano come chicchi di grano disseminati in ogni angolo calpestato, si uccideva come se fosse un’ininterrotta festa di compleanno mentre lui era felice per aver indovinato un piccolo futuro. Quello del dottor Calegari.
Il sonnambulo pensò di aver superato i confini umani, i trastulli del cervello. Si disinteressò della carneficina e, dal fondo della trincea, alzò lo guardò verso alto. Il vento che aveva fatto il suo giro, non spingeva più. In lontananza si potevano scorgere migliaia di bolle di sapone che, lentamente, si avvicinavano.
– Ma tu perché parli così bene la mia lingua?
Si guardò intorno. Nella trincea solo chicchi di grano, fuori tanti chicchi di grano e proiettili vaganti nel falò della sua mente. Il nemico armato di fucile era scomparso. Si guardò di nuovo intorno. Solo fuochi neri, i fuochi dell’inferno. E tante anime senza vita con i loro elmetti scalcinati e con in mano, ancora ben stretti, i fucilini con le baionette. La musica era niente. Il suono della morte allontanò la polvere degli scontri a fuoco e, per un attimo, svelò al sonnambolo il cielo sopra la guerra. Le bolle di sapone erano sempre più vicine. Erano di un colore azzurro libellula, perché mature e pronte a scoppiare. L’astronave psitronica attraversò il buio del cielo come una stella in esaurimento ma quei pochi che riuscirono a vederla non se ne curarono e presto la dimenticarono.
Più tardi si accorsero di alcuni ameboidi che attraversavano strade e guidavano auto volanti. Erano tutti di mostruoso aspetto. Alcuni strisciavano in terra, altri rotolavano nei giardini pieni di erbacce. Erano intessuti di vento e lacrime. Erano in pochi ma in poco tempo si moltiplicarono e nessuno ci fece più caso.
– Io consiglio di andare a prendere le biciclette – disse uno. Un altro si mise a ridere. Le biciclette non c’erano più, da quando il campo gravitazionale che governa la città non ha più proprietà quantistiche. Rinunciarono alle biciclette. Intanto le bolle di sapone fluttuavano.
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