1. La Morte 

Il cadavere era stato buttato lì, sotto il sole che sferzava cattivo la discarica di Nova. I miasmi, che il corpo esalava, si mescolavano all’odore dei rifiuti morsi dalla canicola e al lento alitare della bocca dell’inceneritore.

Eva si avvicinò di più.

Sentì la gola seccarsi, quando la bocca muta del cadavere l’afferrò, urlandole un silenzioso aiutami.

Si chinò.

La vittima era giovane. I capelli sottili, di un biondo scolorito, si erano aggrappati al terreno come rigagnoli di acqua. Gli occhi grigi guardavano il cielo da orbite scavate e le labbra erano aperte in un grido, fatto di detriti e fango. Il collo era piegato all’indietro, come se qualcuno l’avesse trascinata, e i seni le erano stati strappati come erbaccia da un campo di fiori. Buttati chissà dove.

Doveva essere lì da parecchi giorni, a giudicare dallo stato in cui versava. Eva si coprì il naso, quando un refolo di vento fece alzare l’odore della carne marcia. La sentì aggrapparsi ai polmoni e dovette tossire per liberarsene.

- Rilevata altra anomalia. – La voce metallica del droide la risvegliò e lei gliene fu grata. Ancora un attimo e avrebbe vomitato di fianco al cadavere, lì dove una macchia rossa si era impastata alla terra.

- Fa’ vedere – sussurrò Eva, scansandolo.

L’anomalia era un dito, che era stato reciso dalla mano sinistra della vittima: l’anulare. Era stato buttato a terra, di fianco al corpo. Sotto il sangue incrostato, sulla pelle, era visibile una sottile linea chiara.

- Portava un anello – commentò Eva.

Si asciugò il sudore dalla fronte e sollevò lo sguardo. Il cielo era limpido e non c’era una nuvola a placare l’arsura di agosto. Il sole stava mangiando la carne di quel cadavere, senza un briciolo di pietà. Era la prima volta che a Nova succedeva una cosa del genere ed Eva credeva che ogni parte di quella città ne sarebbe stata scossa.

Invece, no.

Il sole continuava a bruciare le piante secche intorno alla discarica, le strade, i pezzi di eratex abbandonato e il corpo mutilato della donna.

- Percepisco alti livelli di ansia, commissario – esclamò il droide.

- Tranquillo, R24. – Eva abbozzò un sorriso di circostanza. – Credo sia una reazione normale, per noi umani. Dimmi il nome della vittima.

R24 annuì, muovendo la testa di metallo rovente. Aprì una valigetta e prese un rilevatore. La punta dell’attrezzò perforò la pelle del cadavere e lo schermo restituì l’immagine del suo Dna.

- Rachele Poggi. – La voce del droide risuonò tra i rifiuti accatastati. Calma e piatta, come ci si doveva aspettare da un guscio di eratex.

Eva, invece, sentì la propria tremare. Adesso, quel corpo aveva un nome.

- Fammi avere un dossier sulla vittima – disse. – Voglio un’analisi completa dei materiali trovati sul suo corpo.

- Commissario, percepisco variazioni instabili nelle modulazioni della sua voce – replicò R24.

La donna lo bloccò con un gesto: – Puoi andare, adesso.

2. Il Matto

Eva sentiva il fiato farsi più corto, mentre i piedi mangiavano la strada.

Era la prima volta che a Nova qualcuno moriva in quella maniera.

Accelerò la corsa, nel tentativo di cacciare via l‘immagine del cadavere. Il sudore che le colava ai lati delle tempie e si infilava nella tuta, le diede l’illusione di portare via tutto l’orrore di quella mattina. Anche il cielo che ricopriva il parco sembrò accontentarla, mostrando un briciolo di dolore.

Si tinse di rosso.

Il sole morente si stese dietro il Grande Muro, ripiegandosi in un pianto sanguigno, e sparì lasciando la donna in un’ombra livida che le si arrampicò su per la pancia e per il torace, inchiodandole i polmoni e le gambe.

Eva fu costretta a fermarsi.

Si sedette sul bordo del marciapiede e il rivolo di sudore, che le si era fermato sulla clavicola, evaporò nell’aria calda. La strada aveva succhiato il calore del giorno e ora lo restituiva a Nova. Le cicale frinivano senza sosta tra gli alberi e poco distante, oltre il parco, le luci si erano accese nell’aria imbrunita.

Eva se ne stette seduta fino a quando il cielo divenne nero. Davanti a lei, la torre della sicurezza si era illuminata e svettava avvolta da una luce azzurra. Sulla sommità, la scritta Cerebrum tremò, per poi tornare ferma a guardare l’intera città.

Nova era sempre stata un posto sicuro.

Da quella mattina, però, non lo era più.

Gli occhi di Eva percorsero il Grande Muro. Le lastre di eratex si ergevano inossidabili, di fianco alla torre della Cerebrum. Difendevano la città da quando la guerra aveva spazzato via il resto del mondo. Non era rimasto nulla al di fuori di Nova, se non esseri contaminati dalle radiazioni delle bombe. Mostri striscianti, che si aggrappavano alle pareti della barriera nel tentativo di entrare.

La sommità del Grande Muro riverberò la languida luce lunare. Un tempo, quella difesa non c’era e la terra era sconfinata. Poi erano arrivate le nuvole atomiche, che si erano mangiate pezzo dopo pezzo le città, le foreste e i mari.

Era rimasta Nova, a sopravvivere.

Nova era il nuovo mondo.

Nova era la nuova vita.

Quella mattina, però, c’era stata la morte. Per la prima volta, da quando Nova era stata fondata, un essere umano ne uccideva un altro. Solo i mostri oltre il muro erano capaci di quelle brutalità, ma la barriera e l’alta torre erano lì a ricordarle che nessuna falla era possibile, nella sicurezza. Cerebrum era un’organizzazione senza crepe. Loro non potevano essere entrati.

Dunque, chi era stato?

Eva si alzò in piedi e stirò i muscoli delle gambe. Gettò un’ultima occhiata alla torre, poi imboccò il viale per tornare a casa.

- Ci nascondono molte cose – sussurrò una voce, dopo qualche passo.

Eva si fermò.

Era sicura di aver sentito qualcuno, in mezzo al frinire delle cicale.

- Tante, ce ne nascondono.

Di nuovo, la voce rotolò sull’asfalto caldo.

- Chi sei? – chiese Eva, cercando tra i cespugli.

Scorse un’ombra accovacciata. Un cane randagio, ricurvo su se stesso.

