Un romanzo in presa diretta sul futuro, questo Sezione Pi-Quadro vincitore del Premio Urania che inizia il 5 novembre. L’uscita in edicola, curiosamente, avverrà negli stessi giorni in cui è ambientato. Come nel precedente romanzo italiano apparso su Urania, Infect@ di Dario Tonani, con cui a ben guardare c’è più di un punto comune, la qualità ci è sembrata a dir poco notevole. Sui meriti del libro, considerazioni e commenti abbiamo preferito inserirli nella conversazione con l’autore. Parliamo dunque con Giovanni De Matteo, uno dei più giovani vincitori del premio, ma tutt’altro che un completo esordiente.

Al centro del tuo romanzo, come in tanta della fantascienza migliore, c’è soprattutto un’ambientazione. In Sezione Pi-Quadro, la metropoli multietnica e multiculturale immersa nella tecnologia e nei suoi detriti non è New York, Los Angeles o San Francisco, ma è Napoli. Come in William Gibson, incombe una sterminata estensione urbana. Ma l’Agglomerato del Nord è lontano: insomma, anche la vertigine della Singolarità, il salto di qualità prodotto dalla pervasività della tecnologia, produce una periferia dell’impero. E una parola chiave del libro, ripetuta da tanti, è “dolore”. Vogliamo cominciare di qui? Per esempio da frasi ancora più terrificanti se prese fuori contesto come: “I nostri figli sono morti […] e noi li abbiamo uccisi”. Cos’è il dolore della tua Napoli fantascientifica?

È il dolore di una intera città, distrutta da secoli di speculazioni e abusi. Una città che è l’emblema di un po’ tutto il Mezzogiorno, tenuto ai margini del panorama globale dal cieco ritornello di politiche ottuse e prive di prospettive. Un microcosmo in cui “tutto cambia per non cambiare nulla”. Se nelle megalopoli che tu citi possiamo individuare una frattura tra le vetrine sgargianti della downtown e la proliferazione indiscriminata delle periferie, Napoli è oggi ancora più paradigmatica, in questo senso. È una città fagocitata dalla sua periferia, incapace di opporre una resistenza sistematica alle piaghe che la dilaniano. È la seconda città d’Italia (se ne prendiamo la conurbazione) ma non ha una sua consistenza economica che possa permetterle di esercitare un ruolo che pure le spetterebbe per storia e posizione geografica, ovvero quello di locomotiva economica del Sud intero. O meglio, non ha una economia emersa che possa reggere il confronto con realtà analoghe: il sommerso è tutta un’altra storia. Frutto avvelenato di politiche populiste, che qui meglio che altrove sono riuscite nel perpetuare l’antica strategia imperiale del “panem et circenses”. Napoli e il Meridione che in essa si specchia sono una terra di grandi contrasti, ed è per questo che ho trovato così interessante esplorarla ed estrapolarla.Nella mia proiezione futura, Napoli ha visto aggravarsi il suo intero quadro clinico, malgrado il miraggio remoto di una Singolarità che parrebbe aver rischiarato, invece, il resto del mondo. Altrove si sono prodotti cambiamenti significativi, ma Napoli ha apprezzato la rivoluzione solo attraverso ricadute secondarie, e non dovrebbe sorprendere.La citazione che hai estrapolato è particolarmente inquietante, concordo con te. Credo che abbia l’effetto di una pugnalata, o almeno io ho sentito dentro una sensazione di immediato disagio mentre la scrivevo. Perché deriva da una percezione di come stanno già oggi le cose e da una riflessione su come potrebbe essere (peggiorata) la situazione fra cinquant’anni, tenendo conto dei ritmi attuali. Prendila pure come una dichiarazione di responsabilità a priori. Per me sarà un po’ come un promemoria.