Ci sono due ombre che aleggiano su questa pellicola. Si tratta di due ombre titaniche, sebbene i nomi non vengano mai citati nella ricostruzione filmica di uno dei più incredibili episodi nella storia dei servizi segreti americani. Due giganti che hanno segnato la storia del nostro immaginario, che in vita furono rispettivamente un maestro del fantastico e uno dei massimi artisti di fumetti del XX secolo: Roger Zelazny e Jack Kirby. Il primo non viene nemmeno mai citato, al secondo invece viene ritagliata una particina che non rispetta pienamente la verità storica di quanto accaduto. A Zelazny, da menzionare anche per un’affinità segreta tra il suo Signore dei Sogni (The Dream Master, 1966) e Inception, almeno per quanto riguarda l’idea alla base del film di Christopher Nolan e per una trovata desunta da uno dei suoi racconti più celebri (“Una rosa per l’Ecclesiaste”, 1963), autore di punta della New Wave che rinnovò la fantascienza a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, e poi autore fantasy di successo internazionale grazie alle Cronache di Ambra, dobbiamo infatti il romanzo Signore della Luce (Lord of Light, 1968), vincitore del Premio Hugo, che sul finire degli anni ’70 fu vicinissimo a trasformarsi prima in un film (con un budget annunciato di 50 milioni di dollari) e poi in un parco a tema che avrebbe trasformato i set della pellicola ad Aurora (Colorado) in una science fiction land, senza che purtroppo se ne facesse nulla di entrambi i progetti. A Kirby, ideatore con Stan Lee di una larghissima fetta dell’iconografia della Casa delle Idee, da Capitan America a Thor, da Hulk ad Iron Man a Magneto, dai Fantastici Quattro agli X-Men, fino alla paternità esclusiva attribuitagli per la più nostalgica e fantascientifica figura nel consesso dei supereroi Marvel, il Silver Surfer, si devono invece i bozzetti dello storyboard mai trasposto al cinema, in cui le sontuose e rutilanti visioni di Zelazny prendevano vita in scene ricchissime di dettagli, intrise di un gusto per l’esotico che convinse Tony Mendez, agente della CIA, specialista in esfiltrazioni, a farne la chiave di volta dell’operazione denominata “Argo”.

Il film di Ben Affleck, prodotto da George Clooney e Grant Heslov (già artefici di Good Night, and Good Luck), è la storia di questa parentesi compresa nella crisi degli ostaggi in Iran, con un finto film di fantascienza a fungere da cavallo di troia per infiltrarsi a Teheran e liberare i sei cittadini americani intrappolati nel paese. I sei funzionari furono gli unici cittadini americani riusciti a mettersi in salvo al momento dell’assalto lanciato  la mattina del 4 novembre 1979 dal popolo sobillato dall’Ayatollah Khomeini: gli altri 52 membri dell’ambasciata statunitense furono presi in ostaggio e proposti come merce di scambio al Grande Satana per riavere lo shah fuggito a New York e processarlo per i crimini perpetrati contro il popolo iraniano durante il suo lunghissimo regime di terrore sostenuto dagli USA. La crisi si sarebbe protratta per 444 giorni, fino al 20 gennaio 1981, ma fin da subito apparve prioritario per la Casa Bianca riportare in patria i sei funzionari riparati presso l’ambasciatore canadese Ken Taylor, che in caso di cattura avrebbero rischiato l’esecuzione capitale immediata.

Mentre gli analisti dell’intelligence si arrovellano nella ricerca di un piano di estrazione per i sei e le ipotesi si susseguono in soluzioni sempre più bislacche e irrealistiche (come spedirgli biciclette e mappe e farli pedalare in mezzo all’inverno iraniano per centinaia di chilometri fino al confine con la Turchia), Tony Mendez (Ben Affleck) ha l’intuizione che potrebbe salvare la vita ai fuggiaschi: introdursi in Iran sotto l’identità di copertura di un produttore canadese, intenzionato a visionare alcune location per il suo prossimo film, e trasformare i sei fuggiaschi – grazie alla complicità del governo di Ottawa – in membri della sua troupe. Ma chi crederebbe a un film da girarsi in uno dei paesi più instabili e pericolosi al mondo? Quindi, dal momento che l’idea deve essere così grandiosa, assurda, bizzarra, da riuscire credibile anche ai funzionari della Repubblica Islamica, il soggetto ideale va ricercato in uno dei copioni sospesi tra space opera e fantasy che si accumulavano sulle scrivanie dei produttori del periodo. Grazie al costumista e truccatore premio Oscar per Il Pianeta delle Scimmie John Chambers (John Goodman) e a un produttore off-Hollywood (Lester Siegel, tra i personaggi principali l’unica figura di fantasia, a cui un istrionico Alan Arkin presta le fattezze e una simpatia sfrenata e irresistibile), Mendez s’imbatte nello script di Barry Ira Geller. Nella sceneggiatura ci sono monumentali scenari alieni, dominatori che si fingono divinità del pantheon hindu e avventura a tutto spiano: sembra proprio fare al caso dei nostri. Mendez ne aggiudica i diritti per appena diecimila dollari e innesca un’operazione volta a fornire la massima credibilità alla copertura: articoli, presentazioni pubbliche, uno studio di produzione. La missione, condotta in maniera congiunta con il governo canadese e ancora oggi ricordata come esempio di cooperazione internazionale, meriterà al suo ideatore una Intelligence Star, onorificenza destinata a restare segreta fino al 1997, quando il Presidente Clinton declassificò l’operazione.