L’ombra uscì fuori, mostrando non un cane ma un uomo. Era giovane, ma sembrava che il peso di qualcosa gli stesse divorando la faccia e il corpo. Le spalle erano ricurve, magre. Le braccia due stecchi. Le guance erano incavate e le labbra esangui come se gli avessero succhiato la vita.

L’ombra umana indicò la torre della Cerebrum.

Eva si avvicinò. L’uomo emanava un terribile odore, che le ricordò quello del cadavere della discarica.

Anche quest’uomo è morto, pensò.

- Ci nascondono molte cose – ripeté lui, con un ghigno storto.

- Cosa ci tengono nascosto?

- Cosa non lo so. Ma sono certo che qualcosa c’è. E tu e tutti gli altri siete tanto ciechi da non accorgervene. Non ti sei mai chiesta cosa c’è dietro quel muro?

L’uomo buttò le parole sulla strada bollente, lasciandole evaporare nell’aria. Si grattò la testa. Le ciocche arruffate raccolsero la luce dei lampioni. Sembravano paglia.

- Il muro… – ripeté, andandosi ad accovacciare dietro il cespuglio. Ritornò a essere un’ombra, con occhi azzurri e incavati che fissavano la torre.

Eva riempì i polmoni d’aria e scosse la testa. Sarebbe tornata il giorno dopo per dargli un po’ di cibo o l’avrebbe portato al commissariato per cercargli un tetto. Adesso, desiderava solo tornare a casa e buttare nello scarico della doccia tutto quello che le si era appiccicato addosso.

Un omicidio e un matto a Nova.

Non si erano mai visti, entrambi.

3. L’ Appeso

- Questo è il dossier della vittima?

La voce affondò nella tazza di caffè e la costrinse ad alzare gli occhi dalla sua postazione.

- Prego? – chiese Eva all’uomo che le stava davanti.

Lui, senza troppi convenevoli, ingrandì con i polpastrelli l’ologramma del dossier. Un leggero tocco e le foto della vittima si frapposero tra lei e lo sconosciuto. Le sfogliò. Un primo piano del volto, la foto del torace con i seni asportati, il particolare del dito staccato.

Eva afferrò con la mano le immagini e le chiuse in un pugno, piccata.

L’ologramma si spense.

- Prego? – ripeté.

- Mi scusi – rispose l’uomo. Sfilò dalla giacca il distintivo e lo mostrò.

- Mattia Gobetti. – Eva lesse il nome, scandendo bene le sillabe. Poi sgranò gli occhi. – Alta sicurezza della Cerebrum

- Ai suoi ordini – ironizzò lui. La testa rasata luccicò sotto le luci della sala e gli occhi, due fessure di argento, parvero scandagliarla. – Allora, mi fa’ un rapido resoconto?

- Un resoconto di cosa? – chiese Eva, mentre una parte della sua testa rincorreva altri pensieri. Un membro della Cerebrum faceva visita al commissariato e chiedeva informazioni sull’omicidio di Rachele Poggi. Dunque, quello che era accaduto alla discarica poteva avere una stretta relazione con quello che c’era al di fuori del Grande Muro.

- Un resoconto di quello che ha scoperto finora.

La voce roca dell’uomo la fece riaffiorare.

Eva scosse la testa. Sorrise, imbarazzata.

- Mi scusi. Le racconterò tutto mentre andiamo alla fabbrica della Eratex.

- Alla Eratex? Come mai?

- Le dirò anche quello strada facendo – rispose lei. – Le va di venire con me?

Eva uscì dal suo ufficio e imboccò uno dei corridoi del commissariato. Mattia Gobetti la seguiva, racchiuso in una divisa nera. Dal colletto della giacca, spuntava sulla pelle un tatuaggio. Con la coda dell’occhio, Eva cercò di metterne insieme le linee.

- È il simbolo dell’atomo – esclamò lui.

Eva sobbalzò, scoperta sul fatto.

- Non volevo essere indiscreta.

- L’ho fatto quando ero uno studente di biotecnologie – spiegò l‘uomo, abbozzando un sorriso. – Prima di entrare nella sicurezza della Cerebrum, ero in ambito scientifico. Allora, come mai andiamo alla Eratex?

Eva attraversò i parcheggi. Infilò una tessera nella fessura della sua moto e salì a bordo. Fece un cenno all’uomo, che senza troppe esitazioni prese posto dietro di lei.

- Sul corpo della vittima sono state trovate tracce del materiale con cui viene realizzato l’eratex – spiegò Eva, mentre il suo indice accarezzava un bottone. Uno schermò protettivo scivolò sui loro corpi e la moto si sollevò da terra, con un rombo accattivante.

Lasciarono il parcheggio e sfrecciarono sulla strada. La superficie levigata della moto rifletté i raggi del sole, che già di primo mattino si affannava sui palazzi di Nova.

- Credo che l’assassino lavori alla Eratex – aggiunse, quando furono fermi a un incrocio. La moto fluttuò, rombando nell’attesa.

- Crede? Non ne è sicura?

- Sto solo cercando di fare deduzioni logiche… – Eva svoltò su un viadotto. – Non mi era mai capitato un omicidio, qui a Nova.

- C’è dell’altro?

La donna annuì: – La vittima non aveva l’anello al dito. Credo che l’assassino gliel’abbia portato via. Questo mi fa pensare a un delitto passionale, il che spiegherebbe anche l’asportazione dei seni, come privazione di un simbolo di bellezza e femminilità.

- La sue deduzione mi sembrano più che coerenti – commentò l’uomo.

La fabbrica della Eratex apparve in lontananza, oltre il viadotto. Un enorme fabbricato, con bocche che esalavano fumi densi e biancastri. La scritta rossa e bianca campeggiava in alto, contro il cielo terso.

- Il marito della vittima lavora alla Eratex – aggiunse Eva. – Una strana coincidenza, non trova?

Mattia Gobetti sorrise e sollevò le iridi grigie all’enorme complesso, dove producevano il materiale che aveva cambiato la tecnologia di Nova.

- Una strana coincidenza, davvero – confermò.

Eva parcheggiò la moto. L’ingresso della Eratex era una grande bocca affamata, attraverso cui di giorno e di notte passavano quasi la metà degli abitanti di Nova.

Entrarono.

La ragazza dietro il bancone sorrise.

- Posso esservi utile? -chiese.

Eva mostrò il distintivo: – Stiamo cercando Filippo Poggi. È un operaio.

- Un attimo – si affrettò a rispondere la ragazza. Attivò uno schermò e cercò il nome dell’uomo. – Eccolo, settore B5.

