Cardanica

 Il Guardiasabbia sollevò appena il cappello e si passò le dita sul cranio lucido. I lunghi tergicristalli neri spazzolavano adagio il vetrogel della plancia alimentandolo con un composto di alcali e sali minerali. Il primo giorno del quarto mese di viaggio era un mercoledì nuvoloso, che prometteva pioggia entro sera. Avevano avuto grane la notte precedente e quella prima ancora: piccoli inconvenienti in manovra, dovuti a improvvise panne dei motori, abbastanza rognose, però, da far scattare gli allarmi e innervosire l’equipaggio.

La nave nemica da cui stavano scappando era enorme e per fortuna piuttosto lenta. A distanza di giorni, l’affanno della fuga e le schermaglie dell’inseguimento si erano fatte sentire e le caldaie avevano continui cali di pressione.

 A parte il colosso che si rimpiccioliva via via alle loro spalle, da oltre sei settimane non vedevano che dune e terra arsa dal sole: una sterminata monotonia di gialli, interrotta soltanto dal rotolare indolente dei grossi cespugli a palla, dentro i quali - protetti da una cellula ricavata tra le spine - viaggiavano qualche volta gli Ghmor, i nomadi del vento che abitavano le aree subtropicali di Mondo9.

 I tergicristalli rientrarono silenziosamente nelle loro sedi e lasciarono che il vetrogel finisse di bere. Tutto sulla Robredo era pensato per sopravvivere a condizioni estreme e a un impiego esasperato. Garrasco D. Bray era stato imbarcato su altri quattro cargo col grado di Guardiasabbia, ma nessuno poteva reggere il confronto con quella imponente meraviglia: trentasei ruote - cinque metri e quaranta di diametro ciascuna - oltre 25.200 tonnellate di dislocamento, otto caldaie in grado di sviluppare 45.000 cavalli vapore, 73 uomini di equipaggio, sei compartimenti indipendenti, e dunque altrettanti treni gomme autonomi. Un capolavoro di metallo e vetrogel, all’interno del quale, erano incastonate come autentiche gemme di ingegneria meccanica, le sei aree che consentivano alla Robredo di viaggiare senza eccessivi scossoni su qualsiasi asperità del terreno, i sei pneumosnodi. Da solo ognuno valeva più del resto della nave. Se la Robredo fosse morta, naufragata nelle sabbie subpolari o spezzata dalle tempeste elettriche della regione attorno ai grandi laghi, gli pneumosnodi si sarebbero sganciati dal resto della nave e un programma li avrebbe messi in grado di raggiungere autonomamente il porto più vicino, dove sarebbero stati installati sul primo cargo compatibile. Qualsiasi armatore avrebbe sborsato cifre da capogiro e allestito in fretta e furia un esercito di tecnici pur di poterli montare a bordo della propria nave.

 Ovunque fosse stato, Garrasco non aveva visto più di una parure di due pneumosnodi. E mai quelli di ultima generazione, montati sulla Robredo.

 Il secondo pilota Victor Galindez piegò leggermente il timone a sinistra. Con uno stridere di lamiere levigate, la Robredo ;;;si accinse a curvare. Il rumore crebbe d’intensità fino ad assumere il tono lamentoso di metallo contro metallo. Il pilota aumentò l’inclinazione della ruota di governo, puntellandosi con i piedi sul pavimento di linoleum. Per evitare che la Robredo si impantanasse prima ancora di iniziare la curva, la velocità non doveva scendere che di un paio di miglia all’ora. Garrasco teneva sott’occhio i comandi in plancia.