Il parallelo teologico con la vita di Cristo e la dialettica marxista s’intrecciano in una duplice direttrice che funge da colonna portante per la storia. Il rapporto tra umani e replicanti, tra gli uomini e i loro simulacri organici “raffinati” dal codice genetico di donne e di uomini, opportunamente trattato per incrementarne resistenza fisica, forza muscolare e doti intellettive, trasfigura in chiave futuristica il classico

Roy Batty (Rutger Hauer), il leader dei replicanti ribelli del film culto Blade Runner (Ridley Scott, 1982). Le memorie artificiali potrebbero presto diventare realtà, esponendoci al rischio del controllo di governi, multinazionali e altri gruppi di potere occulti.
Roy Batty (Rutger Hauer), il leader dei replicanti ribelli del film culto Blade Runner (Ridley Scott, 1982). Le memorie artificiali potrebbero presto diventare realtà, esponendoci al rischio del controllo di governi, multinazionali e altri gruppi di potere occulti.
tema dello scontro di classe. La soluzione, che nelle mani di un regista non propriamente progressista come Scott avrebbe potuto facilmente risolversi nella conservazione dello stato delle cose, in realtà si rivela ben meno rassicurante per il fronte umano del conflitto: Deckard, salvato dalla sua nemesi ma ferito nell’orgoglio, si incammina verso un futuro da clandestino, da esule o espatriato, e in attesa di trovare la sua via per le stelle, alla volta di una colonia extra-mondo in cui ricominciare daccapo con la sua Rachael, dovrà affrontare ben due dilemmi. Gaff gli ha risparmiato l’arresto, ma lo ha lasciato con un terribile interrogativo. Deckard non ha la certezza che Rachael sia davvero speciale, come gli aveva confidato Tyrell: potrebbe essere il primo esemplare di una nuova generazione di replicanti, il prototipo di una ipotetica serie di Nexus-7 senza limiti di tempo. Ma potrebbe anche essere solo un replicante dalle false memorie perfezionate fino allo stato dell’arte, in maniera analoga ai Nexus-6 con cui Deckard ha avuto modo di confrontarsi nel corso della sua lunga, ultima notte a Los Angeles. Quale che sia la verità, sarebbe solo la penultima rivelazione. L’ultima verità, la rivelazione definitiva, infatti, ha a che fare direttamente con la sua natura: con il meccanismo di innesto delle false memorie spinto ai risultati che ha avuto modo di apprezzare in Roy, in Rachael e negli altri replicanti della sua ultima caccia, chi può assicurargli che non sia proprio lui l’ultimo prodotto delle catene di montaggio della Tyrell, il cacciatore definitivo (o almeno un suo prototipo ancora in prova) destinato a contrastare l’ammutinamento di un tipo di replicante più umano dell’umano?

Lo snaturamento delle dinamiche di natura non si ferma alla biogenetica, pur con tutti i risvolti etici sollevati dalla sottomissione della scienza alle logiche produttive di un capitalismo industriale redivivo (e dopo la prima fase industriale, la transizione monopolistica e la globalizzazione dei servizi, che si tratti di una chiusura del ciclo, di un secondo giro di ruota?). La riflessione metaforica del film non risparmia gli aspetti ecologici.

Ridley Scott e Philip K. Dick posano davanti agli storyboard di <i>Blade Runner</i>
Ridley Scott e Philip K. Dick posano davanti agli storyboard di Blade Runner
Il turbocapitalismo deve ricorrere a uomini nuovi da laboratorio opportunamente ingegnerizzati per sostenere il proprio slancio verso la conquista dell’universo e l’asservimento totale della natura. Ma come ogni processo, esso stesso produce prodotti di scarto. Un effetto collaterale, questo, che si risolve nella contaminazione terminale del mondo: la città del futuro è un inferno metropolitano, uno sterminato complesso di bolge per le cui strade, ventiquattro ore su ventiquattro, va in onda l’orrore dell’abbandono e della disperazione. Non è il kipple, la negazione di ogni speranza, ma la città è un Ade dominato dalla piramide del Purgatorio: la scalata al monte non porterà a Roy Batty l’agognata libertà, ma solo la consapevolezza dell’irreversibilità della propria condizione. E sulla città, per tutta la durata del film, imperversa un diluvio universale che, malgrado le sue proporzioni, non si rivela capace di spazzare via dalle sue strade tutto il marciume e la disperazione.

Non a caso, alla fine Deckard decide di cercare fortuna altrove. Nella versione del 1982, fugge con Rachael a bordo della sua auto verso un orizzonte ancora incontaminato (sequenze girate da Kubrick per l’apertura di Shining, poi inutilizzate e quindi prestate a Scott per la messa al punto di un finale in linea con le richieste della produzione). Ma già nella Director’s Cut questa prospettiva solare manca: Deckard e la sua sposa replicante si accingono ad abbandonare la città, ma davanti a loro c’è solo incertezza e dubbio. L’incertezza e il dubbio di chi non può fare a meno di opporsi a un meccanismo congegnato appositamente per strangolarlo, ma nonostante tutto resta consapevole del germe della distruzione che è connaturato in lui. È questa la loro dannazione, una forma forse ancora più subdola di quella che è toccata in sorte ai replicanti ribelli. Volendo perseverare nel parallelo teologico, si potrebbe pensare al peccato originale. Sempre che il sacrificio di Roy Batty, sul tetto del Bradbury Building preso d’assalto dalla tempesta monsonica, non sia valso anche il loro riscatto. E, magari, il nostro.