Filippo Poggi era davanti alla macchina in funzione. Rovesciava in un grande imbuto una polvere grigia, con movimenti nervosi. Sudava. Aveva la faccia scavata, che le ricordò quella del matto.

- Signor Poggi? – chiese Eva, mostrando il distintivo.

Non dovette dire altro.

Tra il rumore assordante dei macchinari, Filippo Poggi lanciò un urlo e si buttò a terra. Rannicchiato, tremava come una foglia al vento.

- Ci stava aspettando – esclamò l’uomo della Cerebrum.

A Eva saltò il cuore in gola. Non era abituata ad arrestare qualcuno per omicidio. E non era abituata ad arrestare qualcuno che uggiolava come un cane ferito.

- Devo trattenerla per l’omicidio di sua moglie, signor Poggi. Le dovrò mettere delle manette.

Quasi si scusò, quando gli fece scattare intorno ai polsi due anelli di energia magnetica, che inchiodarono le ossa dell’uomo l’una contro l’altra.

La luce della stanza del commissariato tremolava. Le pareti erano inzuppate di caldo e sudore. Si respirava a stento. Eva si sedette. L’uomo stava accasciato dall’altra parte del tavolo. Sollevò lo sguardo infossato, arrossato dalle lacrime, e aprì la bocca.

- L’ho uccisa io… – balbettò.

- Perché? – chiese lei.

L’uomo si strinse nelle spalle. Le labbra gli tremarono. Cercava con gli occhi nella penombra della stanza, quasi come se potesse afferrarle lì, le parole che gli servivano a spiegare.

- Mi aveva lasciato per un altro – guaì. – Li ho trovati insieme e li ho seguiti fino alla discarica. Li ho visti mentre… E lei aspettava un bambino, capisce?

Eva aggrottò le sopracciglia.

- Non aspettava nessun bambino.

- Sì, invece.

La voce dell’uomo si impastava alle lacrime. Stringeva le mani ossute in due pugni, così forte che le parve di sentire le ossa scricchiolare.

- Il corpo è stato scandagliato dai nostri droidi – sussurrò. – Niente feti, glielo posso assicurare.

Eva fece una pausa, per cercare le parole giuste.

- Non c’erano nemmeno tracce di liquidi seminali diversi dal suo, signor Poggi. Lei è certo di averli visti mentre…

- Sì! – Urlò lui. Le pareti della stanza vibrarono. – Con questi occhi!

- Una testimone dice di aver visto la signora Poggi attraversare il viale che porta alla discarica, con un robot tra le braccia. Si sono fermate a parlare, e sua moglie avrebbe affermato che stava andando a buttare “questo stupido robot che non funziona più”. – Eva lesse la testimonianza dai dossier che aveva tra le mani. – Non era da sola…

- Era con lui?

- No – rispose Eva. La sua voce tentennò. – Era con lei, signor Poggi. Lei e sua moglie siete andati insieme alla discarica, a buttare il robot.

- Ma cosa… – la faccia dell’uomo si deformò. Gli zigomi appuntiti parvero bucare la pelle.

Eva si alzò dalla sedia e lo lasciò lì, con gli occhi sbarrati nella penombra.

Fuori, Mattia Gobetti aspettava seduto a una panchina, con le gambe accavallate e gli occhiali neri calati sul naso. Sembrava dormire, ma appena la vide si raddrizzò.

- Allora? -chiese.

- Ha dei ricordi parecchio distorti di quanto è accaduto, in completa opposizione con quello che dicono i testimoni. Deve occuparsene il reparto psichiatrico dell’ospedale.

Eva afferrò le sue cose e percorse a passi svelti il corridoio. L’unica cosa che desiderava, adesso, erano una corsa e una doccia.

Aveva corso per un’ora, mentre il sole moriva dietro il Grande Muro. Il sudore le scivolava sulla schiena, ma non si era portato via le immagini di quegli ultimi due giorni.

Erano lì, a rosicchiarle gli occhi.

Eva rallentò e si asciugò la fronte. Scrutò tra le foglie, alla ricerca del matto. Nello zaino aveva messo del cibo e dell’acqua. Quando scorse un’ombra abbarbicata sotto la coltre di rami, si acquattò e vi si infilò dentro.

- Ciao – sussurrò.

- Ciao – rispose lui, con gli occhi grandi e azzurri, senza fondo.

- Ti ho portato questi.

Eva gli passò il contenitore e la borraccia d’acqua. L’uomo li afferrò, come un lupo affamato. Affondò le dita nel cibo e se lo ficcò in bocca senza fare troppi complimenti.

Eva sorrise.

- Come ti chiami?

- Francesco.

- Da dove vieni?

- Dalla morte.

Il sangue le si raggelò nelle vene. Un brivido le percorse, maligno, la schiena.

- Mi chiedevo, Francesco, se ti va di venire con me al commissariato. Potrebbero trovarti un luogo sicuro in cui stare.

Francesco sollevò il muso sporco, con l’espressione di un cane interrotto mentre mangia. Scosse la testa.

- No, grazie. Quelli della Cerebrum mi troverebbero subito. Me ne resto qui, proprio sotto la torre. Perché così sono molto vicino, e loro non vedono a un palmo dal loro naso.

- La Cerebrum ti sta cercando? Perché?

- Questo non lo so. Ma lo so.

Eva respirò profondamente. Quell’uomo aggrovigliato nei rami non poteva aver fatto nulla, per buttarsi addosso lo sguardo della Cerebrum. Di certo non veniva da oltre il muro, né dalla morte.

Era solo un matto.

- Io vado – sussurrò. – Magari, domani torno a portarti altro cibo.

Francesco annuì, con un gesto veloce che gli fece tremare la sterpaglia di capelli che aveva sulla testa.

- Tu sta attenta a quelli della Cerebrum. Sono serpi infide, me lo dicono le voci qui dentro – sibilò, indicandosi la testa.

Eva si allontanò. Percorse il viale con lo sguardo basso. C’era qualcosa, nelle parole di quel matto, che la turbava. Le si erano piantate nel cuore, come una stilettata. Anche i suoi occhi, le si erano aggrappati addosso, e non riusciva a scrollarli via.

Quando le cicale si zittirono, Eva sollevò lo sguardo. Per poco non cadde all’indietro. Mattia Gobetti le stava davanti.

- Signor Gobetti. Mi ha messo una paura…

Eva lanciò un’occhiata al punto in cui aveva lasciato Francesco, poi ritornò all’uomo della Cerebrum. I suoi occhi avevano il colore del cielo all’alba, un grigio leggero, come una foschia appena accennata. Sembravano nascondere parecchie cose.

