Tania seguì con il polpastrello il lungo graffio sul vecchio tavolo in larice e si portò il ditino alle labbra, per pensare. Seduta sopra la sedia di paglia intrecciata non arriva­va a toccare il pavimento. I suoi piedi scalzi dondolavano nel vuoto e si sfioravano appena, come nastro un po' lungo di un grosso fiocco rosa. Scendere dalla seggiola e posare i piedini per terra le faceva venire i brividi.

Corrugò la fronte e allungò lo sguardo oltre l'estremità opposta del tavolo; quattro passi dei suoi... e le sue pantofo­line erano là, in un angolo buio di morbide ragnatele bianche. La superficie del tavolo era ricoperta di complicati ghirigori, sfregi e graffi che affondavano profondi nel legno.

Passò di nuovo il ditino sopra uno di questi e lo portò alla bocca, per sentirne il sapore sulla lingua. I graffi - si ricordava bene - sanno di dolciastro e di ferro antico.

Un sapore come di follia le colmò il palato; intenso, familiare, infido.

- Ruggine - disse piano fra sé.

Tornò a guardare le sue pantofole lontano. Non le andava di scendere e camminare; farsi scoppiare il cuore con gli oc­chietti che frugavano spaventati per terra. Valutò le dimensioni del tavolo, lo sguardo fisso sulla brocca d'acqua che stava nel mezzo, sopra un centrino ingiallito. Ebbe paura. Non aveva mai fatto una cosa simile. Non dopo una promessa. Sentiva sulla lingua l'aroma pungente della ruggine; aveva la gola secca.

Bronco si sarebbe molto arrabbiato e avrebbe fatto in modo di tenerla buona con altri mezzi, più convincenti. Forse le avrebbe messo le pantofole in cima alla credenza o appese alle travi del soffitto con un grosso chiodo e uno spago che le facesse dondolare sopra i suoi capelli. Molto in alto, però. Oscuro e severo pendolo del castigo.

No, Bronco non è poi così cattivo. Bronco è solo...

...

Tania lanciò un'ultima occhiata lungo la superficie coperta di graffi, si alzò in piedi sulla sedia, mise un ginocchio sul tavolo e comin­ciò il suo furtivo tragitto carponi...

Sì, Bronco, il suo adorato fratellone, era pazzo.

* * *

Il fabbro squadrava il ragazzo lisciandosi le mani nel grembiule di cuoio. Una pioggia di trucioli e farina di legna gli piovve sugli zoccoli. Prese il sacchetto che aveva da parte e glielo allungò con una smorfia. Pareva attento a non toccare le sue dita, a non sfiorare la sua carne floscia, a non respirare il suo alito amarognolo. Ritrasse la mano. Esitava prima di rimettersi al lavoro. Batté i piedi per liberare gli zoccoli dai trucioli di legno e si fermò ancora finché non lo vide uscire dalla bottega. Bronco lo udì sventolare un vecchio straccio quasi volesse arieggiare il locale, poi la porta a vetri si chiuse sbattendo alle sue spalle. Il ragazzo montò in bicicletta. Il barboncino di signora Bramanti gli corse incontro saltellando.

- Vieni qui, Fuliggine! - chiamò la donna, indispettita.

Il cucciolo smise di saltellare e corse a rifugiarsi tra le gambe della padrona.

Con il calare del sole il vento si era fatto pungente.

Il ragazzo pedalò veloce verso casa, in salita. Era grasso e flaccido ma aveva le gambe allenate; sotto una fronte perennemente aggrottata due fessure azzurre scrutavano il mondo con diffidenza. I capelli erano sempre arruffati e sporchi e avevano il colore del rame vecchio; le labbra, sottilissime, erano aggricciate sulle gengive, in un involontario ghigno di scherno; i denti erano giallognoli e quasi tutti guasti e quando - di rado - sorrideva, non comunicavano che una smorfia di disgusto. La carnagione era gialla, a tratti percorsa lungo le guance e sugli zigomi dal vivido rossore dei capillari rotti.

La mano destra inclinò sapientemente il manubrio da un lato. La bicicletta aveva le camere d'aria forate: i copertoni mosci lasciavano sul selciato lunghe scie di fango scuro. Oltre la curva si profilò una rampa più ripida, fiancheggiata da casupole in ardesia con le imposte spalancate e le tende tirate.

Bronco aumentò il ritmo delle pedalate. Cominciò ad ansimare. Quel tratto della salita era sempre accompagnato da un fastidioso ronzio negli orecchi e dalla vaga sensazione di essere osservato. Con ostili­tà. Disprezzo. Timore.

Qualcuno gli tirò un sasso. Il ronzio nella testa si fece assordante.

- Ruggine, sudi come un porco! - gridò una voce.

- Non ti lavi mai? Un giorno o l'altro ti buttiamo nel ruscello vestito - le fece eco un'altra.

- E' bacato nel cervello. Ruggine ha le ascelle che puzzano di letame. Chissà se pensa che anche sua sorella non debba vedere il sapone...

Una seconda pietra rimbalzò nei raggi della ruota davanti e schizzò lontano.

Gli sferzò la schiena. Non si voltò neppure, smontò dalla bicicletta e imboccò un sentierino che saliva verso monte, fra ciuffi di erba alta e arbusti secchi. Più volte aveva pensato che poteva lasciare lì la bicicletta, ma temeva che qualcuno gliela portasse via. Così, solo per farlo scendere in paese a piedi e prenderlo meglio a sassate. Lì il pendio era più scosceso, ma si sentiva al riparo dall'ostilità dei suoi compaesani; protetto dalle fronde, nel suo territorio, non temeva imboscate e per la prima volta quel giorno si rilassò. Lassù non saliva nessuno, anche se una volta un paio di ragazzini si erano messi a spiarlo accucciati nel­l'erba. La sua stamberga era una misera ricompensa per chiunque avesse l'ardire di giungere fin lì; pietre grigie consumate dal tempo, legni marci per imposte e tegole che pioggia e neve si ostinavano a mordere con avidità, da settembre fino a marzo inoltrato. Il comignolo era stato colpito da un fulmine in una notte di tempesta e svettava monco come il femore di un cadavere.

Bronco prese a fischiettare una vecchia canzone. La mano sinistra stringeva forte il manubrio guidando la vecchia bicicletta tra le insidie del sentiero. La destra era affondata nella tasca dei calzoni, che su quel lato erano incrostati di fango secco e avevano altre macchie vecchie di anni. La mente gli era tornata libera e silenziosa, il ronzio negli orecchi era scomparso. Solo le gambe gli dolevano per la lunga pedalata. Guardò in alto verso l'uscio di casa sua e contrasse di più il labbro superiore sull'angolo destro della bocca.

Esalò un lungo respiro e fischiò debolmente tra i denti: il sacchetto che aveva acquistato dal fabbro del paese oscil­lò piano nella brezza gelida della sera, appeso alla canna del te­laio...

* * *

- Promette una gelata del demonio - farfugliò l'uomo con il cappel­lo alitando sulle nocche infreddolite.