Garrasco piegò gli angoli della bocca in una smorfia. Creatura era lì sotto, a pochi centimetri da lui.Confortante, ma di nessun aiuto.

La pioggia diminuì via via d’intensità.

Garrasco tese il collo, strinse i denti, con immane fatica staccò la nuca dal metallo e volse lo sguardo sulla sua prigione. Ogni centimetro dell’Afritania sembrava smaltato di vetro: torri, tralicci, cuspidi, alberi, balaustre, scivoli, ciminiere, grondaie, comignoli, argani, gru, pulegge, ruote dentate… Torrenti d’acqua ruscellavano schiumando lungo strade e camminamenti, si abbattevano in cascate da passerelle e pontili. Una belva liquida che ogni volta si portava via tre o quattro uomini, affogati nella furia ribollente che travolgeva ogni superficie.

La testa gli ricadde pesante sulla lamiera.

Creatura rispose con altri tre colpi, pausa, due colpi.

Silenzio.

Il cielo si spezzò, aprendosi come labbri di una ferita. D’un tratto la pioggia cessò e tra le nuvole s’insinuò un sole indolente.

Garrasco rimase ancora qualche minuto ad ansimare a bocca aperta. La mano destra gli cadde tra i capelli. Era libero. Serrò le gambe, raccolse le ginocchia al petto, si massaggiò il palmo per riattivare la circolazione. Aprì e chiuse diverse volte il pugno, osservando il luccichio metallico delle unghie. Il Morbo cominciava dalle estremità e gli aveva già preso tre dita della mano destra e quasi tutto il dorso, fino al polso. Era quella l’origine della sua prigionia, una catena più forte di un incantesimo che, senza preavviso, lo trascinava a terra o contro una paratia e lo inchiodava al metallo. Per ore, talvolta per giorni.