- Mi dispiace – si scusò lui. – L’ho vista da lontano e ho provato a chiamarla, ma lei non mi ha sentito.

- Le va di venire a casa mia? – Eva si stupì per quella domanda, un attimo dopo averla fatta. La richiesta era azzardata ma la sete di verità, dopo l’incontro col matto, le ardeva in gola. – Faccio una doccia e preparo una cena per due, che ne dice?

- Accetto. – Gli occhi liquidi dell’uomo raccolsero la luce dell’alta torre, riflettendo bagliori di argento. – Ma cucino io.

Quando furono a casa, Eva si buttò sotto lo sbuffo della doccia. L’acqua scrosciava rumorosa e vorticava giù per lo scarico, insieme alle domande che non la lasciavano in pace da quando aveva parlato con quel ragazzo.

Fece capolino dalla porta del bagno, quando ebbe finito, avvolta nell‘asciugamano caldo. Mattia Gobetti era ai fornelli. Le faceva un certo effetto vedere un uomo che cucinava nella sua casa. L’ultimo, era stato suo padre.

- Tutto bene? – chiese.

L’uomo si voltò e sorrise.

- Tutto bene.

Eva andò a vestirsi. Quando tornò, Mattia Gobetti aveva apparecchiato la tavola. Un odore invitante si era sparso tra le pareti.

- L’odore e l’aspetto sono buoni – commentò.

Si sedette e lui versò il vino rosso. I calici si sfiorarono appena e il gusto fruttato le si sparse sul palato, non appena diede un sorso.

- Filippo Poggi è morto – disse lui, dopo aver bevuto.

Eva sollevò lo sguardo e abbassò il calice.

Filippo Poggi era morto.

Lo odiò, per averglielo detto in quel modo. Le aveva scagliato addosso quella notizia, tra l’odore invitante della carne e il sapore voluttuoso del vino.

- Cosa? – Posò il bicchiere.

- Si è impiccato nel pomeriggio. Usando la tuta da lavoro.

Eva batté la forchetta sul piatto.

- Mi dispiace, sono stato più diretto di quanto avessi voluto.

- Non si può dire che il tatto sia la sua dote migliore – commentò lei.

L’immagine di Filippo Poggi nudo, appeso alla tuta da lavoro, le oscillò davanti agli occhi. Riuscì a vedere il riflesso di quel corpo magro, divorato dal rimorso e dalla pazzia, nel rosso rubino del bicchiere. Tuffò le labbra sul bordo e diede un sorso. Ingoiò l’immagine di quel disgraziato e la buttò giù.

- Com’è lavorare alla Cerebrum? – disse, quando l’immagine di Filippo Poggi fu lontana.

- È un lavoro come un altro.

- Andiamo, siete dei privilegiati. Sapete cose che noi non sappiamo. Custodite segreti…

Le labbra di Mattia Gobetti si allargarono in un sorriso.

- Dammi del tu, Eva – esclamò. – Ti assicuro che non ci sono segreti, nella Cerebrum.

- Eppure siete sempre così sfuggenti. Arrivate, fate le vostre indagini in città, e ritornate alla torre. Che c’è nella torre?

- Perché ti interessa saperlo?

- Cosa si vede dalla torre? Cosa c’è oltre il muro? – incalzò Eva, stupendosi di quella sete di sapere che all’improvviso le aveva stretto la gola, al punto da farla soffocare.

L’uomo aggrottò le sopracciglia. Diventò serio.

- C’è il deserto, oltre il muro, lo sai.

Eva si alzò. Ripulì la bocca col tovagliolo e andò a sedersi sul bordo della finestra. Posò il palmo sul vetro. Sottili righe verdi le scandagliarono la pelle e il vetro scomparve nei muri. L’aria di Nova le accarezzò la nuca.

- C’è solo deserto? – chiese.

Sentì le mani dell’uomo accarezzarle il collo.

Chiuse gli occhi. Lo lasciò fare.

- Fuori da Nova… – Le parole di Mattia Gobetti incespicarono. Eva sentì una nota storta, nella sua voce. Poi l’uomo si ricompose, e terminò la frase: – Fuori ci sono i resti delle antiche civiltà. Il nulla. Ecco cosa si vede dalla torre. Un’infinita distesa di nulla.

Eva sorrise. Si voltò verso l’uomo che incombeva su di lei e lo baciò.

Non fu come il primo bacio, timido e impacciato. Quello l’aveva dato a un tale Alessandro, di cui non ricordava nemmeno il cognome. Erano nel giardino della scuola. Lui non sapeva nemmeno dove metterle le mani. Il secondo era stato un bacio innamorato. Era un ragazzo dell’accademia militare, dal sorriso strafottente e gli occhi neri come la notte. Gli altri baci, erano stati senza particolare sapore.

Quello a Mattia Gobetti, invece, fu un bacio assetato. Avrebbe voluto bere dalle sue labbra tutto quello che lui sapeva. Era un bacio che si aggrappava ai suoi occhi, per vedere quello che lui vedeva dalla torre.

Finirono sul divano. I vestiti caddero a terra, con un fruscio silenzioso.

I respiri affannati si mescolarono ai rumori della città che non dormiva.

4. La Torre 

Quando Eva si svegliò, era incastrata nel fianco di Mattia Gobetti. Lui russava, sollevando il petto nudo sotto i bagliori che entravano dalla finestra. Fuori il traffico scorreva, nel buio di un cielo pesto.

Eva scivolò lenta, silenziosa. Sul mobile all’entrata, l’uomo aveva lasciato la giacca. Frugò nel taschino. Si sentì una miserabile ladra ma aveva bisogno di qualcosa in più, per placare la sua sete.

Trovò una pallina metallica, liscia, non più grande di una moneta: un taccuino. Tornò vicino all’uomo, delicatamente ne afferrò l’indice e lo poggiò sulla superficie levigata della sfera. Il lettore ottico scandagliò le linee curve delle sue impronte digitali e la pallina si aprì a metà, proiettando un bagliore azzurro sui mobili della stanza. La luce scivolò sui muscoli dell’uomo, lambendoli delicatamente, e lui mugugnò qualcosa ma poi tornò a dormire.

Eva ingrandì l’ologramma proiettato dal taccuino. Sgranò gli occhi.

Osservazione di Eva Miglioli, da qui in avanti soggetto B. Il soggetto B ha dimostrato una buona reazione agli stimoli indotti e un ottimo senso di deduzione. Davanti a un evento stressante è riuscita a mantenere un buon controllo emotivo. Grazie agli elementi forniti, il soggetto B ha formulato giuste ipotesi verificate empiricamente.