Tra note di colore sull’ambiente della fantascienza cinetelevisiva di quegli anni e commenti più generali sullo stato del cinema e della politica (il parallelo tra Hollywood e Washington è fin troppo esplicito, con le ossessioni e i vizi dell’una che si rispecchiano nell’altra), il film prende una piega spionistica. Il tocco di Affleck alla regia è particolarmente ispirato quando si tratta di costruire e mantenere la tensione e l’angoscia dei reclusi in attesa di una liberazione che si prospetta di giorno in giorno meno probabile. E conserva una notevole efficacia anche nella ricostruzione del clima di quei 444 giorni: con le impiccagioni pubbliche dei sospetti di tradimento e le fucilazioni simulate degli ostaggi volte ad alimentare un clima di irriducibile terrore psicologico. Dove forse si lascia un po’ andare è nella caratterizzazione dei personaggi. Le figure “statiche” sono le più riuscite: oltre ai già menzionati Goodman e Arkin, vale la pena citare anche le prove di Bryan Cranston (il responsabile dell’operazione, Jack O’Donnell), Victor Garber (nei panni dell’ambasciatore Taylor) e Kyle Chandler (Hamilton Jordan, capo dello staff del Presidente Jimmy Carter). Quelle dei sei funzionari, invece, risentono di un’evoluzione forse un po’ troppo affrettata, per quanto comunque funzionale nell’economia di un film che ha il grosso merito di non strafare, riuscendo a conservare un equilibrio tra le sue tre parti: crisi, pianificazione della missione, operazione sul campo.

La scena chiave di Argo è dominata proprio da uno dei sei fuggitivi: Joe Stafford, che in farsi – è l’unico del gruppo in grado di parlarlo – spiega alle guardie della rivoluzione che presidiano l’aeroporto di Teheran l’idea del film. All’inizio il meno convinto dei fuggiaschi a mettere in pratica il piano di Mendez,  Stafford si gioca tutte le sue carte nel momento decisivo da cui dipende la loro liberazione e sopravvivenza. È una scena intensa, in cui viene declinata la quintessenza del cinema come invenzione, racconto e intrattenimento: mitopoiesi allo stato puro. Stafford si mostra memore dell’avvertimento di Mendez,  che solo poche ore prima gli ha ribadito che “questa storiella è l’unica cosa tra voi e l’arma che avete puntata alla testa”, e dà fondo alle sue riserve: imbastisce dal nulla una storia fatta di ingiustizia, amore, inseguimenti e riscatto, e i militari restano conquistati dal racconto e dagli sketch dello storyboard esibiti ad arte. È un momento topico, che chiude un cortocircuito nel film e sul film, tra l’Argo di Ben Affleck e il Lord of Light di Geller e Zelazny, passando per l’operazione Argo di Tony Mendez e la sua fantasmagorica “cosmic conflagration”, la migliore cattiva idea della CIA, una missione potenzialmente suicida condotta sotto gli sguardi inconsapevoli del mondo intero. E ciò che Argo fa con l’illusione richiama molto da vicino la lezione sul prestigio di Nolan, forse non del tutto a caso.

Stiamo parlando di cinema, dopotutto, la più grande macchina dei sogni mai costruita. Dove è sempre meglio tenere gli occhi aperti, perché anche quando potrebbe sembrarti di vedere un film, in realtà potresti ritrovarti ad assistere alla Storia. Gli anacronismi, come la celebre scritta sulle colline di Hollywood ripresa in uno stato di disfacimento (sebbene fosse stata restaurata da almeno un anno all’epoca dei fatti narrati nel film), sono parte integrante dell’operazione, così come gli accostamenti tra le immagini ricostruite e quelle originali dei simboli della rivoluzione islamica (le impiccagioni pubbliche, le esecuzioni sommarie) che scorrono nell’epilogo sui titoli di coda. Tutti ci ricordano quanto sottile sia il confine tra ciò che vediamo e ciò che crediamo di vedere: tema questo che abbraccia il capolavoro di Zelazny, il cinema, l’operazione segreta della CIA per la liberazione degli ostaggi, le relazioni internazionali statunitensi (ieri l’Iran, ora i paesi attraversati dai moti rivoluzionari della primavera araba) e più in generale ogni struttura di potere.