Le dita impacciate di Eva sfogliarono la pagina trasparente. I dati tremolarono appena, nell’aria calda della notte.

Osservazione di Filippo Poggi, da qui in avanti soggetto C. Il soggetto C ha agito in base agli alti elementi stressanti prodotti dai dati immessi. Il microchip ha elaborato la stessa molecola di un cervello biologico, ovvero l'attivazione di proteine che hanno portato a una reazione violenta fino alla fase depressiva acuta con conseguente tentato suicidio. Il soggetto C mostra l’evidente falla del microchip TrueBrain e i rischi di una manipolazione esterna.

Eva sentì la bocca prosciugarsi. Non riusciva a capire cosa significassero quegli appunti. Sfogliò ancora, questa volta per arrivare alle prime schede del taccuino, e scorse il nome di Rachele Poggi.

Osservazione di Rachele Poggi, da qui in avanti soggetto A. Il soggetto A ha reagito all’aggressione producendo una forte produzione di glucosio per i muscoli, accelerazione del battito cardiaco, aumento della pressione sanguigna, simili a quelli che avrebbe prodotto un’amigdala biologica in situazione di pericolo.

Eva lasciò cadere la sfera argentata, che si richiuse in se stessa. Il rumore che produsse a contatto con il pavimento, svegliò l’uomo.

- Questa cosa ci fa qui? – sussurrò Mattia Poggi, prendendo la sfera tra indice e pollice. La voce gli raschiò in gola, ancora impastata dal sonno.

Eva scattò in piedi, ma lui l’afferrò. Cercò di divincolarsi, con l’unico effetto di rovinare a terra, tra i cuscini del divano.

- È tutto a posto, Eva, calmati! – esclamò Mattia Gobetti.

La voce dell’uomo la raggiunse come una carezza, ma lei cercò di liberarsi, scalciando. Erano due corpi nudi che lottavano nel buio della stanza, illuminati dalle luci verdi dei mezzi che scorrevano sulle sopraelevate.

- Che significano quegli appunti? – urlò Eva.

La voce le grattò la gola, tanto da farle male.

Le lame di luce che entravano dalla finestra, l’accecarono. Morse, senza sapere dove mordeva. Afferrò con i denti la mano di lui, e strinse fino a quando l’uomo fu costretto a lasciare la presa.

Eva si catapultò verso il tavolino. Afferrò la pistola dell’uomo e la scarica elettrica attraversò il corpo nudo di Mattia Gobetti, dalla testa ai testicoli, fino alla punta dei piedi. L’uomo si accasciò come un sacco vuoto e un rigagnolo di schiuma bianca gli uscì dalla bocca, mentre i suoi muscoli si contraevano a scatti.

Eva si lasciò scivolare a terra. Singhiozzò. Non aveva tempo, però, per starsene lì a piangere e si asciugò in fretta le lacrime, portandole via col dorso della mano. Si rivestì, quasi inciampando tra i vestiti di lui, e frugò nella giacca alla ricerca del tesserino della Cerebrum.

Lo strinse nella mano e uscì.

La torre della Cerebrum incombeva su tutta Nova. Alta, slanciata. Tre colonne cilindriche facevano da base a tre piani concentrici. In cima, la scritta Cerebrum riempiva il cielo.

Eva si fermò all’entrata, lì dove iniziava il viale alberato del parco, delimitato dal Grande Muro. Alla fine di quel viale, nascosto tra i rovi, c’era Francesco. Un mucchietto di ossa, acquattato tra l’erba.

Non era poi così matto.

Eva passò il tesserino sul lettore ottico. Si attivò uno schermo, che sparse una luce fredda nell’aria.

- Identificazione biometrica della retina e iride – disse una voce metallica.

- Merda… – esclamò Eva, spostandosi.

- Credevi che fosse così facile?

La voce di Mattia Gobetti l’afferrò alle spalle. Stava zoppicando. La camicia era ancora slacciata e la cravatta, poggiata intorno al collo, pendeva senza vita Le passò di fianco e la spostò con una leggera spinta. Le strappò di mano il tesserino e lo passò sul lettore ottico. Quando la voce si riattivò, fissò lo sguardo verso il laser che scandagliò i vasi sanguigni della sua retina, facendo aprire in uno sbuffo silenzioso le porte.

- Io non so cosa mi stia prendendo, devo essermi bevuto il cervello – sibilò l’uomo, puntando il dito contro Eva. – Vuoi davvero sapere la verità?

Eva rimase immobile, spaventata.

- Grazie. – Furono le uniche parole che riuscì a dire.

- Grazie un corno – rispose lui. – Chiedimi scusa per prima, piuttosto.

Mattia Gobetti s’infilò nel corridoio ed entrò nell’ascensore. Salirono per un tempo che a Eva parve infinito. Le sembrava di essere schiacciata al pavimento e l’istinto di fuggire le fece tremare le gambe.

L’uomo non disse una parola, mentre si allacciava la camicia e faceva un nodo alla cravatta. Si limitò solo a farle un cenno, quando le porte si aprirono. Percorsero un corridoio illuminato da una luce sbiadita, che lo faceva sembrare un tunnel senza fondo. Passò un uomo in camice bianco, che lo salutò. Mattia rispose con un sorriso e si fermò poco dopo, di fronte a una porta. Digitò un codice sullo schermo e le ante si aprirono, soffiando come se avessero avuto vita.

- Qui è dove lavoro io – disse.

Eva entrò. La sala era piena di schermi accesi, su cui scorrevano cifre: una leggera pioggerellina verde. Due grandi scrivanie occupavano un’isola al centro della stanza. Passò i polpastrelli sulla loro superficie fredda e levigata, mentre proseguiva nella penombra. Sul muro davanti a lei, c’era una larga finestra. Oltre il vetro, in una stanza lambita da una luce impalpabile, due scanner medici stavano muti, uno di fianco all’altro.

Si voltò. Sul fondo della stanza, c’era un’altra finestra. Si avvicinò e poggiò il palmo contro il vetro. Lo sentì aderire completamente, e solo allora guardò davanti a sé. Dietro il riflesso di due occhi verde acqua, c’era una stanza piena di cavi e tubi, e ancora macchinari medici e schermi. Su un lettino, c’era un uomo disteso. Aveva un camice bianco, due tubi che gli entravano nelle narici e uno più grosso che gli usciva dalla bocca. Ma non fu questo, che fece crollare le gambe di Eva.

La calotta cranica dell’uomo era tagliata a metà.

Dentro, qualcosa non era al suo posto.

Quell’uomo non aveva il cervello.

- Tumore. – Le parole di Mattia Gobetti toccarono il vetro e scivolarono giù, come gocce di condensa. – L’hanno operato, ma nella fase successiva il tumore si è infiltrato nel pavimento del vicino quarto ventricolo ed è passato alle meningi. A quel punto, il paziente ha firmato l’assenso.

- L’assenso per cosa?

Mattia Gobetti respirò profondamente. Aveva lo sguardo fisso al vetro, il profilo disegnato dalla debole luce della stanza. Eva capì che non riusciva a parlare, perché quello che stava per dire aveva un peso insostenibile.

- Mi hai portata fin qui, devi dirmi tutto – lo esortò.

L’uomo poggiò la mano sullo schermo alla sua destra e le luci della stanza si accesero una dopo l’altra. Un biancore accecante, che scivolò sulle cose come una colata d’acqua fresca. Un biancore accecante, che mostrò cosa c’era nella testa del paziente.

Non era vuota.

Nella cavità cranica, lì dove avrebbe dovuto esserci un cervello ormai mangiato dalla malattia, c’era un microchip. Nient’altro che un microchip.

- Che vuol dire?

- La Cerebrum lavora da anni a questo progetto – Mattia Gobetti si schiarì la voce. – Un microchip, il TrueBrain, contenente dieci miliardi di neuroni elettronici e qualcosa come centomila miliardi di sinapsi artificiali. Un cervello, in poche parole.

- Avete ricreato un cervello elettronico?

Eva avvicinò la punta del naso al vetro. Il microchip era appena visibile, all’interno della testa dell’uomo. Il torace si solleva ritmicamente, mentre una macchina ne monitorava i battiti cardiaci. Era vivo.

La voce di Eva fu un lamento appena percettibile: – Mattia, cos’è Nova?

- Nova è il centro esperimenti della Cerebrum.

Le parole di Gobetti franarono a terra, producendo un rumore assordante. Per un lungo attimo, nella stanza si udì solo il ronzio delle luci. Eva raccolse quelle parole, come si raccoglierebbe un figlio morto. Cullandole tra le braccia, le osservò. Le strinse, per non lasciarle fuggire. Le osservò ancora, per capirle.

Ma non le capì.

- Cosa vuol dire?

Mattia Gobetti strinse gli occhi in due fessure moribonde. Soffriva, questo le era evidente. Non era una cattiva persona, ma nascondeva qualcosa di cattivo.

- Voglio che ti siedi – le disse, afferrandole la mano. La portò in un angolo della stanza e indicò una sedia. Eva si sedette. – La Cerebrum non è un istituto di sicurezza che veglia su Nova. È un’azienda medica, che lavora da anni a TrueBrain, un’invenzione rivoluzionaria.

Eva ascoltò, senza parlare.

Annuiva e basta.

La Cerebrum era riuscita a realizzare un cervello artificiale, da impiantare lì dove il cervello biologico non funzionava più. Tumori, ischemie, ictus, Alzheimer, sclerosi e Parkinson sarebbero divenuti curabili. Quando il cervello si inceppava e smetteva di fare il proprio lavoro, poteva essere sostituito con una valida alternativa: un microchip perfetto che, per ora, sembrava comportarsi come un cervello vero.

- Ogni innovazione ha bisogno di sperimentazione – continuò l’uomo. – Nova serve a questo.

Eva aprì la bocca per parlare, ma riuscì solo a ingoiare aria.

- Molti casi disperati firmano un assenso per donarsi alla ricerca, come l’uomo che vedi oltre quel vetro. Ma la sperimentazione richiede un sacrificio maggiore, per il bene comune.

- Quale sacrificio?

- Vengono selezionati dei casi ospedalieri disperati, che vengono donati alla ricerca. Casi ormai irrisolvibili, s’intende. Sono i parenti a donarli. Gli abitanti di Nova…

- Gli abitanti di Nova?

- Gli abitanti di Nova sono quei casi. Studiamo come si comporta il microchip impiantato nei loro corpi. Gli forniamo un passato verosimile e analizziamo le loro reazioni a certi stimoli e le loro interazioni con altri esseri umani. La ricerca ha bisogno ancora di parecchia strada, prima che TrueBrain sia immesso nel mercato…

Eva si toccò la testa. I polpastrelli s’infilarono tra i capelli e incepparono in una linea spessa. Una cicatrice, che le circondava come un anello la sommità del capo.

- Io…

Mattia Gobetti annuì.

- Ma io sono nata a Nova – protestò. – Mio padre è nato lì, anche mia madre. I miei nonni…

Le parole di Eva incespicavano l’una nell’altra.

- Abbiamo dovuto inserire dei falsi ricordi, in ognuno dei soggetti di Nova – sussurrò l‘uomo. – Tu sei nel centro da una sola settimana.

- Dov’ero, prima? Che mi è successo?

Mattia Gobetti si leccò le labbra, come a volersi togliere l‘amaro dalla bocca.

- Eri nella polizia, esattamente come a Nova – disse. – Una rapina al centro di Bononia. Avevano preso in ostaggio dei bambini. Un proiettile ti ha raggiunto qui.

Si sporse e le toccò la tempia sinistra.

- Ha fatto un gran danno – continuò. – Esplodendo, il proiettile si è mangiato mezzo cervello. Sei stata portata di corsa alla Cerebrum, perché saresti morta di lì a poco. Da una settimana sei entrata nel programma di studio.

Eva aprì la bocca.

Vengo dalla morte.

Una lacrima premette per uscire, e le solcò la guancia.

- Filippo e Rachele Poggi? – sussurrò.

- Fanno parte anche loro del programma di ricerca. Una delle più grosse falle del TrueBrain è che il microchip è facilmente manipolabile da bravi hacker. Filippo Poggi ha davvero visto la moglie con un altro uomo, perché queste sono le immagini che noi gli abbiamo inserito. Ha provato a impiccarsi, ma l’assenza di aria non può danneggiare TrueBrain. Abbiamo dovuto disattivarglielo.

Eva si alzò. Si sentiva prosciugata.

Le avevano rubato l’anima, ecco cosa le avevano fatto.

Sentì le mani prudere. Afferrò la sedia e la scaraventò contrò la parete a vetro. L’uomo intubato non si mosse. Lei, invece, si accasciò a terra e non trovò di meglio da fare che rannicchiare le gambe al petto e piangere.

La mano calda di Mattia le si posò sulla testa.

- Lo vedi? Hai le stesse reazioni che avresti avuto con un vero cervello. Non sei né più né meno che un essere umano, Eva.

- Te l’avevo detto, che hanno occhi pieni di bugie.

Una voce, dall’entrata della stanza, fece sollevare lo sguardo di entrambi. Eva riconobbe Francesco. Stava in piedi, lungo e secco come un ramo. Alla sommità del capo, i capelli di paglia gli tremolavano, sfiorati dalla luce asettica delle lampade.

- Lui chi è? – ringhiò Mattia Gobetti. Lo afferrò e lo tirò dentro la stanza. – Io ti porto qui dentro, rischiando il posto di lavoro, e tu ti porti dietro questo scarto vivente?

La voce dell’uomo vibrò.

- R24 direbbe che ci sono strane modulazioni nella tua voce – sussurrò Eva.

- Cosa?

- Niente. – Eva si alzò da terra. – Lui è Francesco. Deve averci seguiti. Dice che la Cerebrum lo sta cercando.

Mattia Gobetti lo osservò. Le sopracciglia scure si sollevarono di stupore, quando realizzò qualcosa.

- Sei quello che hanno hackerato, non è così?

Non fece in tempo a proseguire.

Dal corridoio, il rumore delle sirene irruppe mangiando il silenzio. Il suono, simile a un latrato, si sparse in tutta la torre annunciando che un esperimento era penetrato all’interno della Cerebrum.

- Ti hanno localizzata – disse l’uomo. – Seguitemi, vi farò uscire da qui.

- Torniamo a Nova?

- No, Eva, non a Nova. A Bononia, nel mondo vero.

Mattia l’afferrò per un bracciò. Con l’altra mano arraffò per la collottola Francesco. Corsero per i corridoi, fino agli ascensori. Quando furono al piano terra, l’uomo imboccò il corridoio opposto a quello da cui erano entrati.

- Ora ascoltami – disse. Prese la testa di eva tra le mani e le piantò le iridi grigie addosso. – Quando sarete fuori, segui lui.

Mattia indicò Francesco, che li osservava con uno sguardo azzurro mangiato dalla fame.

- Ti porterà dai membri dell’Animula. Sono quelli che sono riusciti ad hackerare il suo microchip. Fanno parte di un’associazione che lotta per i diritti umani. Mi hai capito?

Eva annuì. Serrò le labbra.

Un attimo dopo, lei e Francesco erano fuori.

Dall’altro lato del Grande Muro.

5. Il Mondo

La luna era rotonda. Una moneta luminosa, che gettava una luce pallida sulla città: quella che Mattia Gobetti aveva chiamato Bononia.

Il mondo vero.

Eva e Francesco se ne stavano fermi davanti ai resti di colonne rosse che spuntavano in mezzo ai grattacieli. Macerie di qualcosa che non esisteva più. Eva sollevò lo sguardo. Davanti a loro, su un incrocio tra due viadotti, s’innalzava uno schermo luminoso con la pubblicità della Eratex.

- Dove andiamo? – chiese.

Francesco indicò una collinetta, che sorgeva sopra la città.

S’incamminarono. La notte li accompagnò. Pochi veicoli passavano, senza prestare attenzione a Francesco. Non dava nell’occhio, in quel pezzo di mondo. Altri, come lui, dormivano ai bordi delle strade, con gli stessi capelli fitti come sterpaglia, gli stessi stracci maleodoranti. Se ne stavano accasciati tra i rifiuti, a dormire sul pavimento caldo della strada.

- Prendiamo una navicella – biascicò Francesco, fermandosi a una pensilina.

Il suo profilo secco, sembrava sciogliersi nell’aria. Eva temette che sarebbe potuto sparire da un momento all’altro, se un alito di vento caldo l’avesse scosso. D’istinto, gli afferrò la mano.

La navicella arrivò poco dopo. Si fermò, le porte si aprirono con uno sbuffo e loro entrarono, unici viaggiatori a quell’ora di notte. Il veicolo proseguì la sua corsa lungo la strada. Passarono davanti a una torre. Non era come la torre della Cerebrum, che li salutava da lontano spargendo la sua luce azzurrognola sui tetti. Questa, era antica. Si chinava verso la strada come a volersi accasciare da un momento all’altro. La luce dei faretti ne rivelò il colore rosso, di mattoni consumati. Era un pezzo di mondo vecchio, che era sopravvissuto chissà come.

Si lasciarono la torre alle spalle, e proseguirono. Francesco stava zitto, perso nel suo mondo. Eva, invece, non riusciva a calmarsi. Cercava di mettere insieme i pezzi delle parole di Mattia Gobetti e ancora il puzzle le sembrava storto, sbagliato.

Ripensò al bacio dato nel cortile della scuola.

Sentì un forte dolore bruciarle nella pancia.

Non sapeva se quel ricordo era vero.

E suo padre? Sua madre? I suoi nonni? Solo dati immessi da un computer, per creare un passato verosimile? Quella volta che era caduta dalla scalinata di casa: quello doveva essere stato vero, perché ricordava il dolore. Aveva sei anni e stava saltando dalle scale. Prese male le misure e si schiantò a terra. Il mento le si aprì in due e dovettero incollarle i lembi di pelle. Sua madre l’aveva sgridata. Una sfuriata di quelle fatte a dovere, per cacciare via la paura che si era presa. Dopo, l’aveva abbracciata. La sera, le aveva preparato una crema dolce.

Eva sfiorò il mento con i polpastrelli .

Nessuna cicatrice.

- San Luca – annunciarono gli altoparlanti della navicella.

- Scendiamo – disse Francesco.

Eva raccolse tra le mani i suoi ricordi, li accartocciò e li buttò via.

Ormai non avevano più importanza.

Arrivarono in cima alla collina che ormai albeggiava. Il sole si stiracchiava dietro i monti. Si arrampicava pian piano per il pendio, e la sua luce pallida scivolava silenziosa a lambire i resti di un edificio corroso dal tempo. Si scorgevano colonne e un ampio spiazzo, di fronte a pochi muri smangiucchiati. Francesco proseguì, come se qualcuno gli avesse stampato una mappa negli occhi.

- Come fai a sapere che siamo sulla strada giusta? – sussurrò Eva.

Lui sollevò il braccio e puntò il dito verso una zona d’ombra. Nell’aria livida del mattino, un ragazzo robusto venne loro incontro. Sorrideva.

- Ce l’hai fatta, alla fine, 001! – La sua voce si sparse nell’aria e fece eco tra le rovine.

- Sono Francesco.

- Scusa, Francesco. Per noi sei sempre stato 001! Il primo caso di hackeraggio di un microchip della Cerebrum! Benvenuto a casa!

Il ragazzo allargò le braccia e fece l’occhiolino a Eva. I boccoli biondi gli tremarono, mossi dal leggero vento che accarezzava la collina.

- Hai portato un’amica! Io sono Nick. Nick Poggipollini. Seguitemi!

Nick Poggipollini li guidò attraverso gli alberi. Dietro le fronde, li aspettava una botola aperta. Il covo dei membri di quella che Mattia Gobetti aveva chiamato Animula.

Quando furono nel bunker, una decina di occhi si voltarono all’unisono a fissarli. Tra schermi di computer accesi, musica che si diffondeva tra le pareti, e gente accasciata sui divanetti, calò il silenzio.

The lunatic is on the grass

The lunatic is on the grass

Remembering games and daysy chains and laughs

Got to keep the loonies on the path.

Quella vecchia canzone era l’unico suono udibile, nella stanza.

Tutti fissavano Francesco.

- 001! – esultò finalmente un ragazzo, schizzando in aria come afferrato da una scarica elettrica. Gli altri gli fecero eco e Francesco si grattò la testa, stordito.

- Francesco – puntualizzò, ribadendo il suo nome.

Eva sorrise.

C’era un’aria di festa.

C’era odore di vita.

6. La Forza

- Gli stanno dando una sistemata al microchip – disse Nick, poggiando sul tavolino due birre ghiacciate. – Francesco ha dovuto subire parecchi attacchi dai nostri hackers, ma ora lo rimetteranno in sesto. Tornerà come prima. Non come prima di… Insomma, come l’avevano programmato quelli della Cerebrum.

Eva sorrise. La musica si diffondeva nel bunker, scivolando tra oggetti che non sembravano appartenere a quell’epoca. Parevano usciti fuori da una macchina del tempo.

- Bello vero? – gongolò Nick, sorseggiando la birra. – Questa roba l’abbiamo trovata in giro per le discariche o sotto vecchie macerie. Ha un certo fascino.

- C’è altro, oltre questa città? – chiese Eva.

L’idea che, ancora una volta, potesse essere imprigionata nell’unica città sopravvissuta, le provocò un certo prurito.

- La Grande Guerra ha spazzato via mezzo mondo – rispose il ragazzo. – Sono rimaste solo città stato, in mezzo ai deserti. Adesso ognuno si fa i fatti propri e ognuno prospera con la propria tecnologia. Bononia è uno dei centri più avanzati.

- Il microchip di Francesco, l’avete hackerato per contrastare la Cerebrum… – aggiunse Eva, passando un dito attorno al bordo del bicchiere. – Perché?

Nick prese una cartina e la riempì con del tabacco, che sparse nell’aria un leggero e piacevole aroma. Rollò la sigaretta e l’accese. Diede un tiro.

- Tabacco. Immagino non se ne trovi facilmente, a Nova. Ne vuoi?

Eva prese la sigaretta tra le dita e aspirò. Il sapore dolciastro le pizzicò il palato. Tossì.

- Francesco è il caso 001 – continuò il ragazzo. Riprese la sigaretta e fece anelli di fumo. – Il primo caso di hackeraggio di un cervello artificiale. I motivi per cui contrastiamo la Cerebrum sono due.

Nick Poggipollini si sporse oltre i cuscini verde mela e si grattò la barbetta bionda.

- Il primo, è che è eticamente vigliacco usare esseri umani come cavie da laboratorio. Il secondo, è che il rischio che un hacker s’intrometta e riempia di informazioni sbagliate il microchip di qualcuno, è un rischio tangibile. Immagina se qualcuno hackerasse il TrueBrain di comuni cittadini: potrebbe manipolarli a suo piacimento. Potrebbe usarli per rapine, omicidi. Per scatenare altre guerre. Qualcuno potrebbe iniziare a impiantare cervelli artificiali, solo per avere un esercito di umani manipolabili. Non sempre la tecnologia porta a un mondo migliore. Per questo amiamo circondarci di cose vecchie, qui dentro.

Nick morse la sigaretta tra le labbra, stiracchiò le braccia e le incrociò dietro la nuca.

- Il modo in cui ci siamo infiltrati nel microchip di Francesco, è l’esempio lampante che si può fare. Che è facile farlo. Se tutto questo non ti bastasse, sappi che la Cerebrum è finanziata dalla Eratex, con la quale ha un accordo: lei sgancia la grana, e in cambio sfrutta la manodopera di persone a cui è stato fatto l’impianto. Avrai notato che la metà degli abitanti di Nova lavora alla Eratex. Se non è questa, una violazione dei diritti umani…

Eva stette in silenzio. Mandò giù la birra ghiacciata, insieme all’enorme confusione che le ronzava in testa. In quel momento, Francesco fece capolino dalla porta. Gli avevano rasato i capelli e così sembrava ancora più magro. Gli avevano messo vestiti nuovi, puliti, che non nascondevano però le braccia ossute.

- Ti riprenderai – commentò Nick, dandogli una pacca sulla schiena. – Qui il cibo non manca. Ritornerai come nuovo nel giro di qualche settimana!

Il ragazzo lasciò il posto a Francesco, che si sistemò tra i cuscini. Il suo corpo sembrava impacciato, abituato com’era a nascondersi tra le ombre di Nova.

- Come stai? – gli domandò.

- Bene, credo.

Gli occhi del ragazzo sorrisero. Erano pozzi azzurri. Eva vi scavò dentro, alla ricerca di qualcosa di sepolto. Chissà cos’avevano visto, in vita.

- Non abbiamo più un passato…

Eva non riuscì a trattenere quelle parole. Le caddero di bocca, pesanti come macigni. Ci pensò Francesco a raccoglierle, nonostante fosse magro come un giunco.

- Abbiamo un futuro, però – sussurrò il ragazzo. – E questo vale molto di più.

Eva sentì la bocca allargarsi in un sorriso. Era la prima volta che le succedeva, da qualche giorno a quella parte.

La musica li raggiunse, sussurrando qualcosa.

Li accarezzò, gentile.

Quello era un nuovo inizio.

The lunatic is in my head. The lunatic is in my head You raise the blade, you make the change You re-arrange me 'til I'm sane. You lock the door And throw away the key There's someone in my head but it's not me. And if the cloud bursts, thunder in your ear You shout and no one seems to hear. And if the band you're in starts playing different tunes I'll see you on the dark side of the moon.